sabato 31 maggio 2014
saturday pic (7): Conan the barbarian...
art by Jack «The King» Kirby.
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TUMBLR

venerdì 30 maggio 2014
...uomini e lupi
È un'umanità arcaica quella che sopravvive nei racconti della raccolta Tra uomini e lupi, edita qualche anno fa dalla piccola, prestigiosa - e ormai sempre più defilata - casa editrice Pequod. Sono storie di uomini e di bestie che si intrecciano su percorsi ultramillenari dell'Appennino, dove l'eroismo del quotidiano si sposa alla fantasia, e la magia e il mistero sfumano nella leggenda sia gli uomini che le bestie. A seguito del suo antico e apprezzatissimo Il falco d'oro (che la casa editrice di Ancona ha ristampato assieme a buona parte dell'opera dell'autore) Vincenzo Pardini è stato spesso definito «scrittore degli animali». Non è sostanzialmente un concetto errato (magari un tantino 'limitativo', dipende dai punti di vista): nel volume di racconti in questione, premiato non a caso con il "Viareggio d'inverno", ci sono infatti mucche, muli, cavalli e cani. Ma, soprattutto, ci sono mondi ormai estinti - che, nel caso, sono quelli della Garfagnana - luoghi dove non sono estranei ed esclusi i vecchi, i contadini, i silenziosi. Né tanto meno i lupi, o coloro ai quali i lupi sono affini.
È tutta qui la forza di Vincenzo Pardini, il suo orizzonte di grande scrittore americano della Garfagnana: la violenta intensità del suo mondo primitivo è meglio di qualsiasi altra cosa. Dai suoi racconti non se ne esce semplicemente carichi di melensa nostalgia per il bel mondo che va scomparendo, ma se ne esce con la convinzione che quel mondo sia l'unico possibile. In Tra uomini e lupi, lo scontro tra natura e civilizzazione non diventa mai bozzettistico, né familiare (cioè troppo conciliato), è vero piuttosto che alla fine di ogni racconto resiste un fondo opaco, un mistero intatto che risplende come nel primo giorno della creazione. Vincenzo Pardini si erge nel grande numero degli scrittori contemporanei come un Profeta dell'antico Testamento che sente la tempesta che si sta addensando sui tempi futuri, e con grande franchezza narrativa, rende omaggio all'arcaico splendore del mondo.
Tra uomini e lupi
Vincenzo Pardini (Ed. Pequod)
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RECENSIONI

giovedì 29 maggio 2014
The Verdict di Lumet...

Frank Galvin ha un passato da avvocato brillante, ma vittima di penose circostanze familiari si è dato all'alcool riducendosi a non poter più difendere alcuna causa in tribunale; vivacchia quindi come «cacciatore di ambulanze», ossia facendosi attribuire la causa di piccoli incidenti cercando di vincerle per vie pacifiche in cambio di modeste parcelle. Il resto del tempo lo trascorre nei bar o a giocare a flipper assieme a un'accolita di vecchi amici tranquillizzanti. Ma quando gli casca un caso importante tra capo e collo, l'afflato di giustizia primigenio risorge in lui, redimendolo.
Con questo film del 1982 il grande Sidney Lumet ritornò al tema tribunalizio degli esordi (porta la sua firma infatti l'indimenticato La parola ai giurati del 1957) ma Il verdetto, oltre a restituirci integra la peculiare capacità del regista di fondere suspence e analisi sociale, è anche un ottimo esempio di cinema professionale, confezionato secondo i dettami dell'intrattenimento di Hollywood senza che questo comporti alcuno scotto in termini d'impegno autoriale. Reduce da il Principe della città, dove affrontava il (mal)funzionamento della polizia americana (l'aveva già fatto con Serpico, e con Quinto potere gli strali erano passati tutti contro mamma-Tv), il regista torna a prendersela con i medici, i magistrati, gli avvocati e gli uomini di chiesa, bersagli sgraditi al grosso dell'opinione pubblica americana che contesta i privilegi di certe corporazioni, nelle cui mani è il potere. E il film è obiettivamente intenso - al di là di certe semplicistiche accuse al sistema - per il merito congiunto del grande drammaturgo e sceneggiatore David Mamet, che forgia bei dialoghi
tesi, di attori di prima classe (un Newman assolutamente in parte, credibile nel ruolo di sconfitto di valore, ma anche una brava Charlotte Rampling, qui decorativa al punto giusto) nonché appunto per la mano esperta del cineasta, che sino a poco prima della sua scomparsa ha battagliato senza perdere un'oncia del suo sguardo lucido (si veda il magnifico Onora il padre e la madre) regalandoci gioiellini di cinema. Una certa sommarietà psicologica e minuscole incongruenze narrative vengono sicuramente giustificate dalla robustezza della messinscena, che punta parecchio sull'ambientazione autunnale, sugli interni old-fashion di Boston, sui concisi ritratti e sulla bella, bellissima tensione del processo finale.

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VISIONI

mercoledì 28 maggio 2014
un incipit (magnifico) della O'Connor

La schiena di Parker - Flannery O'Connor (Ed. Bur)
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STRALCI

martedì 27 maggio 2014
sangue e magia al confine col Messico...
In quel gigantesco lupanare che è il confine tra gli USA e il Messico, la giovane prostituta senza scrupoli Perdita Durango incontra Romeo Dolorosa: un eccentrico rapinatore di banche, profanatore di tombe oltreché «santero» (sciamano nella superstizione popolare messicana). Valicato il limite americano, questi due Bonnie & Clyde latini rapiscono una coppia di ragazzini yankee, guidano un camion pieno di feti umani, uccidono chi li intralcia e fanno l’amore come animali.
Sesso, sangue, deserto, ironia e magia nera. Perdita Durango (1997), scoppiettante pellicola di Alex de la Iglesia (realizzato subito dopo El dia de la bestia) è rimasto escluso dai nostri schermi per sette lunghi anni prima di irrompere nelle sale italiche proprio durante il periodo di massimo esodo del pubblico: l'estate. Ed è un gran peccato, perché Perdita Durango accumula un'infinità di chicche cinematografiche che per fortuna continuano ad alimentarne sotterraneamente il mito. All'inizio, un ghepardo sinuoso toglie coi denti il lenzuolo di dosso alla protagonista Rosie Perez nuda e dormiente. Bambine chiedono soldi con maschere di gomma sul viso, come rapinatori di banca. Javier Bardem, lungocrinuto e coi baffacci alla mongola, rapina una banca portando sulla faccia una maschera d'argento, ha il volante dell'auto fatto di catene, guida riti della «santerìa» che culminano in sacrifici umani, adora il petto delle donne e venera in maniera ossessiva il film del 1954 Vera Cruz con Gary Cooper e Burt Lancaster. Lei è una dark-lady spietata, fuma sempre, beve solo Coca Cola, ha lunghe unghie laccate di rosso-sangue rappreso.
Il film è ottimamente scritto, diretto con un intelligente gusto per l'eccesso e l'ironia spavalda. I protagonisti hanno caratteristiche opposte (lei ansiosa e melanconica, lui sbruffone e teatrale, entrambi però sono letali), ma i loro continui avvinghiamenti sessuali sono brutali e meravigliosamente filmati. La location in cui la vicenda si srotola è brulla e suggestiva (la stessa di tanti bei film di genere degli ultimi anni: da Le tre sepolture a Non è un paese per vecchi). In soldoni: una strepitosa pellicola ricolma di romanticismo cimiteriale che in Spagna ha saputo meritare numerosi Goya (astenersi stomaci deboli, però).
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VISIONI

lunedì 26 maggio 2014
... un western «aussie»
Il cinema australiano è diventato, ormai da un bel po', un serbatoio di (spesso validissime) proposte in celluloide alternative a quelle di Hollywood. Dai primi Mad Max sino al più recente Wolf Creek (presto parleremo anche del formidabile sequel dell'horror di McLean), la terra degli aussie ha saputo in questi anni crearsi un proprio spazio di sperimentazione cinematografica e, grazie anche al sontuoso scenario naturale a disposizione, ci ha regalato tutt'una serie di pellicole magari di chiara derivazione a stelle a strisce, ma sempre dalla forte impronta originale. Mystery Road, di Ivan Sen, ne è l'esempio più fulgido.
Lungometraggio dai ritmi dilatati, in cui la desolazione desertica dei luoghi sembra replicarsi nel crogiolo dei rapporti umani, reticenti quando non omertosi, il film del 2013 è uno strano punto d’incontro tra western, poliziesco e noir, visivamente assai intrigante, con una bella (ma forse un po' frettolosa) sparatoria finale che mette efficacemente a frutto l'accumulo di tensione. La vicenda s'impernia su una struttura classica: una ragazza aborigena viene trovata in un canale di scolo ai bordi di una strada, da un camionista. Il caso viene affidato al detective Jay Swan, un aborigeno integrato, originario del paese. Ma non è l’unico omicidio simile, e non l’ultimo. Jay dovrà lottare contro la diffidenza dei bianchi, ma anche contro quella della sua gente, convinta che ormai lui li abbia rinnegati.
Coadiuvato dallo splendore dell'outback, il cast sforna belle prestazioni potendo contare sulle incisive facce di Hugo Weaving, che non ha bisogno di presentazioni (remember Matrix?), e su quella del nativo Aaron Pedersen, nella parte del detective protagonista. Gli scarni dialoghi promettono risvolti ambiziosi (alla Coen, per intenderci) che forse un po' vengono disattesi nel finale, ma Mistery Road ha dalla sua la volontà di procedere per gradi, illustrandoci con velata malinconia la vita nei quartieri poveri degli aborigeni, il razzismo ancora pulsante e vivido, e lo fa senza fretta. 121 minuti che scorrono lenti, se vogliamo, senza annoiarci però, lasciando allo spettatore tutto il tempo di trarre le proprie conclusioni sulla vicenda. Muy interessante.
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VISIONI

domenica 25 maggio 2014
coccodrillo a Cannes...
Ci uniamo al coro di congratulations per il Prix Canal+ du court métrage ricevuto a Cannes da Crocodile, piccolo capolavoro di 16 min firmati da Gaëlle Denis, cineasta francese al lavoro su La legge di Fonzi nella sua versione transalpina. Auguri Gaëlle :-)
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SEGNALAZIONI,
SGUARDI

sabato 24 maggio 2014
saturday pic (6): Godzilla 2014!
Art by Arthur Adams.
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venerdì 23 maggio 2014
le passioni di Harrison


L'uomo dei sogni - Jim Harrison (Ed. Baldini Castoldi Dalai)
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RECENSIONI

Morozzi e il suo vecchio Blackout
«Ferro lava il coltello sotto il rubinetto fischiettando Don't Be Cruel, e il sangue scende nello scarico in rivoletti di un rosso scolorito e pallido.
Per Aldo Ferro la musica è iniziata con Elvis ed è finita con Elvis, non c'era niente prima di Elvis, non c'è stato niente dopo Elvis. Se Gesù è già sceso in Terra, dice sempre, dopo non ci si accontenta del primo profeta che passa per strada. Questa sparata fa sempre colpo, con le amiche di sua moglie.
Esce dal bagno giocherellando col coltello. La baracca è illuminata solo da una lampadina che pende nuda dal soffitto, le finestre sono oscurate dalle coperte inchiodate nel legno. Fuori, dietro gli alberi, il ciclo nero sbiadisce nel color asfalto che precede l'alba.
Il ragazzo legato alla sedia non si è ancora svegliato. Aldo Ferro gli gira intorno, con le sue scarpe di serpente, i basettoni, la camicia dagli intarsi country, gli aloni di sudore sotto le ascelle. Non che faccia caldo, nella baracca tra le montagne si respira, mica come in città, che l'afa di agosto fa boccheggiare anche alle cinque del mattino. No, è stato il lavoro di precisione a farlo sudare. Tutta la notte ci ha perso, su quel lavoro di precisione.»
Blackout
di Gianluca Morozzi (Tea)
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giovedì 22 maggio 2014
parole mute nel Sud degli USA...
Quando Carson McCullers, fondamentale scrittrice del sud degli USA, nata e cresciuta in Georgia (1917-1967), scrisse questo romanzo aveva solo ventitré anni. Ma la maturità della sua voce risulta ancora oggi impressionante. Vissuta fin da bambina a contatto con le contraddizioni e i conflitti dell’oppressivo universo meridionale americano, fu marchiata a fuoco da questo ambiente al punto che i suoi testi ce lo restituiscono in maniera ossessiva e quasi ipnotica: è la stessa provincia abulica e in lento disfacimento resa immortale da Faulkner, Caldwell e dalla conterranea Flannery O'Connor, con la quale la McCullers condivise anche la fragilità fisica (a quindici anni si ammalò infatti di febbre reumatica ed ebbe diversi ictus invalidanti che la portarono giovanissima a essere appena in grado di pestare con un sol dito sui tasti di una macchina da scrivere). Non sorprende quindi che molti dei suoi personaggi siano infermi, tarati psichici, esclusi o emarginati, sempre e comunque grotteschi.
Trasferitasi a New York, nel 1940 pubblicò questo Il cuore è un cacciatore solitario (scritto in un momento di grave infermità), nel quale con potente lirismo affronta i temi dell'alienazione e della solitudine. Riconducendoli ad un universo poetico che potrebbe fare il paio con le fotografie di Walker Evans o ancora meglio con le tele di Edward Hopper. Le prime pagine del romanzo sembrano infatti restituire al lettore l'opera forse più conosciuta del repertorio del grande pittore precisionista, Nighthawks (i nottambuli), un locale asettico, dalla cui immensa vetrata emergono quattro anime, il barista e tre avventori al bancone, il primo di spalle, altri due uno accanto all'altra ma non di meno soli, isolati, privi di slancio. Così nel romanzo: quattro protagonisti gravitano intorno alla figura del sordomuto John Singer, un mite e tranquillo orologiaio (come il padre della scrittrice nella realtà), passivo interlocutore scelto come depositario delle angosce di tutti gli alienati e disadattati di una piccola città del profondissimo sud. Prigioniero del silenzio, John non può ascoltarli ma, impossibilitato a farsi carico delle loro pene, arriva a giustificarne la violenza e i ricorrenti vizi per mezzo dei quali queste figure tragiche tentano di lenire la propria incurabile solitudine. Tenta di leggere faticosamente le parole sulle loro labbra e di rispondere col movimento delle mani affusolate per alleggerire il fardello del loro tristo destino («Il ricco lo considerava ricco quanto lui, il povero lo paragonava a se stesso… Ognuno descriveva il muto quale lo voleva»). E paradossalmente, il silenzio di Singer finisce per fornire una qualche risposta alle urla represse di chi gli sta attorno: poiché i suoi occhi sembrano comprendere «altro» (segreti, dolori, aspirazioni e sconfitte). Tra il muto e i quattro comprimari (un vedovo proprietario di un piccolo caffè, una strana ragazzina con la passione per la musica, un fallito agitatore socialista col vizio dell’alcol e un medico nero marxista e disilluso) si stabilisce un delicato equilibrio che finirà tragicamente: Singer, perduto l’amico, verrà a sua volta travolto dalla solitudine arrivando a togliersi la vita con uno sparo. Da questo intensissimo romanzo fu tratto il film di Robert E. Miller (1968) con Alan Arkin e Sondra Locke.
«La sala rimaneva ancora semivuota; era l'ora in cui gli uomini che hanno vegliato durante la notte incontrano per la strada quelli svegli da poco, pronti a iniziare un giorno nuovo. L'assonnato inserviente mesceva agli uni e agli altri birra e caffé, ma il locale seguitava ad essere silenzioso, nessuno parlava, quasi fossero soli. La reciproca sfiducia fra l'uomo appena alzato e quello che pone termine ad una lunga notte, dava a ognuno un senso di distacco […]».
Il cuore è un cacciatore solitario
Carson McCullers (Ed. Einaudi)
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mercoledì 21 maggio 2014
col colpo in canna...

Per la terza volta dietro la macchina da presa dopo Brivido nella notte (1971) e Breezy (1973), Clint Eastwood firma la regia de Lo straniero senza nome (vero titolo: High Plains Drifter) con piglio alla Don Siegel e confeziona un western di buona, anzi straordinaria fattura, memore anche della lezione degli spaghetti-western di ascendenza leoniana. Facendo tesoro del suo passato nel Belpaese, infatti, il mitico Zio Clint scava nel genere regalandoci un western sulfureo e molto crudo, dal passo asciutto (il primo western con il mare come sfondo, tra l'altro!), scegliendo per sé i panni di un misterioso, cinico e gelido Angelo della Vendetta, con palesi riferimenti a Django il bastardo (anche lì il pistolero emanava un alone quasi soprannaturale) e ad altri western nostrani di argomento affine.
Vero protagonista del film è il rimorso degli abitanti del villaggio per avere lasciato massacrare lo sceriffo da tre criminali imprigionati (il capo della troika è Geoffrey Lewis, faccia da cattivo di tanti film e padre della più famosa - quanto sbroccatissima - attrice Juliette): in realtà anche loro avevano interesse a liberarsi dell'uomo di legge che aveva scoperto scottanti segreti. Lo straniero, animato da una celata sete di vendetta, imporrà le proprie regole come pegno ai pavidi cittadini che lo hanno ingaggiato per difenderli, arrivando a far dipingere di rosso tutte le case e ribattezzando Hell (inferno) la città.
Le musiche, soprattutto i cori, sorreggono perfettamente il côté gotico di sottofondo accompagnando il protagonista nel suo svelto tragitto verso il duello finale. Eastwood, sornione come di consueto, non sorride mai: dedicherà appena un mezzo sorriso al nano che gli salva la vita. E il desiderio di vendetta che anima lo straniero diventa il subdolo fulcro dell'intero film: non è vero infatti, come dice il critico Mereghetti sul suo popolare dizionario, che è «libero lo spettatore, alla fine, di stabilire chi egli fosse veramente», perché invece, alla fine, lo straniero ce lo dice, ma solo nel normalizzante doppiaggio italiano (spoiler: è il fratello dello sceriffo massacrato!) mentre nell'originale Eastwood resta un ignoto e luciferino spirito della giustizia, forse addirittura la reincarnazione del marshal ucciso.
Le musiche, soprattutto i cori, sorreggono perfettamente il côté gotico di sottofondo accompagnando il protagonista nel suo svelto tragitto verso il duello finale. Eastwood, sornione come di consueto, non sorride mai: dedicherà appena un mezzo sorriso al nano che gli salva la vita. E il desiderio di vendetta che anima lo straniero diventa il subdolo fulcro dell'intero film: non è vero infatti, come dice il critico Mereghetti sul suo popolare dizionario, che è «libero lo spettatore, alla fine, di stabilire chi egli fosse veramente», perché invece, alla fine, lo straniero ce lo dice, ma solo nel normalizzante doppiaggio italiano (spoiler: è il fratello dello sceriffo massacrato!) mentre nell'originale Eastwood resta un ignoto e luciferino spirito della giustizia, forse addirittura la reincarnazione del marshal ucciso.
martedì 20 maggio 2014
...e poi c'è il kraut-western
Dopo Gold di Thomas Arslan nella scorsa edizione, anche quest’anno al Festival del Cinema di Berlino è stato presentato un nuovo film western in lingua tedesca (recuperando così in qualche maniera la gloriosa tradizione dei kraut-western): si tratta di Das finstere Tal (titolo internazionale The Dark Valley), il nuovo film del regista austriaco Andreas Prochaska, nome molto noto in patria, anche per i suoi lavori televisivi, ma che ha goduto anche di una breve ribalta internazionale grazie all’horror Sms - 3 giorni e 6 morto (2006), distribuito anche in Italia.
sinossi: in una remota valle delle montagne austriache, sul finire del 19° secolo, giunge uno sconosciuto americano di nome Greider, che chiede di essere ospitato per i tre mesi invernali. Gli abitanti del villaggio gli trovano ospitalità presso la casa di una vedova, che vive con la figlia in procinto di sposarsi, ma ignorano che Greider conosce il sanguinoso segreto che custodiscono da decenni. Ben presto una catena di misteriosi delitti comincia a far sospettare delle vere motivazioni che si nascondono dietro l'arrivo dello straniero.
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lunedì 19 maggio 2014
...al cuore, Ramon!
Una leggenda del cinema. Ora avete fra le mani un romanzo che narra le vicende dei tre memorabili personaggi di Leone, vent’anni dopo. Il primo dei tre, Tuco, il Brutto, sta per uscire dalla prigione dove ha saputo che il Biondo, cioè il Buono, ha assunto un nuovo nome e fatto fortuna come impresario circense e autore di romanzetti western: è lui che ha dato a Buffalo Bill i soldi per mettere su il Wild West Show e creato il suo mito. Ma quando Tuco esce di galera, lo aspetta il figlio di Sentenza (il Cattivo). È un tipo pieno di vanità, di fisime religiose: vuole ritrovare la tomba del padre (in cui Tuco, prima di essere arrestato, ha nascosto la sua metà del tesoro) e sfidare il Biondo per dimostrare di essere il pistolero più veloce del West. Ma il Biondo al circo di Buffalo Bill non c’è più. Tra viaggi, sparatorie, morti redivivi e una sarabanda di scene divertenti e ironiche, questo libro ci restituisce tutta l’atmosfera polverosa del West, la sua musica e i personaggi che la animarono, maschere della memoria che non smettono di raccontare la storia di chi li ha amati...
Sfide e duelli che ci hanno fatto sognare e riflettere sul tempo che passa inesorabile e sulla nostalgia di un’epoca eroica segnata dalla violenza ma anche dall’elogio dell’amicizia e dello spirito di avventura. Un tributo a quel cinema, all’effervescenza picaresca di Tuco, al gusto beffardo e tagliente della battuta del Biondo, ma anche alla letteratura che ebbe per padre Mark Twain.
Il buono, il brutto e il figlio del cattivo, esordio nella grande editoria del sessantasettenne Nelson Martinico (che dietro lo pseudonimo “sudamericaneggiante” cela un genuino cuore siculo), già autore del romanzo autobiografico Dovevamo saperlo che l’amore …, è, senza giri di parole, il sequel del film Il buono, il brutto e il cattivo di Sergio Leone, interpretato da Clint Eastwood, Eli Wallach e Lee Van Cleef. Con un escamotage usato in tempi non sospetti da Dumas per il suo I tre moschettieri ma anche, molto più recentemente, da Ellis per il suo Imperial bedrooms, l’autore riprende le vicende avventurose e banditesche dei protagonisti dell’affresco western di Leone vent’anni dopo.
Il buono, il brutto e il figlio del cattivo
Nelson Martinico (Ed. Bompiani)
domenica 18 maggio 2014
Gomorra, la serie: la accendiamo!
Dio che palle le critiche su Gomorra, nuova serie tv che Sky - a otto anni dal libro di Saviano e a sei dallo splendido film di Matteo Garrone - ha realizzato con grande dispiego di mezzi!
Com'era prevedibile, un fiume di (abbastanza sterili) polemiche ha accompagnato lavorazione e messa in onda delle prime puntate (sinora 4 su un totale di 12): il primo a schierarsi contro l'ennesima narrazione criminale di Napoli è stato il sindaco Luigi De Magistris, arrivato a chiedere che una parte dei diritti di cessione della serie venisse data a Scampia per iniziative benefiche. Il trailer ha fatto imbestialire anche gli A67, apprezzato gruppo di rap e rock alternativo attivo a Scampia, che sul loro blog hanno scritto: «la cosa che fa più male è la mistificazione di chi ha avallato e ha collaborato a questo schifo. Non si può e non si deve far passare questa operazione di business come l’urgenza di raccontare un territorio». Mentre, in queste due prime settimane di programmazione, i social network traboccano dello sdegno velenoso e dell'orrore dei residenti per la mercificazione del loro dramma quotidiano… come se occultare una fiction rendesse meno doloroso l'oltraggiosa carie mai curata che dilania un paese intero.
La verità è che Gomorra è, tecnicamente, una serie-bomba per gli standard italiani nonché, paragonata a ciò che accade nelle televisioni straniere, un prodotto eccelso in grado di competere senza vergogna in un ipotetico campionato internazionale dell'intrattenimento e anzi, chiunque si occupi di scrittura e cinema non può che emozionarsi dinanzi all'altissimo pregio (sinora) sfoggiato nel lavoro di Stefano Sollima (una garanzia: è lo stesso a cui fu affidato l'adattamento tv di Romanzo Criminale) e dei suoi partner Claudio Cupellini e Francesca Comencini che lo alternano dietro la mdp sotto l'egida organizzativa di Cattleya, Sky e La7.
Ambientata a Scampia, nella periferia nord di Napoli - già terra della sanguinosa faida tra il clan DiLauro e gli scissionisti - sullo sfondo delle vele, i giganteschi edifici di edilizia popolare nati tra gli anni 60 e gli anni 70 e vittima di un profondo degrado, la fiction s'impernia sulla rivalità di due fazioni malavitose: quella dei Savastano e quella dei Conte. Standard di recitazione elevatissimi (gli attori, tutti campani e poco conosciuti, parlano un dialetto difficilmente accessibile a chiunque abiti oltre il valico del Po) e ricostruzione perfetta del coté camorristico che strazia quelle aree, gli episodi sono piccoli gioielli pregni di ritmo, azione e adrenalina, partiture equilibratissime che mescolano con sapienza la giusta dose degli ingredienti necessari ad appassionare un pubblico non necessariamente solo nostrano.
Il resto - le grida inorridite, gli strepiti e le ipocrisie di una classe politica che sinora ha saputo financo colludere con il potere della mafia - è tutta fuffa (sulla presunta magnificazione del Male, lo stesso Saviano ha rilasciato dichiarazioni condivisibilissime: «Guardare alle serie televisive come a un ufficio stampa del Male è uno sguardo un po' superficiale. Possono al massimo dare spunti a chi ha già scelto di essere un criminale. Si torna sempre al punto di partenza: alla realtà che ha fatto fare una scelta del genere. Il film non può mai essere un'educazione al crimine. La realtà è già oltre, non è la fiction che può indurre qualcuno a intraprendere la strada del crimine nella vita. La materia su cui intervenire è quella realtà, non il film che la racconta»).
Finalmente, era ora che anche in Italia il piccolo schermo si desse una scrollata per mettere finalmente a nanna i vari santini incentrati su preti, carabinieri e cantanti degli anni Cinquanta (e, vi prego, qualcuno tappi la bocca una volta per tutte a Garko e la Arcuri: i loro telefogliettoni in salsa siculo-mafiosa, quelli sì sono indegni di un paese civile!)
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sabato 17 maggio 2014
saturday pic (5): hulk...
art by Adam Kubert.
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venerdì 16 maggio 2014
fritto misto pulp in chiave sudista...
Southern Bastards: la nuova serie creator-owned di Jason Aaron e Jason Latour viene pubblicata per la Image ed è descritta dagli stessi autori come «un fumetto sul genere fritto, poliziesco, del sud», un poliziesco a tinte fosche immerso nel meglio dei cliché sudisti tanto cari a questo blog: rednecks iperviolenti, auto scassate, razzismo sfrenato, giornate torride e tabacco masticato in quantità.
Provate a farvi un giro tra le stupende immagini postate sul sito ufficiale di Southern Bastards: è una vera manna per gli appassionati del genere!
Southern Bastards è sicuramente una delle serie americane da accaparrarsi in questo 2014, un fumetto che, come si evince dalle numerose recensioni straniere, è un mix esplosivo a base di «Hazzard più il cinema dei fratelli Coen più gli Intoccabili contro Boss Hogg!». (ringraziamo per la segnalazione l'amico Emiliano Longobardi)
Provate a farvi un giro tra le stupende immagini postate sul sito ufficiale di Southern Bastards: è una vera manna per gli appassionati del genere!
Southern Bastards è sicuramente una delle serie americane da accaparrarsi in questo 2014, un fumetto che, come si evince dalle numerose recensioni straniere, è un mix esplosivo a base di «Hazzard più il cinema dei fratelli Coen più gli Intoccabili contro Boss Hogg!». (ringraziamo per la segnalazione l'amico Emiliano Longobardi)
giovedì 15 maggio 2014
in arrivo Salvation...
Tra le proiezioni speciali in programma al Festival di Cannes 2014 ci sarà anche The Salvation, il dramma western danese diretto da Kristian Levring e interpretato da Mads Mikkelsen ed Eva Green.
Il lanciantissimo Mads Mikkelsen, attualmente impegnato in un ruolo da protagonista nella serie tv Hannibal e reduce dal successo del dramma candidato al Premio Oscar Il sospetto, qui veste i panni di un immigrato danese che cerca di costruirsi una vita in un'America di frontiera del 1870.
La storia è incentrata su un uomo la cui famiglia viene brutalmente assassinata e che una volta consumata la sua vendetta, innesca una rappresaglia tra amici e familiari dei suoi nemici incluso un noto e feroce capobanda.
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mercoledì 14 maggio 2014
in Switzerland...
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Saroyan attacca così...
«Una palla è una cosa perfetta e suppongo che piace a tutti prenderla, gettarla o darle colpi con una racchetta appunto per questo, perché è una cosa perfetta. Non so se mi spiego, ma spero che mi avrete capito. La palla è rotonda, e ha in sé la perfezione dello spazio infinito. Al diavolo! Certo è che piace a tutti giocare con una palla.»
Che ve ne sembra dell'America?
William Saroyan (Ed. Mondadori)
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martedì 13 maggio 2014
l'ultima faccia di Rourke...
Dopo quasi un decennio passato dietro le sbarre, dove è diventato impotente e forse omosessuale, Butch Stein detto Bullet (pallottola), ebreo tossicodipendente che ama agghindarsi da niggha, fa ritorno a casa: ad attenderlo c'è un padre deluso e troppo attaccato ai suoi Martini per riuscire a capirlo, un fratello reduce dal conflitto in Libano con qualche rotella fuori registro e un boss criminale nero che gliel'ha giurata per non aver rivelato il nome del suo complice in un colpo.
Scritto da sé stesso medesimo - con lo pseudonimo di Sir Eddie Cooke - e diretto con mano sicura dall'amico Julien Temple, Bullet, anno domini 1996, rappresenta il postremo giro di boa della sino allora ascendente carriera di Mickey Rourke nonché l'ultimo, abbacinante viaggio in pubblico per i suoi veri connotati facciali prima del grande riassemblaggio chirurgico reso necessario dalla mole di jab cui il grande attore cominciò proprio in quegli anni a farsi bersagliare sul ring, nella velleitaria (quanto masochistica) ricerca di una gloria nel mondo della boxe che Rourke in parte riuscì ad ottenere con il nome di El Marielito.
Ma la pulsione autodistruttiva che già allora, al pari del nume ispiratore Marlon Brando, cominciava a permeare i suoi personaggi (e che tuttora - basti pensare alla crepuscolare figura del lottatore di The Wrestler, film cui si deve il suo meritatissimo rilancio - è componente fondamentale della sua indubbia capacità interpretativa) trova qui la sua apoteosi.
Ondeggiando pericolosamente fra un divismo che aveva smesso di appagarlo e il trash più patinato (quest'ultimo, in fondo, da buon figlio degli anni '80, ne aveva forgiato la stella: remember Orchidea Selvaggia?), in questa pellicola Rourke mette a segno l'ultimo - e il meno edificante - dei suoi autoritratti idealizzati: narrandoci i giorni della caduta di un piccolo gangster della malavita ebraica in fondo l'attore racconta di sé e di quello che era diventato a furia di mattane, alcool, intemperanze varie e ossessione per il pugilato.
E così Bullet, pur con le sue strabordanti imperfezioni (un certo manierismo "arty" assolutamente gratuito, una scansione dei tempi che oggi appare talvolta faticosa) regala qualche notazione di dolorosa sincerità assieme a un bel po' di cose valide, non ultima un cast assolutamente originale (vi compare un ancora sconosciuto Adrien Brody nella parte del fratellino dotato del protagonista, ma anche il grande rapper Tupac Shakur nonché il magico caratterista Ted Levine, indimenticato Buffalo Bill ne Il Silenzio degli innocenti e poi solida presenza di dozzine di opere seminali).
Nella caduta depressiva verso la morte violenta di Butch («avevi una bella testa», è la frase ricorrente che il protagonista si sente ripetere, un rimpianto che l'attore deve aver sentito molto "suo" in quel periodo, dopo il quale infatti lo attenderà un oblio cinematografico lungo più di un decennio) Rourke percorre interamente il suo calvario all'insegna di un "maledettismo" disperato con molti eccessi sensazionali e una allure perennemente decadente.
Film pregno di un suo fascino scomposto, che sarebbe magari da nobilitare e riscoprire se l'attore - ancora diviso tra odio di sé e vanità fuori controllo - non rovinasse spesso le intuizioni di sceneggiatura con qualche posa "atteggiona" che finisce per mistificare il lavoro di rappresentazione del vero (o del verosimile) dell'intero progetto. Peccato.
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VISIONI

lunedì 12 maggio 2014
salvato dalla corda al collo...
Dopo Le tre sepolture, il mitico Tommy Lee Jones (Il fuggitivo, Non è un paese per vecchi) torna alla regia con The Homesman, western in concorso al Festival di Cannes 2014. Nello strepitoso cast, oltre a Jones stesso, ci sono Hilary Swank (Million dollar baby, Amelia), Grace Gummer (American Horror Story) e Meryl Streep (no, inutile citare qualche titolo della diva, basta semplicemente ricordare che alla voce «attrice coi controcoglioni» su qualsiasi dizionario ci dovrebbe essere una sua foto).
The Homesman racconta la storia di George Briggs, un uomo salvato dall'impiccagione dalla pioniera Mary Bee Cuddy. In cambio Briggs dovrà aiutare la sua salvatrice a portare dal Nebraska all'Iowa tre donne malate di mente. Il viaggio sarà pieno di imprevisti e incontri inattesi. Il film, adattamento cinematografico dell'omonimo romanzo di Glendon Swathout, uscirà prima in Francia il 21 maggio, e in seguito negli altri paesi. Aspettiamo con ansia...
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FAN CHE SBAVA,
WESTERN

domenica 11 maggio 2014
il mitico G.M.
Fedele compagno di viaggi… (by Fabio Lotti)
Il mitico G.M. Ovverosia Il Giallo Mondadori. Quello che negli anni… negli anni… (e chi se li ricorda?) mi faceva compagnia sul treno per Siena (scuole superiori) e poi sulla littorina per Firenze (Università) tra il lusco e il brusco, con l’occhio assonnato e il sorriso ebete sulle labbra. E allora mi aggiravo imbambolato tra piccoletti con la testa d’uovo, ciccioni orchideati, nobili monocolati, lungagnoni elementari, tracagnotti fumantini, omaccioni arcontoni e via e via.
Oggi in splendida forma (il giallo) sotto la guida teutonica di Franco Forte e di un curatore-traduttore speciale come Mauro Boncompagni da infilare nel taschino e tirarlo fuori nei momenti di impasse.
Non solo camere chiuse a doppia mandata che come ha fatto l’assassino a entrare e uscire Dio solo lo sa (e forse nemmeno lui). Voglio dire non solo John Dickson Carr inventore da capogiro con il suo inimitabile Gideon Fell, un omaccione di 120 (centoventi!) chili con dei baffoni pittoreschi ed un naso piccolo sul quale sono stanziati degli occhialini a pince-nez legati da un nastro di seta. Fuma sigari e pipa, beve birra, indossa un grosso mantello e un cappellaccio di feltro nero. Una specie di bandito, insomma, che ogni tanto tira fuori un “Arconti di Atene!” da brivido. E se manca una camera chiusa c’è una barca altrettanto sprangata a tenerci in fibrillazione con Il signore dell’enigma di Peter Lovesey in concorrenza con il Maestro. Uscito uora uora (aggiunta) La trappola di Mignon G. Eberhart, che non sarà proprio una camera chiusa ma una casa chiusa sì (non quella,via!), dalla quale non si può fuggire causa neve (un classico) e l’assassino si frega le mani.
Ultimamente pubblicati una trenata di libri da sollucchero: Il demone del Dartmoor di Paul Halter è un concentrato di ataviche paure (diavoli e cavalieri senza testa) e di geniale enigma con soluzione semplicissima (e proprio per questo geniale). Stupendo pure Uno di noi deve morire di Ursula Curtiss, affondo psicologico che ci tiene in sospeso e l’assassino che può essere intorno a noi. È questo? è quello? E prima o poi ci scappa la botta in testa. Il poliziotto è marcio di William P. McGivern dei nostri G.M. è il classico noir del poliziotto corrotto che per varie ragioni, in questo caso per difendere il fratello poliziotto buono, cambia pelle. Un bel lavoro (distante da certi formidabili hard boyled) sul quale si è costruito il film Senza scampo con Robert Taylor e Janet Leigh. Su Sei notte di mistero di Cornell Woolrich c’è poco da dire. Da togliersi il cappello anche se non ce l’abbiamo. Credo che sia l’unico autore a cui in vita mia abbia affibbiato un eccellente. Maestro insuperabile nel creare, in questa raccolta, incubi individuali, il capovolgimento degli eventi, scene crude e sul filo dell’assurdo dentro una cornice di sottile umorismo. A soddisfare le esigenze del lettore amante delle vicende più intrigate con sorprese ad ogni piè di pagina c’è sempre l’intramontabile Edgar Wallace con il quale ho, a mio disdoro, un rapporto conflittuale. In precedenza, per sorridere, Kaminski favoloso con Giocarsi la pelle. Racconto veloce. Rocambolesco. Situazioni comico-paradossali (il personaggio principale, Toby Peters, viene addirittura scambiato per uno scrittore ad un convegno di psicanalisti), morti ammazzati pure nell’armadio, ritmo serrato, scrittura ironica, gradevole e frizzante. In perfetta sintonia con lo spirito dell’autore poteva benissimo essere intitolato Giocarsi le palle.
Non mancano gli inediti: Casi da manuale e Tredici volte Campione di Margery Allingham, in cui compare Albert Campion. Questo strampalato personaggio (lasciatemelo dire) nasce dalla penna della scrittrice inglese nel 1929 con Crime at Black Dudley. Praticamente un intrallazzatore un po’ pazzoide che cerca di sopravvivere con ogni mezzo. Anche illecito senza esagerare. Inoffensivo e stupidotto. Un bischero, detto dalle mie parti. A prima vista, che in realtà dietro l’apparente imbranatura nasconde un intelletto coi fiocchi. Avendo, tra l’altro, studiato a Cambridge e provenendo da una famiglia aristocratica. A confondere le acque il suo metro e ottanta, i capelli color stoppa, gli occhi celesti dietro le lenti cerchiate di tartaruga che lo fanno apparire un po’ tonto. Un ricalco, per certi versi, di Lord Peter Wimsey della Dorothy L. Sayers verso la quale si dirigeva l’interesse dell’esordiente Allingham.
Altro inedito importante Il veleno è servito di Anthony Berkeley, Mondadori 2014. 3 settembre sinistro ad Anneypenny nel Dorset: raffiche di vento improvvise, tuoni, un “senso di cattivi presagi e rovina” con il sig. John Waterhouse, uomo semplice e gentile, che tira il calzino. No, non per la sua maledetta ulcera gastrica, ma per una buona dose di cianuro trovato nel sangue, dopo che suo fratello Cyril ha fatto riesumare la salma. Già vista la coppia ulcera gastrica- cianuro nella letteratura poliziesca ma ciò che conta è la mano. E quella di Berkeley è una manina santa. Se poi ci si aggiunge la sapienza del traduttore Mauro Boncompagni andiamo a festa.
E gli italiani? Gli italiani ci sono, ci sono. Vedi Il Palazzo dalle Cinque Porte di Stefano Di Marino, un intrico di realtà e irrealtà, di confraternite e occultismo, di mystery e fantastico che ti scivola brividoso lungo la schiena. (La bella recensione di Piero qui). Vedi L’odore del peccato di Andrea Franco. La vicenda si svolge a Roma in dieci giorni dal 16 al 26 giugno del 1846 con don Attilio Verzi che ha un dono particolare “additato come una maledizione del demonio”. Percepisce gli odori nel profondo, “vivi come può essere viva una persona, vicini come la carezza di una madre o lo schiaffo di un padre che educa un figlio”. Un bel personaggio. Vedi Il metodo Cardosa di Carlo Parri che mescola occultismo, documenti antichi, cultura, spunti d’amore senza cacciarsi nel palloso rosa, accenno lesbico per stare ai tempi, individuo e coralità, momenti di pausa, di riflessione e altri di adrenalinica azione. Personaggio Cardosa ben calibrato tra gonne, libri, poesia e musica. Vedi altri e altri ancora (lista molto lunga).
Ogni tanto tra i morti ammazzati fanno capolino anche gli scacchi (mia grande passione insieme alla storia e alla letteratura umoristica). In La settima ipotesi di Paul Halter, Mondadori 2013, abbiamo una partita tra il criminologo Alan Twist e l’ispettore di polizia Archibald Hurst, mentre tengono d’occhio una porta d’ingresso. Il criminologo lascia la Regina in presa che Hurst si affretta a catturare non vedendo la trappola. Anzi, spera proprio in una vittoria. “Hurst spostò il suo re e Twist gli diede scacco matto” (pag. 64-65). Venti pagine più avanti incontriamo una copia perfetta del Giocatore di Scacchi di Maelzel, marchingegno in grado di battere ogni avversario (siamo tra Settecento e Ottocento), dato che poteva nascondere al suo interno un abile scacchista di piccola taglia. Tale automa costituisce anche una delle idee di questo giallo straordinario.

Praticamente un messaggio di Liz che è prigioniera. Lei non può muoversi senza mettere in pericolo il marito.(pag.97).
Per chi vuole saperne di più sul rapporto scacchi-giallo nella letteratura poliziesca ed alla fine troverà citati altri tre articoli.
E insomma ancora una volta insieme con il mitico G.M., compagno fedele di tanti viaggi e di infinite sere buie e tempestose (tanto per chiudere con un cliché).
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