venerdì 30 settembre 2011

barbabietole pulp...

(allora si parte. Nei prossimi giorni il titolare sarà a Padova per il festival SugarPulp. Nel video qui sotto l'amico Matteo Righetto fornisce alcune coordinate dell'evento. Ma se volete saperne di più ci sono interviste interessanti a questo indirizzo) (stay tuned)

sabato 24 settembre 2011

fuck me i'm famous...


[intervistina rilasciata al sito letterario libriconsigliati.it in occasione dell'uscita della raccolta Meridione D'Inchiostro]

LibriConsigliati: Nel tuo racconto (uno dei più efficaci dell’antologia) Nostro Signore L’Uomo-Purpu, aleggia un senso del tragico che rimanda immediatamente a I Malavoglia di Verga, forse per quel tentativo di sfidare il mare che non si conclude positivamente. Dunque non c’è speranza per i «vinti», in ogni epoca?

Omar Di Monopoli: Credo che a ben guardare la figura-cardine alla base di tanta letteratura meridionale sia in realtà l’«invitto», particolare forma di sconfitto che in fondo non perde mai poiché latore di una quintessenziale invincibilità. Gli (anti)eroi che adoro descrivere nei miei libri sono così: gente semplice che affronta a capo chino un destino più grande, ma pur uscendone spesso colle ossa rotte - in verità avanzano senza paura verso la fenditura dell’orizzonte, con la consapevolezza di non avere altre opportunità che progredire nella tempesta, accettando magari il rischio di perdersi… (continua qui) foto Carla Sedini

venerdì 23 settembre 2011

su una dolorosa lastra di ghiaccio...

Nel 2008 Courtney Hunt gira in meno di un mese e con un budget risicatissimo Frozen River - Fiume di ghiaccio, sorta di thriller esistenziale - definito «mozzafiato» da Quentin Tarantino anche se in realtà la caratteristica principale del film consiste semmai in una pacatezza muta e raggelata - col quale si è guadagnata il Grand Jury al Sundance Festival, il National Board of Review come miglior regista esordiente e una candidatura agli Oscar come migliore sceneggiatura originale. Cinema indipendente americano puro quindi, quello della Hunt, a testimonianza di una volontà ancora solida da parte di un manipolo di artisti d'oltreoceano capaci di fronteggiare i richiami di mammona disdegnando i circuiti mainstream in funzione di una ricerca magari scomoda ma assolutamente di prestigio.
Melissa Leo (solida caratterista che con questo lungometraggio ha visto sfilare il suo nome accanto a quello di Meryl Streep, Angelina Jolie, Anne Hatheway e Kate Winslet tra le nomination all'Oscar come migliore attrice protagonista) interpreta - magistralmente, va detto! - il ruolo di una donna di mezza età con due figli a carico che nel tentativo di sbarcare il lunario intraprende la rischiosa attività di spola per gli immigrati tra le frontiere di USA e Canada. Si alleerà con una nativa della tribù dei Mohawk riuscendo in sua compagnia a passare per la riserva indiana considerata “zona franca” dalle pattuglie di entrambe le sponde. In uno scabro inanellarsi di eventi che un po' richiama i primi lavori dei Coen (ma senza traccia d'ironia) e un po' il fantastico Winter's bone (anche quello girato da una donna), il quid che imprime la vera svolta alla vicenda arriva nella fase finale dei loro traffici, quando le due «casalinghe disperate tra le nevi» si accorgono che un neonato, celato in una borsa, è stato dimenticato sul ghiaccio durante uno dei transiti tra le frontiere. In quel momento le due protagoniste, ormai indissolubilmente legate, si accorgono che un altro e ben più profondo confine è stato varcato: quello che separa ognuno di noi dalla soglia del cinismo più spietato, un cancro che corrode l'anima rendendoci miserabili e che due mamme, seppur disfunzionali e scalcagnate come quelle del film, non possono permettersi. Con la pressoché certezza di essere identificate dalle autorità, la coppia di donne tornerà a recuperare il piccolo rischiando di finire inghiottite dal fiume.
Raccontando dell'incontro di due disperazioni in un'inospitale terra di frontiera (davvero sconfortante la precarietà delle fatiscenti case prefabbricate e delle roulotte diroccate in cui tutti sembrano vivere), la brava cineasta debuttante riesce a veicolare una riflessione estrema e tutt'altro che scontata sulla maternità e i legami con la prole (e col proprio sangue) inserendo inoltre il tema del traffico di clandestini in un contesto che Hollywood ci ha abituato a veder rappresentato in climi ben più torridi e folcloristici (come sul limitone del Messico). Si potrebbe forse storcere il naso dinanzi alla semplificazione manichea adottata nel racconto, coi nativi che vivono d'illegalità ma sono in fondo «bravi guaglioni», come se solo i meno abbienti nutrissero sentimenti nobili. Ma ciò non renderebbe onore alla pellicola nel suo insieme perché Frozen River è un film che spinge lo spettatore ad andare oltre la prima impressione: la Hunt ci accompagna per mano in un mondo di aguzzini e vittime in fuga (bellissima la scena delle due orientali clandestine che fuggono nel biancore immacolato del lago di ghiaccio), introducendoci allo stesso tempo ad una rilettura del rapporto tra razze, generi e solitudini. Complice anche la tensione che si respira nei rapporti tra comprimari (il figlio adolescente della Leo, i capibastone della comunità pellerossa, i giovani scalzacane del paese: una notevole e convincente panoramica dell'America white trash), persino l'happy-end, in cui l'americana si sacrifica per la più sfortunata indiana, diventa plausibile e toccante poiché elude qualsiasi melassa grazie ad un perfetto controllo della materia narrata. Quando in chiusura ci vengono mostrate le scuse del figlio maggiore a una vecchietta che aveva infastidito, seguite in rapida successione dalla scena di un bimbetto su una giostra, quello che otteniamo è il sunto di una dicotomia esemplare (durezza/tenerezza) che regola l'intero film, dicotomia di fronte alla quale persino il pur emozionante empito di libertà che soggiaceva al seminale Thelma e Louise diventa patinato e velleitario.

mercoledì 21 settembre 2011

scarto l'ironia...

(oggi pubblichiamo un contributo ironico firmato da Fabio Lotti)

Una stronzata per Sartoris.

Questa che potrebbe sembrare un’offesa bella e buona è invece un impegno serio preso qualche giorno fa per la rubrica «cazzate» di Sartoris. Tra l’altro nella mia, di rubrica, che tengo su Sherlock Magazine, ho perfino scritto l’elogio della stronzata. A cui ho aggiunto quello del silenzio, della lentezza e della tomba (sì, avete capito bene, lo trovate qui). A parte certi miei momenti di pallosità estrema che mi procurano sane antipatie e mi fanno pure rabbia, fortunatamente sono provvisto di un’ampia sacca di ironia che mi tiene su il morale. Con tutti i pezzi di vita che sto perdendo per strada figuriamoci come sarei ridotto senza questa particolare risorsa dell’animo umano. Dunque vediamo quale stronzata posso rifilare al nostro bravo Sartoris.
Scarto l’ironia sui mallopponi scandinavi che hanno invaso la nostra penisola. Sono belli, gonfi, pettoruti, un esercito ho scritto da qualche parte, che ci ammaliano con i lunghi silenzi ed il bianco immacolato delle loro terre, sulle quali una goccia di sangue può suscitare l’impressione di un’ecatombe. Tra l’altro credo che il successo di questi autori sia pure dovuto alla pena che ci fanno con quei denti che battono continuamente fra di loro e le labbra perennemente violacee (brrrrrr!!!).
Scarto l’ironia sui gialletti rosa dove l’indagine poliziesca se ne va a farsi friggere lasciando il posto a una tresca amorosa che non finisce mai. Occhiatine, sussurri, sorrisi, mezze parole, la capa (di solito) che smania per il sottoposto di turno o il sottoposto di turno che smania per la capa. Uno sbaciucchiamento continuo (in teoria) che difficilmente si trasforma in pratica lasciando il lettore ingrifato e insoddisfatto.
Scarto pure l’ironia sui manuali di psichiatria (ci va pure di rima), quei libroni dove escono fuori menti malate, perverse, schizofrenici, maniaci, psicopatici, allucinati, ossessivi, bipolari, ritualistici. Insomma pazzi che brancolano assatanati a delirare, ansimare, smembrare, torturare, distruggere. Fino a quando il lettore, impazzito lui stesso, non farà fuori gli autori. E il cerchio si chiude (essendo un pigrone del Toro ho ripreso un pezzo già scritto).
Scarto l’ironia su tutti i diavoli, le streghe, i vampiri, i morti viventi e simile genia che escono fuori dalle pagine di millanta diavolerie (appunto) fatte per suscitare ataviche paure. Ed io mi ricordo bene le corse, da imberbe fanciullo, lungo il corridoio buio che portava al gabinetto con la pisciarella pronta a schizzare fuori se non beccavo il pisello al momento giusto. Che paura! Che corse! E che pisciate!

Scarto l’ironia sui gialli storici, o meglio su certi gialli storici che vanno a ritroso nel tempo fino al paleolitico, quando con un colpo di clava in testa si stendeva l’avversario senza tanti cincischiamenti sofisticati.
Scarto l’ironia incazicchiata alquanto su certi libracci dove vengono infilati a forza, solo per una questione di mercato, bambine e bambini impauriti, molestati, torturati, violentati e a loro volta in futuro torturatori e violentatori.
Scarto l’ironia sulle lamentationes che arrivano da tutte le parti. Da chi è pubblicato, da chi non è pubblicato, da chi sta per essere pubblicato. Perfino da chi non vuole essere pubblicato (qualcuno controcorrente ci sarà pure).
Scarto l’ironia su tutto il resto. Rimane quella su me stesso, la famosa autoironia. Di uno che si diverte a saltimbeccare di palo in frasca, a punzecchiare di qua e di là, a sbeffeggicchiare di sopra e di sotto, pensando, il bischerello stagionato, di far sorridere qualche lettore.
Ecco, questa è la stronzata giusta per Sartoris, condita da qualche parola di mio conio appuntata in qua e là, per renderla più presentabile.
[Fabio e Jonathan Lotti]

martedì 20 settembre 2011

un grande festival del noir...


(al gran festival SugarPulp di Padova ci sarà anche il vostro affezionatissimo titolare del blog, assieme a Jeffery Deaver, Victor Gischler, Joe Lansdale, Massimo Carlotto, Tim Willocks, e poi ancora Barack Obama, Dart Vader, il profeta Mosè, Phantaman e Gesù Cristo Reloaded!:-) [cliccate sull'immagine per il programma completo]

lunedì 19 settembre 2011

dalla Puglia con furore...

«Appena Donna Sabbedd' si sgravò, la creatura non avette manco il tempo di pigliare fiato che fu vestita di nero.
Tanto per cominciare, naturalmente, l'ammatassarono stretta stretta con le fasce di lino bianco che allora, siccome non ci stava lo sciupasciupa di mo, passavano per risparmio da un piccininno che cresceva a un altr'uno che nasceva. Pure a lei lasciarono libere solo le braccia piccinonne piccinonne e la capa, quella capa gloriosa dove già si potevano intravvedere la babbìscia (sì, il mento pronunciato, come si dice in italiano) e, con una certa fantasia, pure i capelli ondulati che da giovane l'avrebbero fatta assomigliare nientedimeno che ad Alida Valli. E ci sta da dire che con quelle fasce la stringèttero, sin dal primo dì, con tanta forza da tradire qualche speranza segreta, se non l'intenzione vera e propria di strozzarne lo sviluppo, di soffocarne la vita, insomma di farla tornare là da dove era venuta, non chiamata e meno che meno desiderata.»

Capatosta - Beppe Lopez (Ed. Mondadori e Besa)

sabato 17 settembre 2011

galantuomini (e gentildonne) con le pistole...

Rivisto ieri in occasione del passaggio Rai. A distanza di qualche anno dalla prima visione sul Grande Schermo Galantuomini si conferma opera di grande smalto, a riprova del fatto che nell'abbracciare i codici del genere (in questo caso il melò ancor prima che il noir) l'opera del cineasta anglo-salentino Edoardo Winspeare ci ha molto guadagnato. Messi da parte infatti una certa stanca rappresentazione del «Salento Magico» (quaggiù nel Tacco d'Italia non se ne può davvero più di vedersi ritratti come degli esotici mangiatori di taralli perennemente in preda al morbo della Tarantola) e l'ossessione per la Pizzica che ne avevano caratterizzato gli esordi, in quest'opera del 2008, pluripremiata in giro per il mondo, viene fuori l'indubbia maestria di Edoardo nel posizionare le macchine da presa. Inoltre, nessuno come lui sa fotografare i grandi valloni mediterranei che connotano questa parte di Penisola, illuminandoli della giusta dose di malinconia e fulgore.
La storia s'impernia sulle vicende di Ignazio, Lucia e Fabio, tre bambini che sono stati inseparabili e felici nella Puglia degli anni Sessanta. Nei Novanta si ritrovano adulti tormentati e divisi dalla Sacra Corona Unita. Ignazio è diventato un giudice stimato, rientrato a Lecce dopo aver esercitato la professione nel Nord Italia, Lucia è madre di un ragazzino e braccio destro del boss Carmine Zà, Fabio un appassionato giocatore di biliardo col vizio della cocaina. Al funerale di Fabio, stroncato da un’overdose, Lucia e Ignazio si ritrovano e s'innamorano senza dichiararsi. Durante le indagini sul traffico di cocaina, Ignazio scopre il coinvolgimento di Lucia. Ferito e addolorato dalle bugie della donna e dalla rivelazione della sua vera natura, l’affronta, spingendola suo malgrado alla latitanza. Ma il giudice sedotto e la dark lady hanno ancora un conto d’amore da regolare e da consumare.
L'intensa Donatella Finocchiaro dà vita ad una interpretazione mai sopra le righe, assolutamente plausibile nella parte di una donna-boss a capo di un gruppo della SCU, comandante dei traffici d'armi con il Montenegro, forse arrivata in cima per via di favori sessuali ma cazzuta, capace e dura. Rovesciando radicalmente il luogo comune della donna meridionale vittima (o assassina), l'attrice riesce a tenersi alla larga da qualsiasi civetteria o isterismo, caratterizzando il suo personaggio con una forza nuova, matura, molto pugliese. Stupefacente (almeno per chi scrive) la bravura di Beppe Fiorello, davvero incredibile nella parte di un malavitoso di basso carotaggio destinato al fallimento. Il resto dei comprimari delineano spesso il gruppo di criminali che ruotano attorno al cast portante in chiave profondamente manierata (ma non erano così anche i personaggi secondari dei grandi polar di Melville?)
Scegliendo di raccontare il suo sud in forma di melodramma criminale, Winspeare (anzi, lu Uinspìr, come lo chiamiamo quaggiù) si dimostra cineasta adulto, capace di affrontare sia scene d'azione ricche di pistolettate (si veda la rapina al portavalori) sia i lunghi campi e controcampi dialogati che definiscono la storia d'amore, facendo dell'opera nel complesso un efficace (e popolare) strumento di riflessione sulle molte (troppe) contraddizioni di questa terra. Bravo Edo.

mercoledì 14 settembre 2011

donne, motori e Frankenstein...

Death Race è lo ha firmato nel 2008 quel talentaccio maranza di Paul W. S. Anderson. Il prodotto, un tripudio di esplosioni e corse davvero succulente per chi ha la passione dei videogiochi o per gli inseguimenti acrobatici, parla di gare automobilistiche tra detenuti in un carcere di massima sicurezza. Come a dire: una roba talmente improbabile che o si decide di spegnere il cervello e ci si abbandona altrimenti niente, meglio astenersi. La vicenda è ambientata in un'altra epoca (è il 2012, mica troppo lontano), ragioni di business motivano la competizione letale (con la tv via cavo l’istituto penitenziario vende la diretta guadagnandoci milionate di dollari) e, a riprova che sono l'azione e l'adrenalina il fulcro della storia, ogni orpello narrativo viene risolto all'inizio da quattro righe di spieghino, senza perdite di tempo. Poi si parte con la gara e l'acceleratore va subito a tavoletta.
Un film di puro intrattenimento, quindi, che va assaporato per ciò che è: incredibili corse in macchina in cui per vincere si può superare, o uccidere, l’avversario. Lo spargimento di sangue è ben visto, fa salire l’audience. Il nuovo duro di Hollywood Jason Statham è perfetto colla sua faccia di tolla nella parte dell'ex-pilota finito dietro le sbarre ingiustamente, la sua fisicità e la sua (non)recitazione sono calzanti con un ruolo che in altri tempi sarebbe stato cucito addosso a un Bruce Willis o su uno Stallone (quest'ultimo tra l'altro col progetto c'entrerebbe, poiché il film è un remake di Anno 2000: La corsa della morte del 1975, diretto da Paul Bartel e prodotto da Roger Corman, con David Carradine e, appunto, un giovanissimo Sly) anche se la storia è piuttosto risaputa: chi vince si guadagna la grazia. Il protagonista impersona il ruolo del pilota soprannominato Frankenstein, morto in realtà in una competizione precedente ma poiché gareggiava col volto celato da una maschera, il buon Statham giunge a sostituirlo sotto copertura. Il film diverte ed è confezionato in maniera impeccabile, ci sono un sacco di strafighe (oddio, che tra le detenute siano tutte modelle risulta davvero incredibile!), e le corse sono pirotecniche e spregiudicate, gustose da leccarsi i baffi. Nota di merito per l'interprete della direttora del penitenziario, Joan Allen, così pulita, bionda e perfettina, in realtà una sadica figlia di puttana. Forte!

martedì 13 settembre 2011

apocalisse western...

«È così che Mortimer Tate finì con l’uccidere i primi tre esseri umani sui quali aveva posato gli occhi dopo quasi dieci anni.
Una corona di nuvole immobile e uniforme avvolgeva la sommità della montagna come grasso di pancetta diventato freddo e smorto dentro una profonda padella nera. Le cime dei sempreverdi bucavano le nuvole, glassate di neve caduta la notte precedente. Gli ultimi giorni dell’inverno, neanche troppo freddi - Mortimer Tate aveva calcolato circa -1°C. Il termometro era scoppiato il terzo anno, in quel rigido inverno quando la temperatura era scesa a −28°C e più. Il termometro era stato fabbricato in America da una piccola ditta nell’Ohio.
Ormai niente era fatto per durare, amava ripetere il padre di Mortimer.
Mortimer sedette alla finestra della casupola, costruita proprio davanti alla grotta che si addentrava nel cuore della montagna. Sorseggiò il suo infuso preparato con ginseng e corteccia d’albero seccata. Il caffè era finito il primo anno. Tante cose erano finite quel primo anno.
Mortimer osservò gli uomini risalire la montagna: li aveva visti emergere dalla foschia, non credendo ai propri occhi, pensando di essere ormai impazzito. Ma erano reali e imbracciavano fucili, avanzando con fare non troppo furtivo, e comunque senza parlare a voce alta o prendere la montagna sotto gamba.»

Black City - Victor Gischler (Ed. Newton & Compton)

domenica 11 settembre 2011

morte e redenzione a Tijuana...

Succede qualche volta, anche a editori particolarmente impegnati sul fronte della fattura estetica dell'«oggetto-libro», di sbagliare copertina. Oppure, molto più semplicemente, alcune immagini - vuoi per inconsce ragioni personali legate al vissuto di chi legge, vuoi per un'oggettiva bruttezza dell'elaborazione grafica scelta da chi di competenza in redazione - finiscono per essere inspiegabilmente «respingenti». Al titolare del blog è capitato di non apprezzare particolarmente la beffarda faccia scheletrica (icona tipica della Festa dei Morti messicana) raffigurata in copertina di Dia de los Muertos, di Kent Harrington, del quale tra l'altro in giro non si è fa che parlar bene (un tempo considerato una grande promessa del novello noir a stelle e strisce, è oggi uno di quei talentacci che rimangono - vai a capire perché - ai margini del vero mercato mainstream senza raggiungere mai il meritatissimo successo di pubblico). E così per mesi il romanzo pubblicato dalla padovana Meridiano Zero è rimasto incolpevolmente ad accumulare polvere sul comodino, vedendosi in ragione della brutta cover sorpassare nell'ordine di lettura da decine di giallacci, romanzi horror, diari intimi di teenager in fregola, tomi sul superomismo e biografie di dittatori standard. E poi, un bel giorno, mentre l'afa agostana stendeva una pellicola d'umido sulla pelle di qualsiasi animale a sangue caldo e il condizionatore lavorava da ore a manetta rischiando d'incepparsi da un momento all'altro, chi scrive ha allungato flemmaticamente una mano sull'opera di Harrington e dopo averne scorso le prime righe è scoccata la scintilla: ed è stato subito vero ammmmore!
Mai (o quasi mai) letto niente di più appiccicaticcio e torbido: siamo alle soglie de il giorno dei morti, grande festa popolare messicana. A Tijuana - città emblema della peggiore violenza, sopraffazione, traffico d'anime e corruzione di confine - l'agente della DEA Vincent Calhoun aspetta sotto un sole torrido e impetuoso il ritorno della suerte, la fortuna che sembra averlo abbandonato. In quella sgangherata, magica e pericolosissima terra di nessuno (la stessa che fa da sfondo a decine di capolavori cinematografici, da Traffic a buona parte dei gioielli di Sam Peckinpach), lui ha già dato fondo alle cose migliori della propria vita: fiducia, onestà e rispetto di sé sono finiti nello scarico del cesso assieme a ogni illusione e montagne di dollari sono svaporati dietro le scommesse alle corse dei cani. Calhoun è pertanto un disperato senza patria e senza legge, un dingo - letale e sfuggente - che trasporta illegalmente clandestini negli Stati Uniti senza alcuna volontà di redenzione, tranne quando si convince di avere avuto finalmente la dritta giusta, la scommessa vincente che lo libererà dallo smacco dei creditori. Ovviamente ha fatto male i conti: il passato torna a visitarlo nei panni della bella ex-studentessa di cui era follemente innamorato quando insegnava in un liceo. Una vamp bisessuale bella e provocante grazie alla quale è cominciato il suo viaggio all'inferno. E, perdendosi dietro le sue gonne, il suo cammino lungo il crinale del diavolo continuerà ancora, sempre più giù sino a toccare il fondo.
Amaro e assai spietato, stilisticamente ricco ma senza inutili zavorre, inarrestabile come la corsa di una pallottola, il romanzo è nel suo genere un minuscolo gioiello passato pressoché inosservato nel nostro paese: noir e neo-western si fondono allestendo un'eccellente storia con grandi scenografie, un protagonista incisivo e uno splendido e nerissimo finale. Una folle cavalcata della durata di 24 ore in cui l'incanto di un sognatore si scontra con l'acre sapore della verità: niente è gratis, su questa terra, e Vincent condurrà la sua corsa contro il tempo nonostante la malasuerte, i colpi di pistola, i calci e i ricatti, e rimanendo sino all’ultimo fedele a se stesso. Alla fine quella faccia da zombie coi baffetti da cangaciero in copertina non è nemmeno così brutta! Applausi...

Dia de los Muertos
Kent Harrington (Ed Meridiano Zero)

venerdì 9 settembre 2011

NerodiPuglia: incipit del racconto vincitore...

«Io me la vidi, una volta. Dopo aver fatto le olive, mentre stavo seduto in cima a un masso e passavo il dito su una vescica rossa, bagnata, che non mi faceva poggiare il piede. Me la vidi così e non era verde o celeste, come diceva Filomena. Non aveva manco le macchie blu. Stava lì, raccolta, sotto di me, le zampe appena fuori dal masso. Il vento portava l’odore secco della terra spaccata e fischiava su e giù dagli alberi, come canzoni cantate dai morti, roba che se la senti perdi il sonno. Io stringevo il piede e le labbra. Ché ho avuto paura, quella volta. Anche se lei non saltava, restava immobile nel suo covo dipietra, si lasciava a malapena vedere. Lo sapevo che forse, lì sotto, c’era il maschio. E non avevo il coraggio di muovermi. Perché ci vuol poco a farla saltare, a darle disturbo. Dopo, dicono che te la ricordi tutta la vita.

Le mie mattine avevano tutte lo stesso sapore. Latte e caglio, pane duro, se andava bene l’acciuga. "Svegliati!” la voce di mia nonna, spigolosa, mi arrivava in faccia attraverso la coperta sgualcita. Se non bastava, poi, mi buscavo quella frustata. Le sue cinque dita, come il ramo dei ceci, un groviglio di ossa dure. Me le batteva sulla gamba finché la coperta non scivolava a terra, allora il finestrino del basso sembrava sputare su di me un freddo che c’è solo all’alba o dopo che hai dormito...»

Il dito mignolo del diavolo
- Maria Silvia Avanzato

giovedì 8 settembre 2011

su l'Angolo Nero...


...bella intervistina fatta al titolare del blog da Alessandra Buccheri de L'angolo Nero. (grazie Ale)

martedì 6 settembre 2011

en' de uinnér izzzzz...


La terzina dei racconti migliori è composta da (autori in ordine alfabetico): Il dito mignolo del diavolo di Maria Silvia Avanzato, Rossa come il sangue di CosimoUgo Paolo Miccoli e Perdon pietà di Dirce Scarpello.

Chiunque voglia leggere questi racconti e conoscere il vincitore del primo premio - sorseggiando vino pregiato - può passare ad Acquaviva delle Fonti (Ba), giovedì 8 settembre 2011, per l’evento conclusivo di Nero di Puglia!

lunedì 5 settembre 2011

pistole fumanti e dreadlocks...

«Mila Zago c'est moi!». Se Matteo Strukul avesse deciso di fare propria la prospettiva cara a Flaubert quando descriveva la sua arcinota Emma Bovary, frequentare il giovane scrittore padovano, ufficio-stampa per Meridiano Zero e attivissimo co-fondatore del movimento culturale SugarPulp, potrebbe da oggi in avanti risultare faccenda assai pericolosa, perché l'eroina in questione, protagonista del suo romanzo d'esordio La ballata di Mila per le edizioni E/O, è una killer spietata che uccide a sangue freddo con la precisione e l'inarrestabilità di una vera Terminator. Bella da mozzare il fiato, «inguainata dentro un paio di pantaloni di pelle fatti apposta per esaltarle le curve», questo impasto di Tank Girl e Lara Croft scorrazza lungo le pagine di questo divertentissimo frullato di robaccia pulp (ipercitazionista, il buon Strukul lascia baluginare nel libro atmosfere che pescano da numerose, valide fonti cinematografiche ancor prima che letterarie: dall'immancabile Leone all'irriverente Robert Rodriguez, ma naturalmente anche Tarantino e Miike son della partita) con il passo sicuro di chi sa come stuzzicare i palati degli amanti di un certo modo d'intendere l'azione. Perfettamente nei canoni il cursus della vicenda: ci sono due bande criminali, una cinese chiamata i "Pugnali Parlanti", capeggiata da tal Guo Xiaoping, l'altra autoctona controllata dal bellimbusto Rossano Pagnan; le due truppe si contendono il territorio veneto per i loro sporchi affari, dal riciclaggio di denaro sporco, alla droga e alla prostituzione. Un confronto teso che si acuisce sino allo spasimo quando i due commercialisti di Pagnan vengono uccisi a colpi di pistola e due valigette, il cui contenuto si aggira sui due milioni di euro, vengono sottratte. La letale Mila, detta Red Dread, si frappone tra queste due bande stravolgendone gli equilibri: elimina i nemici senza rimorsi e pratica le arti marziali grazie agli insegnamenti rigorosi del nonno santone. Ha una vendetta da attuare, e come per la protagonista di Kill Bill una scia di sangue placherà la sua sete.
Matteo bazzica il genere da anni e non ci si aspettava certo un'opera meno pregna di gusto per l'iperbole e ritmo scatenato. Il romanzo diverte, procede spedito come una locomotiva e non può che essere divorato spegnendo il cervello per tornare bambini (esattamente come si faceva coi western del Maestro Leone prima che una certa critica decidesse di innestarvi sopra un qualche "messaggio").
Certo, qualcuno in rete ha evidenziato forse qualche sbavatura qua e là nei dialoghi, ma ci sembrano davvero minuzie irrilevanti se confrontate con l'«impacchettatura» complessiva del lavoro che soddisfa appieno i codici del pulp più sfrenato e merita sicuramente il nostro plauso. Una nota di apprezzamento anche per l'inventiva nelle metafore utilizzate nel dispiegarsi del racconto: scoppiettanti e gustosamente pop («La Mercedes C30 brillava al sole come la schiena di uno squalo sott'acqua») risentono positivamente dell'influenza del padre di tutti i nuovi scrittori di genere d'occidente: il buon vecchio Joe R. Lansdale che Strukul conosce personalmente per averlo presentato in varie occasioni nei suoi tour italioti. Vai così, ragazzo!

La ballata di Mila - Matteo Strukul (Edizioni E/O)

domenica 4 settembre 2011

la rivoluzione al cinema...

Da anni si discute attorno all'eccessivo minimalismo delle storie italiane sul Grande Schermo. C'era in rete recentemente chi sosteneva che i registi italiani non riescono a capire che un film deve essere «figo» [sic!] per poter competere coi blockbuster americani ma anche con quanto di buono arriva da altrove (Francia, U.K. e Spagna in primis). Pellicole come il resto di niente (2005) sono la riprova che esiste (o è esistita) in Italia una caparbia e meritevolissima volontà di battere vie nuove, magari non commerciali ma decisamente vitali e degne di ammirazione. Il film in questione prende avvio dal libro omonimo, amatissimo a Napoli e dintorni e che ebbe un parto difficile diventando un vero longseller grazie proprio all'attenzione dei lettori. Rappresenta il viaggio nell'anima della marchesa Eleonora Pimentel De Fonseca, protagonista esemplare (assieme a un manipoli di aristocratici sognatori) di quel breve periodo rivoluzionario che infiammò il Meridione passato alla storia come la «Repubblica Napoletana». Frutto di una lunga gestazione produttiva e realizzativa (più di sette anni di lavoro tenace), il lungometraggio firmato dalla brava cineasta Antonietta De Lillo è un'opera coraggiosa, che reinventa in maniera lucida il racconto storico e mescola attitudine teatrale a inquadrature di grande respiro evocativo, grazie anche alla glaciale e distaccata recitazione dell'interprete principale Maria de Medeiros; l'ispirazione letteraria la rende forse un prodotto qua e là troppo "dialogato" ma resta, durante la visione, una sensazione di grande fisicità scenografica (interni, luci drammatiche, tensione dilatata, cartoni in sovrimpressione a mo' di scenografie mobili) che richiama fortemente la poetica di grandi registi come De Oliveira. La regista partenopea spezzetta e scarnifica gli episodi e i personaggi che li abitano nel tentativo (riuscitissimo) di catturare le corrispondenze tra i meandri della Storia ufficiale e quelli dell’esistenza della protagonista, che, nell’ora della morte sospesa - quando appunto non c’è più «il resto di niente» da fare - rivede la propria vita e ce la mostra nella fosca cornice di un Settecento lurido e rancoroso, un'epoca che nasconde sotto i belletti e le parrucche incolte tutta la miseria morale di un regime talmente vetusto da risultare paurosamente attuale. Percorrendo le vicende personali della marchesa, intellettuale d'origine portoghese dall'esistenza costellata di amori infelici e passione politica (fu animatrice de Il monitore napoletano, "organo" ufficiale dei moti liberali partenopei), si comprende come la disuguaglianza e l’infelicità (dei popoli ma anche dei destini individuali) non si sconfigge con violente repressioni o repentini blitz: ma attraverso l’opera lenta e infaticabile dell’istruzione, della solidarietà e dell’arte: uniche armi contro tutte le tirannidi. Il resto di niente è una prova magari imperfetta (anche suo malgrado: è infatti necessaria almeno un'infarinatura dei molteplici eventi che caratterizzarono il periodo), ma a tal punto ostinata e originale (anche nelle scelte di montaggio, davvero inusitate per il nostro panorama cinematografico) da meritarsi una riscoperta e tutto l'affetto e il plauso che all'epoca dell'uscita vollero tributargli solo i circuiti dei premi nostrani e internazionali (per fortuna numerosissimi).

giovedì 1 settembre 2011

Alice Creed è viva!

Un bell'avvio silente, denso di concentrati preparativi all'azione e meticolosi controlli del piano: equipaggiamento, tute, passamontagna, trapani, viti e bulloni per montare i pannelli che andranno a isolare acusticamente la stanza in cui, si capisce, la vittima sarà tenuta prigioniera. L'ambientazione è curata e le musiche tengono desta l'attenzione e quando finalmente scatta il sequestro tutta la tensione accumulata nei primi secondi della pellicola persisterà (salvo qualche scivolone perdonabile) sino all'ending finale. Ottimo esordio dietro la macchina da presa per J Blakeston con La scomparsa di Alice Creed, un thriller claustrofobico e ben congegnato tirato su veramente con due lirette (e con soli tre interpreti, tra l'altro molto bravi e in parte). La vittima incatenata al letto e i due aguzzini disposti a sbranarla diventano i protagonisti di un sottilissimo gioco psicologico, mai scontato e decisamente credibile, per architettare il quale il giovane cineasta inglese sceglie di mostrare in maniera cruda il disagio della carcerazione, facendoci vedere scene che spesso questo genere di film relega all'ellissi o al sottinteso, come l'espletamento delle funzioni corporali della rapita o la noia dei sorveglianti. Ma la vera chicca del lungometraggio sono i reiterati i colpi di scena, alcuni invero debolucci ma perlopiù sinceramente sorprendenti!
S'imprimono nella memoria gli squallidi interni in cui la vicenda si srotola nonché la personalità dei due criminali, biechi e miserabili nelle loro aspirazioni elementari d'amore e ricchezza facile che nascondono in realtà una solitudine vertiginosa, quella sì, davvero urticante e spaventosa. Omaggi chissà quanto consapevoli a Trainspotting, con la tazza del cesso del rifugio che diventa protagonista di un faccia a faccia col più giovane dei rapitori - anche se in scene tutt'altro che visionarie rispetto all'originale - ma che non mancano di evocare un giusto gradiente di disgusto. Vera sorpresa è la bella Gemma Arterton, caspita, davvero brava a tener la scena distesa per tutto il film come un Cristo di Mantegna. Opera degnissima girata con mano felice, consigliata a chi ancora pensa che il cinema abbia bisogno di vagonate di dollari per regalare emozioni.

gratta nel buio...

«Alla luce di una candela di sego sistemata a un'estremità di un rudimentale tavolo, un uomo stava leggendo qualcosa che era scritto su un libro di conti, enormemente logoro; e, a quanto sembrava, la grafia non era molto leggibile, perché di tanto in tanto l'uomo avvicinava la pagina alla fiamma della candela, per avere una luce più forte. Allora l'ombra del libro faceva precipitare nell'oscurità metà della stanza, celando diversi volti e figure; perché, oltre al lettore, erano presenti altri otto uomini. Sette di loro sedevano a ridosso delle pareti in legno, muti, immobili, e non troppo lontani dal tavolo, dato che la stanza era piccola.»

La cosa maledetta
Ambroce Bierce (Ed. Short Stories n.22)