sabato 31 marzo 2012

greetings from bari

Al Bif&st di Bari il film Maternity Blues si è guadagnato il premio per la Miglior Sceneggiatura. Festeggiamo l'evento con alcune ruffianissime foto autocelebrative raccolte dal titolare del blog all'anteprima del film. La pellicola, elegante e commovente (eh, già, con gli anni la lacrima è diventata facile:-) è tratta dal libro omonimo di Grazia Varesani ed è diretta dall'amico Fabrizio Cattani (presto dietro la macchina da presa anche con Uomini e cani, the movie).
Il cineasta carrarese con la protagonista femminile Andrea Osvart (semplicemente meravigliosa, e non si accettano discussioni al riguardo!)
Il vostro affezionatissimo con Fabrizio sullo sfondo barocco e assolutamente mozzafiato del Petruzzelli restituto...
Sempre il vostro prezzemolino in versione «Fonzie» assieme a Pascal Zullino, uno dei due interpreti maschili del film (l'altro è Daniele Pecci)
Sartoris and Zullino col manifesto del Festival sulla testa all'ingresso del teatro. (foto di Paola Pasanisi)

venerdì 30 marzo 2012

la poesia nera del paese della SCU...

Questo blog non poteva che innamorarsi del nuovo romanzo di Clara Nubile, scrittrice pugliese divisa tra India, Ravenna e l'estrema periferia di Brindisi, che con il suo Tu come tutto quello che tocchi (Bompiani) racconta con una verve crepuscolare e a tratti struggente un pezzo di Meridione che in pochi ricordano (o vogliono ricordare) nonostante appartenga a un passato tutt'altro che remoto: al centro di questo splendido romanzo infatti c'è la Puglia della Sacra Corona Unita e delle ciminiere di Cerano, in quel buio periodo che fu quello a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta. Tu come tutto quello che tocchi impernia la propria poliedrica narrazione attorno alle vicende di un gruppo di contrabbandieri al lavoro tra il sud e il Montenegro, una storia intrisa di violenza, fughe dalla Guardia di Finanza a bordo di fuoristrada stipati di droga e sigarette e virulenti riti d'iniziazione per l'accesso nelle falangi della nuova malavita organizzata. Ma è anche il racconto viscerale di una serie di passioni sfiancanti, come quella della borghesuccia Maira per uno sgarrista della SCU; oppure quella di Anna, moglie di un boss pentito, che attende il proprio marito criminale straziandosi come una novella Penelope. Amori e sentimenti che devono combattere in primis con la deriva di una città, Brindisi appunto, in cui il gradiente di malaffare supera la soglia del sopportabile e la povertà (morale oltre che economica) devasta i destini dei singoli sin dall'adolescenza.
Strutturato come una sequenza di confessioni, il romanzo segue i personaggi che animano il racconto ascoltandone le voci in epoche diverse. Il risultato è un affresco emotivo assai intenso, zeppo di intermezzi dialettali ben congegnati, rapide immersioni nella violenza più insensata e momenti di toccante dolore, ma l'autrice nell'allestimento della sua sfaccettata opera ricorre a escamotage narrativi davvero inusuali: ad esempio a un certo punto lascia parlare una masseria, e in seguito un guardrail, trattando i luoghi e gli oggetti al pari dei testimoni umani della storia. È una Puglia, quella della Nubile, anni luce distante dagli stereotipi dei polpi arricciati sugli scogli, della luce abbacinante del sole e delle orecchiette alle cime di rapa (che pure ci sono, ma restano sullo sfondo). È in definitiva una Puglia meravigliosa e fottuta, un posto che somiglia a molti dei recessi nascosti dentro ognuno di noi. Approfittando della sua consolidata frequentazione di questo spazio, abbiamo girato qualche domanda a Clara.

• Da dove parte questa visione della propria terra natia? Vivi altrove da tempo ma racconti una Puglia amara col piglio di una madre che vede il proprio figlio preferito rovinarsi la vita…
Ciao Omar, innanzitutto, e grazie per avermi ospitato nella tua casa virtuale. Bella quest’immagine della Puglia come figlio preferito che si rovina la vita, o anche come primo amore, mai dimenticato… per me è così, viaggio e mi sento cittadina del mondo, poco italiana a volte, ma “tremendamente” pugliese. Questa visione nasce dai miei ricordi, dalla mia adolescenza scandita da sgommate, spari, sigarette di contrabbando, ciminiere assassine; e sai, la lontananza esaspera i ricordi e la percezione del passato, affinandola… il distacco geografico forse allarga gli orizzonti, ma riduce i vertici del cuore.
• Sei riuscita con impressionante efficacia a rendere plausibili le diverse voci che popolano il romanzo. Quanto lavoro c'è dietro questo processo di mimetizzazione (alcune sono voci maschili) e come sei riuscita a far passare alle forbici del direttore editoriale di Bompiani tanto (bel) dialetto?
Questo romanzo è nato da un articolo di giornale, trovato nel vecchio armadio che dividevo con mio fratello, quando ero adolescente e vivevo ancora giù. La foto di “Dino”, il super-latitante della SCU, e i suoi occhi di ghiaccio. Lui non parla in italiano, e perciò il dialetto è stato inevitabile. Ci ho messo quasi tre anni a scrivere questo romanzo, per calarmi nei personaggi, anche linguisticamente. Ho letto articoli di cronaca, verbali di processi, ho anche assistito a un’udienza di un processo in cui c’erano alcuni dei miei protagonisti. Per me, è un romanzo molto “maschio”, la voce principale è buia e maschia, spietata, ma c’è anche la dolcezza e la tragicità dell’animo umano. Chi ha letto il mio romanzo in Bompiani ha capito sin dall’inizio la necessità del dialetto, perciò non ci sono stati tagli di quel genere, anzi.
• In alcuni tratti la storia mi ha richiamato in mente il racconto di una Brindisi martoriata dalla malavita che faceva anni fa Osvaldo Capraro: lo conosci, l'hai letto? Segui l'attuale panorama narrativo meridionale (soprattutto considerando che proprio dalla Puglia continuano a giungere esperimenti sempre nuovi e interessanti)?
Osvaldo Capraro è un grande scrittore brindisino che conosco poco perché leggo pochi italiani, lo ammetto: sono esterofila, o meglio, indofila. Ma rimedierò. Seguo comunque, anche a distanza, il panorama pugliese. In particolare ho gli occhi puntati su due scrittrici salentine, Luisa Ruggio (il suo romanzo Afra è un capolavoro) e Maddalena Mongiò; e soprattutto… te, Omar. Ho letto e amato i tuoi tre romanzi, Uomini e cani è stata una rivelazione, e anche gli altri due. Quando ho letto La legge di Fonzi stavo già scrivendo Tu come tutto quello che tocchi e sì, lo ammetto, c’è una sorta di continuità fra i nostri romanzi, forse come dici tu «i libri si parlano».
• Hai voglia di raccontarci che ci fa una «terrona» in India? Come sei finita da quelle parti ma soprattutto quanto l'approfondimento di una cultura tanto diversa dalla nostra ha segnato e segna la tua scrittura?
L’India è la mia seconda casa. La prima volta, nel lontano 1999, ci sono andata per puro piacere, avevo scritto la tesi di laurea su una scrittrice indiana e volevo vedere con i miei occhi questa terra incredibile. Due mesi e mezzo in giro con lo zaino e il mio fidanzato durante il monsone, indimenticabile! Poi ci sono tornata nel 2001 con una borsa di ricerca del Ministero degli Affari Esteri, e sono stata due anni a Bombay (non riesco a chiamarla Mumbai!) all’università, occupandomi di un progetto di ricerca su “gender and writing” (progetto che è stato poi pubblicato da un editore indiano col titolo di The Danger of Gender). A conclusione di quei due anni, l’India è divenuta parte di me, e ho iniziato a fare la pendolare fra distanze ciclopiche: ci torno tutti gli anni, là ci sono i miei affetti, i miei amici, i miei cani randagi (ciao Floffy!) e la mia vita indiana. Una cultura incredibile, interessante, viva. Bombay, una città feroce, spietata, eppure dolcissima, incredibilmente umana, dal cielo di madreperla e piombo. Una città molto meridionale, all’eccesso. Una città che è eccesso. Mi ha molto influenzata l’India, sì. Perché il mio primo racconto (La mano di Dio, pubblicato nell’antologia Principesse azzurre 2 - Mondadori, 2004; e il mio primo romanzo Io ti attacco nel sangue - Lain, 2005) sono stati scritti proprio in India, a Bombay: il tempo in India si dilata, e così ho trovato lo spazio della mia scrittura.

martedì 27 marzo 2012

lunedì 26 marzo 2012

wrong monnezza...

Dopo un godibilissimo primo capitolo che era una bella variazione di Non aprite quella porta realizzato sotto l’egida produttiva del compianto mago degli effetti speciali Stan Winston, un secondo capitolo così-così con una simpatica digressione da reality-show e un recente (e dimenticabile) terzo episodio, i rednecks deformi di Wrong Turn tornano alle origini dell’orrore con una sorta di prequel: Wrong Turn 4 - Bloody Beginnigs. Al posto dei boschi a cui le diverse produzioni ci avevano abituati si opta stavolta per un’ambientazione invernale e innevata che inchiavarda lo svolgimento della vicenda quasi interamente all’interno di un vecchio manicomio criminale. Il solito manipolo di teenagers testosteronici (qui però c’è la novità di una coppia di lesbiche che si esibisce in patinati siparietti soft-core) parte per un fine settimana da trascorrere nello chalet di un amico. Si spostano a bordo di veloci gatti delle nevi, ma come da manuale in questi casi si perdono e finiscono nel bel mezzo di una tormenta, per salvarsi dalla quale il gruppo si rifugia in un sinistro edificio che ben presto si rivelerà essere un ospedale psichiatrico abbandonato: il luogo dove tutto ha avuto inizio!
L'estrema tormenta di neve costituisce per il cineasta Declan O’Brien (specializzato in film per la tv, suo il beast-movie Sharktopus) il refrain su cui si regge l'isolamento totale dell'edificio (nonché un notevole risparmio di set: la pellicola è interamente o quasi srotolata tra le quattro mura del maniero), ma la povertà dei mezzi getta in vacca anche qualche buona intuizione scenica e la visione si fa sin dai primi minuti lenta e faticosa. Ad un make-up che si vorrebbe all'antica - e che invece risulta solo dilettantesco e miserrimo - si accompagnano numerosi errori di script e una recitazione da cinodromo, con dialoghi davvero risibili e assurdi («sarà ancora vivo?» si chiedono tre dei ragazzi sapendo che un loro compagno è nelle mani dei cannibali, e subito dalla stanza del macello il compagno grida «aiutooo, sono ancora vivo, ma vorrei morire!»). Ogni tanto si intravede qualche attrezzista di scena far capolino nell'inquadratura (incredibile!) e il gradiente di non-sense nella trama talvolta tocca livelli intollerabili. Insomma, nessuna traccia di quel divertimento cafone che pure sovente accompagna pellicole di questa genia, facendone veri guilty-pleasures. Una eminente minchiata da condannare senza appello, purtroppo!

venerdì 23 marzo 2012

Una trenata di morti ammazzati. Che ridere!

Il sorriso, fortunatamente, si insinua dappertutto. Anche quando meno te lo aspetti. Vedi, per esempio, nel romanzo poliziesco inteso in senso lato dove, con tutti i morti ammazzati che ti piombano addosso, ci sarebbe poco da sorridere. Qualche volta sono i protagonisti ad allargarci la bocca con i loro tic e le loro manie. Detective fissati con la buona cucina e le orchidee; pretucoli con «la faccia tonda e inespressiva come gli gnocchi di Norfolk» che sgambettano goffi con l’ombrello sempre fra i piedi; cicciottelli ambulanti dagli occhi a mandorla sempre pronti a tirar fuori massime singolari; piccoletti con la testa d’uovo ripiena di frenetiche celluline grigie; bassotti e tracagnotti con discreta nappa nasale che sbavano davanti ad un dolce; vecchiette arzille più o meno ciarliere e sferruzzanti, quando non dedite a risolvere complicati cruciverba; cicciottelle grassottelle che dondolano pericolosamente su tacchi alti; omoni giganteschi come velieri dal terribile grido «Arconti di Atene!» che dove si muovono lasciano il segno, e via e via e via. Ultimamente, per cercare di distinguerli dagli altri (fatica di Sisifo), una selva di figure strampalate che devono avere messo a dura prova le capacità creative degli autori.
E se non bastano i personaggi principali ci sono pure le «spalle» a sfruculiarci le ascelle attraverso le loro caratteristiche peculiari ed il loro rapporto con l’«altro». Non c’è bisogno di citazioni.
Naturalmente esistono libri ad hoc per metterci di buonumore, dove al malcapitato di turno ne succedono di tutti i colori. Cito solo Il caso dei libri scomparsi di Ian Sansom, TEA 2011, ultimo letto. Protagonista Israel, inglese cicciottello mezzo ebreo, mezzo irlandese, con «un completo di velluto a coste marrone spiegazzati e sgualciti», occhialini rotondi con montatura dorata, un «disordinato ciuffo di capelli ricci», piccolo e «pienotto», valigia logora, vegetariano, nurofen a portata di mano, arriva da Londra a Tudrum nell’Irlanda del Nord, per diventare bibliotecario della biblioteca, appunto, di questa cittadina. Primo passo sopra una cacca di cane e ci si immagina già il seguito.
Anche nei libri più seri ci possono essere degli spunti programmati per farci divertire. Vedi, pure questo ultimo sott’occhio, il caso di Pessime scuse per un massacro di Enrico Pandiani, Rizzoli 2012, in cui, parallela alla ricerca principale di un terribile assassino, si snoda quella singolare di un ladro di scarpe che, se non gliele dai, sono cavoli amari.
Quando non si sorride per gli spunti comici dei personaggi ecco arrivare, sempre tra una caterva di morti ammazzati, il succedersi rapido dei fatti e il groviglio inestricabile delle situazioni. Non c’è un attimo di tregua e il lettore viene scaraventato di brutto tra scene grottesche ed esilaranti senza che nemmeno se ne renda conto. Ora sei qui, un attimo dopo sei lì, un secondo dopo sei sbatacchiato da tutte le parti. Maestri indiscussi Lansdale e Westlake, tanto per citarne un paio. E per lo sbatacchiamento incontrollato infiliamoci pure il novello Gischler che pare proprio sulla buona strada.
Altro spunto, involontariamente comico, lo stereotipo che ormai dilaga. Tipo la sfiga che in qualsiasi storia è ormai di casa e di bottega. Difficile trovare qualche personaggio che non si sia diviso dalla moglie o dal marito o al quale non sia morto un genitore o un paio di parenti stretti e lui non soffra di qualche paturnia particolare (sull’argomento vedi qui). E tipo pure certi rapporti all’interno di una squadra di poliziotti che non se ne può più, soprattutto se scritti con lo stesso mediocre linguaggio con il quale lo studente ginnasiale butta giù l’elaborato faticoso su Leopardi (sorrisetto di disperazione).
C’è pure il tempo a metterci lo zampino. Sparito il clima più o meno sereno caldo boia e freddo bestia, altrimenti una pioggerellina fitta fitta che spacca i maroni. Spesso pure, in certi racconti brividosi, come scritto da altra parte, il vento che ulula, il gatto che miagola, la civetta che butta fuori il suo grido oppure l’upupa che fa lo stesso, la porta che cigola, il lampo che acceca, il tuono che spacca, passi e sospiri nella notte, il sogno angoscioso, il cuore che impazza, il sudore che cola, la bocca che urla. Una serie di elementi che dovrebbero farci rizzare i capelli ma se messi tutti insieme ci fanno sbellicare dalle risa.
Infine, per cercare di renderci secchi dalla paura con effetto contrario (almeno per il sottoscritto), vampiri, diavoli, streghe, morti viventi (spuntano fuori anche dalla tazza del water) che mordono, succhiano, sbranano, dilaniano lasciando dietro di loro una trenata di morti ammazzati.
Che ridere!

Fabio e Jonathan Lotti (qui altre Voci Amiche)

giovedì 22 marzo 2012

il Revolver continua a sparare...

(sono usciti due nuovi scoppiettanti titoli per la nuova ganzissima linea Revolver Libri: potevamo esimerci dal ricordarvelo?)

• Edimburgo. Scozia. Nick Glass è un giovane secondino. Vessato dai colleghi e umiliato dai carcerati, sembra sempre sul punto di crollare. Quando il più potente fra i detenuti gli chiede di fargli da “mulo” per portare droga in prigione, Glass dapprima si rifiuta. Ma uno psicopatico viene mandato a fare visita a sua moglie e sua figlia. A questo punto Nick deve cedere, entrando in un gioco crudele e spietato, dove la posta è molto alta. Un gioco a cui Glass si ribellerà, abbracciando la follia della violenza. Con il suo stile cupo e incalzante, Allan Guthrie dà vita a un romanzo che incrocia il miglior Chuck Palahniuk e il più delirante Irvine Welsh. Il maestro del tartan noir racconta l’inferno quotidiano del carcere, proponendo una riflessione allucinata e inquietante sulla condizione umana.
«C’è uno straordinario scrittore scozzese di cui dovete assolutamente leggere i libri: Allan Guthrie». Ian Rankin

Dietro le sbarre - Allan Guthrie

• McNee, detective privato a Dundee, viene incaricato da James Robertson di scoprire perché suo fratello abbia deciso di togliersi la vita. Il corpo di Daniel è stato infatti trovato che dondolava da un albero: impiccato. Robertson ha poche notizie su di lui: quel che è certo è che dalla Scozia suo fratello era andato a cercar fortuna a Londra trent’anni prima, diventando il tirapiedi di un boss della mala. McNee è scettico, ma, raccolte le prime prove, si rende conto che Daniel non aveva un motivo per farla finita e, peggio ancora, la polizia sembra a tutti i costi voler liquidare il caso al più presto. Il detective capisce di aver ficcato il naso in un affare più grande di lui, e un’indagine come tante diventa un gioco nero che si svela un po’ alla volta. Fra colpi di scena e macabre sorprese, McNee stesso rischia di naufragare negli incubi del proprio passato. Un libro dalle atmosfere crude, violente, da incubo, con uno stile claustrofobico e pieno di poesia malata. Una girandola delirante che gronda dolore, con un finale pieno di ombre, quelle che nemmeno la pioggia perenne del romanzo potrà mai più lavar via dall’anima.
«Il più esaltante debutto nella letteratura scozzese degli ultimi anni. Segna l’arrivo di un incredibile talento». John Connoly

L’impiccato - Russel D. McLean

mercoledì 21 marzo 2012

Nero di Puglia, in libreria...

«Undici racconti noir che raccontano di una Puglia diversa, non di quella regione che ha saputo caparbiamente (ri)costruirsi l’immagine, passando in un paio di lustri da vetusto serbatoio di povertà ed emigrazione a mirabolante diapason delle nuove correnti creative musicali, cinematografiche e letterarie, ma quella che serba ancora, al suo interno, uno zoccolo duro di sfacelo tutto meridionale, qualcosa che l’onda benevola della recente attenzione mediatica preferisce celare, tenere a bada, confinare in qualche recondito meandro cui solo il pungolo di un’arte priva di scrupoli può permettersi di risvegliare. In mezzo allo sfolgorio accecante di un sole unico e al ritmo cadenzato dei tamburelli della taranta, voci di dissenso si sono coraggiosamente messe a raccontare, ricordando a chi credeva che quest’angolo remoto di Sud fosse bonificato dalla mafia, dalla corruttela, dall’abusivismo e dalla malasanità, che quaggiù, oltre al sapore dei taralli e alle note della pizzica, pulsa (purtroppo!) ancora un cuore nero come la pece. Nero di Puglia cerca pertanto di offrire uno spazio ulteriore a quelle scritture che hanno voglia di osare, di oscurare la luce, mettere per iscritto la lunga ombra in cui diguazzano ancora intatti i vecchi mali di una Questione Meridionale mai scientemente affrontata».

Nero di Puglia (Ed. Gelso Rosso)
a cura di  Sergio Carlucci e Valentino G. Colapinto
Prefazione di Omar Di Monopoli

martedì 20 marzo 2012

corri, uomo, corri...

Giusto due parole su Il sogno del maratoneta, biopic televisivo che ieri e Domenica la rete ammiraglia Rai ha mandato in prima serata. Se mettiamo da parte l'insulsa deriva della nostra recente produzione televisiva per la quale ormai allo spettatore si può mostrare solo la «vita» di qualcuno (Walter Chiari, il brigante Crocco, Padre Pio, Vattelappesca, ecc.) per una volta va segnalato con piacere un prodotto italiano finalmente degno, ben realizzato, strutturato in maniera adulta e non pensato esclusivamente per un pubblico di vecchi rintronati con i neuroni in stallo chimico. Certo, cose opinabili ce n'erano, eccome (la recitazione di Laura Chiatti, ne vogliamo parlare?), ma nel complesso lo sceneggiato irradiava un'aura di grandeur cinematografica finalmente esportabile e non scialba e provinciale (buffo, visto che la storia del jogger Dorando Pietri è figlia della provincia più periferica). Tutto ciò grazie soprattutto alla bravura del regista Leone Pompucci, uno che della composizione estetica ha fatto la propria cifra non lesinando in sprazzi di misurata surrealtà. Liberamente ispirata all’omonimo romanzo di Giuseppe Pederiali, la fiction è stata realizzata dalla Casanova Multimedia di Luca Barbareschi e interpretata ottimamente da Luigi Lo Cascio. Il regista ha dichiarato: «Pietri è stato beffato proprio nel suo sogno di vincere. Una beffa mondiale: tra tutti i vincitori di maratona di sempre, e per sempre dimenticati, solo lui è passato alla storia. Per non aver vinto. Di questo abbiamo voluto occuparci in questa storia, raccontando anche un po’ dei suoi luoghi, del suo tempo, della terra padana e di un uomo che ci correva in mezzo».

domenica 18 marzo 2012

ego e follia tra le sbarre...

«I wanted always to be famous», sostiene il detenuto Michael Peterson in arte Bronson (come il più famoso Charles, mitico giustiziere della notte cui vagamente somiglia), e alla fine questo esaltato schizoide dall'ego in perenne espansione centra in pieno il suo bersaglio. Dalla cella del carcere in cui sta scontando il suo trentacinquesimo anno di detenzione - di cui buona parte in isolamento - il «prigioniero più famoso d’Inghilterra» è riuscito nel suo intento grazie a quel genietto di Nicolas Winding Refn che nel 2008, qualche tempo prima cioè che la stampa e i festival di tutto il globo terracqueo glorificassero il suo sorprendente Drive, l’ha consegnato alla storia della Settima Arte con un biopic selvaggio, ipnotico e terribile che tiene incollato allo schermo anche lo spettatore refrattario al filone prison-movie. Manipolando quindi materiale rigorosamente vero (fatevi un giro sul tubo dopo la visione del film, il vero «Bronson» è inquietante almeno quanto quello sullo schermo), il giovane cineasta danese adotta per il suo racconto soluzioni sperimentali  inconsuete, talvolta addirittura antinarrative, passando con abilità ammirevole - e una stilla di furbizia, va detto - dall’avanguardia più spudorata al pulp di conio classico. Refn viviseziona la biografia del pericoloso sociopatico in quadri giustapposti, esteticamente ineccepibili: ogni dettaglio della scenografia è meticolosamente collegato ai movimenti degli attori, così come la scelta dei colori segue con scrupolo quasi maniacale i dettami di un perfetto equilibrio cromatico.
Il colpo d'occhio complessivo è uno spettacolo che sovente incanta, soprattutto nelle scene in cui il protagonista Tom Hardy - davvero straordinario, se continua così (e continua così: vedere Inception, Warrior ma soprattutto lo aspettiamo nel ruolo di Bane nell'ultimo Batman) presto sarà una star di primo livello - mette in scena la tracotanza fuori controllo del suo narcisismo deviato. Film davvero coinvolgente, a tratti grottesco ma sempre perfettamente a registro, senza sbavature, per non parlare di una colonna sonora da sturbo capace di ospitare Verdi e i Pet Shop Boys con una naturalezza sorprendente. Chissà perché agli amici di Sentieri Selvaggi il regista continua a non convincere. A noi il film ha ricordato tanto pure questo.

sabato 17 marzo 2012

intelligenza a paccate: Marco Rossari...

Parola di scrittore / 1
Io non scrivo, io pubblico.
C’era uno scrittore che scriveva solo cose vere, ma tutti gli chiedevano cosa c’era di inventato. Non appena passò a scrivere cose inventate, tutti cominciarono a chiedergli cosa c’era di vero.
Parola di scrittore / 2
Io non pubblico, io scrivo.
C’era uno scrittore che, ancora prima di concepirlo, scriverlo e pubblicarlo, aveva dedicato il libro alla fidanzata. ”L’ho dedicato a te, amore” le disse. ”Davvero, zuccherino?” domandò lei, commossa. E vissero per sempre felici e inediti.
Parola di scrittore / 3
Io non scrivo, io vivo.
C’era uno scrittore che aveva letto un solo libro, il suo. E gli era bastato.
Parola di scrittore / 4
Io non vivo, io scrivo.
C’era uno scrittore che considerava la letteratura finita, anche perché non leggeva mai un libro.
Parola di scrittore / 5
Io non pubblico, non scrivo e nemmeno vivo. Sto bene, infatti.


L'Unico scrittore buono è quello morto
Marco Rossari (Ed. e/o)  -  [qui il blog dell'autore]

venerdì 16 marzo 2012

beautiful Puglia...

È di oggi la notizia che il mascellone della soap ammerigana verrà a girare nel Salento alcuni episodi del famoso programma. Ci apprestiamo ad accogliere la troupe nelle nostre splendide lande con uno scampolo tipico di vita quotidiana di quaggiù: un momento decisamente beautiful :-)

martedì 13 marzo 2012

roba buona dalla Puglia...

Il corpo estraneo è una tragedia on the road, in cui la storia recente (di sempre) d’Italia - un Paese che viene giù ogni mese - fa da sfondo a vicende intime, private e prive di radici. Danilo Dannoso - appena fuori o appena dentro una dipendenza socialmente inaccettabile - è estraneo al suo corpo, al corpo delle vite che attraversa di nascosto, al corpo di un Paese intero; dorme con i vestiti addosso e sogna d’essere ospite di talk show televisivi in cui può finalmente dire le verità, tutte le verità che ha intuito. Per lavoro, Danilo gira l’Italia in lungo e in largo per conto della Fondazione di suo zio, senatore eletto nelle fila di un partito politico molto chiacchierato. Mentre organizza dibattiti ed eventi culturali, Danilo fa il corriere per un’organizzazione sotterranea che sposta soldi e cura interessi oscuri. L’impalcatura, questa impalcatura, inizia a crollare quando il senatore Dannoso viene arrestato. Danilo tenta la fuga con una donna che sembra un apostrofo: ma è lei a inseguire un uomo che «a breve sarà costretto a compiere una scelta».

L’AUTORE: Marco Montanaro ha pubblicato Sono un ragazzo fortunato (Lupo, 2009), raccolta di racconti circensi (con la partecipazione straordinaria di una piovra gigante); e La Passione (Untitl.ed, 2010), romanzo-farsa-tragedia in lingua originale. Altri suoi pezzi sono sparsi in antologie e in giro per la rete. Il suo blog è malesangue.com.

lunedì 12 marzo 2012

tra rednecks e divinità scandinave...

Aleggia con pervicacia dirompente lo spettro di quel gran maestro che è Daniel Woodrell, in questo brillante, ipnotico debutto di Derek Nikitas intitolato I fuochi del Nord che la nuova casa editrice Revolver ha appena dato alle stampe. Come nello splendido capolavoro di Woodrell, quell'Un gelido inverno portato con successo anche sullo schermo, infatti, anche qui compare al centro della storia una sedicenne costretta sua malgrado a diventare cazzuta e raminga in un mondo devastato e vile: qui risponde al nome di Lucia Morberg, una teenager decisamente «emo» che all'inizio l'autore ci presenta nel candore della sua innocua quotidianità consumata in un paesello come tanti sull'Ontario. Il padre della pischella, Oscar, docente universitario di origini svedesi, ama raccontarle fiabe tratte dalla tradizione nordica prendendola amabilmente in giro, mentre la madre Blair, una volta gran bel pezzo di pollastra con qualche vaga aspirazione di successo, sembra oggi essersi persa in un turbine inesorabile di alcool e depressione. Un bel dì, in un parcheggio di un centro commerciale, la vita di Lucia subisce uno scarto irreversibile. Il padre, da cui si era fatta accompagnare a rovistare tra gli ultimi titoli di quella musica dark tanto in auge tra gli adolescenti problematici di fin-de-siécle, viene ucciso durante un tentativo di rapina; da lì in poi tutto precipita: d'un tratto una ragazzina come tante affogherà nel sangue trovandosi invischiata in un turpe giro di violenza e ricatti. Improvvisamente catapultata nel mondo degli adulti, si ritroverà a fare i conti con ciò che si nasconde dentro un'esistenza apparentemente consueta sperimentando sulla propria pelle tutto il dolore che la vita è capace di riversarti addosso. Sola e derubata di qualsiasi speranza, l'adolescente potrà però far conto sull'inaspettato aiuto di un'altra donna provata dal destino, l’investigatrice Greta Hurd, poliziotta disillusa (accompagnata nelle indagini dal fido pard Moe) il cui intuito suggerisce sin da subito che dietro quell’apparente caso di rapina a mano armata si cela qualcosa di ben più tragico e oscuro e che troverà nella fanciulla una figlia da proteggere e salvare.
Il sapiente gioco d'equilibrismo tra contemplazione riflessiva e ritmo adrenalinico anima la vicenda regalandoci capitoli brevi e intensi che s'incastrano tra loro scorrendo via senza intoppi, punteggiando peraltro il libro di una pluralità di sguardi davvero ammirabile nel lavoro d'un esordiente; la caratterizzazione credibile di ogni psicologia fa sì che i personaggi del romanzo maturino a poco a poco un proprio spessore, un proprio personalissimo "sentire" che da solo sorregge l'allestimento della scena mentre tutto il resto è affidato alla speciale abilità di Nikitas nel gestire i diversi registri che costellano la narrazione. Il risultato complessivo è un noir di sicura presa, alla cui trama non particolarmente originale fa sicuramente da contrappeso una chirurgica capacità di vivisezionare il vissuto sociale che anima la provincia americana in primis e quella dell'intero occidente di rimbalzo; colpisce, inoltre, il lavorio costante dello scrittore sulla mitologia scandinava: Nikitas non ne fa materia di inessenziale ammicco folcloristico ma ne fonde invece le coordinate con il ritmo cadenzato tipico del filone, ottenendo per I fuochi del Nord un acre retrogusto di fiaba goticheggiante: Lucia è nata il giorno di Santa Lucia, alla ragazzina compaiono di tanto in tanto dei Tomte (una sorta di gnomi), ci sono riferimenti alle spoglie dei condottieri nordici bruciati sulle loro imbarcature, gli stessi quattro tronconi portanti del volume hanno titoli da epica scandinava: “La morte di Baldr”, “Figlia della luce” e “Figli di Hel”, per chiudersi infine con l'altisonante “Ragnarok”, la madre di tutte le battaglie di cui quaggiù abbiamo sentito parlare solo nei fumetti di Thor. Fulgido esempio di come ancora oggi, dopo decenni di esperimenti attorno al genere, un noir possa ancora parlare al cuore dei lettori facendogli porre domande che non necessariamente abbisognano di risposte. Correte in libreria, please!

I fuochi del Nord - Derek Nikitas (Ed. Revolver)

venerdì 9 marzo 2012

chi si rivede...

(è tornata attiva, con una nuova veste grafica e un catalogo in fieri, la mitica Meridiano Zero. Lo segnaliamo anche quaggiù, in ricordo di vecchi amori mai dimenticati e con l'augurio di una nuova vita editoriale anche sotto l'egida di Odoya).

i poeti non muoiono...

«Le abitudini si fanno con la pelle / così tutti ce l’hanno se hanno pelle»

giovedì 8 marzo 2012

donne e pubblicità...

(qui una clamorosa serie di pubblicità immorali e sessiste. Un modo di parlare della donna in questo giorno) (perché? Che giorno è oggi?:-)

mercoledì 7 marzo 2012

solidarietà femminile al tempo del KKK...


È il 1962 a Jackson, laggiù nel profondo Mississippi. Una giovane neodiplomata con velleità giornalistiche di nome Skeeter decide di scrivere un libro che approfondisca il punto di vista delle mamies di colore: non sarà impresa da poco.
È uno spunto tutto sommato lieve quello da cui si snoda The Help, intensa pellicola dall'irresistibile fascino old-style non a caso quest'anno pluripremiata agli Oscar da un'Academy Awards sempre più avvizzita. Ma il film, oggettivamente elegante e ben realizzato, scorre senza sdruccioli e, salvo qualche caduta di tono perdonabilissima, sfiora di sovente la perfezione.
Opera corale al femminile (gli uomini hanno ruoli di poco o nullo valore) ispirato al romanzo omonimo di Kathryn Stockett (grande successo negli Stati Uniti, in Italia, allocchi, se lo sono venduto con scarso ritorno come l'ennesimo, evitabilissimo romanzo chick-lit) si avvale di uno splendido cast a partire dalla brava Jessica Chastain per concludere con la meravigliosa Emma Stone. Ma in un film sulla segregazione razziale non può che spiccare il parco di attori colored, azzeccatissima risulta infatti la scelta di Viola Davis e sopratutto di Octavia Spencer (nei panni della grassa cameriera Minny), quest'ultima inarrivabile nel comunicare con un paio di smorfie e un'occhiataccia la frustrazione dell'essere considerata ultima tra gli ultimi in un Sud arroventato dagli schemi e dai pregiudizi. La storia allestisce una serie di eventi inanellati in crescendo, come una sorta di urlo strozzato al cui interno riecheggiano soprusi e barbarie antichi come il mondo, eppure attualissimi. Assistendo alle vicissitudini di questo gruppuscolo di donne differentemente impegnate, tra invidie, volontà di riscatto, nobiltà d'animo e pochezze morali, la memoria ritorna a lungometraggi come La lunga strada verso casa, del 1990, che vedeva Sissy Spacek (presente infatti anche qui quasi a chiudere il cerchio) al fianco d'una grande Whoopi Goldberg. Qui vige la medesima, attentissima ricostruzione filologica sixties di abiti, ambienti e comportamenti, senza che però ciò appaia come una scialba derivazione della moda imperante grazie ai vari Mad Men (che pure, per carità, a sua volta una serie pressoché perfetta) ma facendone anzi elemento necessario per scandire un unico fil-rouge che dal passato porta lo spettatore a riflettere sugli sviluppi odierni dell'integrazione razziale. Chi osserva - incantato dalla bellezza della messa in scena - l'incredibile ottusità di alcuni comportamenti rappresentati sullo schermo dall'abile regista Tate Taylor finisce per chiedersi se quei problemi siano stati risolti una volta per tutte, e non solo in quella fetta di mondo. La risposta, ovviamente, è: manco per niente!

ieri erano 85 per gabo...

martedì 6 marzo 2012

su Cronache Letterarie...

(Il blog Cronache Letterarie ospita oggi un vecchio articolo su Erskine Caldwell firmato dal titolare: un modo come un altro per tornare a riparlare di questo immenso autore southern)
Meno noto di molti suoi eminenti colleghi ma indiscutibilmente il più amaro esponente della cosiddetta letteratura sociale degli Stati Uniti, Erskine Preston Caldwell (1903-1987) è l’autore del memorabile «ciclo del Sud», da lui composto in solitudine e tra gli stenti, in una fattoria semiabbandonata. Ne sono protagonisti i poveri bianchi, quelli che poco o nullo spazio trovano nell’opera della grande genia di narratori southern capitanata da William Faulkner: un’umanità povera, sporca, ignorante, avvilita e violenta, alle prese con la fame, il sesso e gli altri istinti primordiali (oggi è consuetudine riferirsi a loro con il termine ‘white trash’, spazzatura bianca). Personaggi che non hanno nulla di eroico e che vivono storie di quotidiana miseria, ignoranza e degradazione [continua qui]

lunedì 5 marzo 2012

trent'anni fa come oggi Bluto ci lasciava...


Gli uomini-bestia di H. G. Wells

«Il primo febbraio dell'anno 1887, il piroscafo Lady Vain andò perduto in una collisione con una nave alla deriva a circa 1° di latitudine sud e 107° di longitudine ovest.
Il 5 gennaio del 1888, ossia undici mesi e quattro giorni dopo, mio zio Eduardo Prendick, un modesto gentiluomo che doveva essersi imbarcato a bordo del Lady Vain a Callao e che si credeva perduto 5° 3' di latitudine sud e 101° di longitudine ovest, fu raccolto da un canotto il cui nome era illeggibile, ma che si suppone appartenesse al bastimento Ipecacuanha che non si era più trovato.
Egli fece un racconto così strano di se stesso e delle avventure capitategli, che lo si suppose demente. In seguito, anzi, ammise che la sua mente era rimasta scossa fin dal momento in cui era scampato al naufragio del Lady Vain. Il suo caso era stato classificato dai fisiologi del tempo come un curioso caso di mancanza di memoria cagionato da sforzi fisici e mentali»

L'ISOLA DEL DR. MOREAU
di Herbert G. Wells - (varie edizioni disponibili)

venerdì 2 marzo 2012

un po' di Palahniuk per il week-end...

«Wallace Boyer (venditore d'auto): Come la maggior parte delle persone, anch'io non avevo mai visto Rant Casey né ci avevo mai parlato finchè non è morto. Con la gente famosa è così, quando tirano le cuoia la loro cerchia di amici intimi si ingigantisce. Un morto famoso non può girare per strada senza incontrare un milione di migliori amici che nella vita vera non ha mai conosciuto.
Per gente come Jeef Dahmer e John Wayne Gacy, morire è stata la miglior mossa di carriera che abbiano mai fatto. Dopo che Gaetan Dugas è morto, il numero di partner sessuali che dicono di averci scopato è schizzato alle stelle.
Come diceva Rant Casey, la gente ti rende famoso parlando male di te finchè sei vivo, oppure cantando le tue lodi quando non lo sei più».

Rabbia di Chuck Palahniuk (Mondadori Strade Blu)

giovedì 1 marzo 2012

i primi passi di Nisbet...

«Ho sempre voluto scuoiare una donna», questo il folgorante incipit sul foglio inserito nella macchina da scrivere di Herbert Trimble, scrittorucolo stralunato e turpe che occupa l’appartamento accanto a quello di Virginia Sarapath, una donna crudelmente assassinata: i polsi recisi a colpi di rasoio, il seno sinistro asportato di netto, la vittima era impegnata in un amplesso duraturo e rumoroso prima di morire, ma le indagini brancolano nel buio più fitto. Il caso finisce quindi nelle mani del detective privato Martin Windrow, casualmente coinvolto nelle investigazioni, che grazie ad un istinto molto old-style riuscirà a districarsi nella fumosa ragnatela di indizi sino all'agghiacciante rivelazione finale.
Datato 1981, I dannati non muoiono è il romanzo con cui la stella del grande Jim Nisbet ha cominciato a risplendere nel cielo del noir contemporaneo, un libro ai suoi tempi pubblicato da Bompiani e oggi riproposto da TimeCrime con un finale inedito scritto dall’autore appositamente per i lettori del Belpaese. Il volume è oggettivamente mooolto ben scritto, la prosa dell'autore statunitense era ineccepibile già trent'anni fa, e l'ambientazione di una San Francisco torbida e nebbiosa nella quale si muovono personaggi loschi e  minacciosi funziona con cronometrica precisione. Eppure è impossibile non ravvisare nella vicenda un certo fiato corto, una allure un po' datata che se negli anni 80 poteva accattivare il lettore oggi non stupisce certo il pubblico esperto e smaliziato che da allora ha macinato dozzine di killers cannibali, teste scuoiate, dottori psicopatici e maliarde assassine d'ogni tipo. Anche il protagonista Martin Widrow sembra ricalcato con forse troppa scrupolosità sul format dei suoi illustri predecessori dell'hard-boiled (Marlowe su tutti) con una caratterizzazione che di sicuro affascina ma certo non si permette mai un guizzo originale. Nisbet però, va detto, è una colonna del genere e non delude mai, anche in una prova un po' statica come questa resta comunque una spanna al di sopra di un sacco di giallisti di oggi. In definitiva: un'ottimo libro da acquistare con lo spirito del collezionista: si ravvisano tutte le peculiarità stilistiche che lo scrittore di Cattive Abitudini e Iniezione letale maturerà negli anni a venire ma non bisogna aspettarsi miracoli. Notarella sul finale inedito: aggiunge poco e niente alla storia ma ci dice qualcosa in più sul protagonista. Ed è comunque una cadeau gradito.

I dannati non muoiono - Jim Nisbet (Ed. TimeCrime)

(fa' solo che sia figo come sembra!!!)