giovedì 10 novembre 2022
lunedì 20 settembre 2021
al solito, il blog è più che morto. È stecchito. Però ogni tanto ci ricordiamo di avere questo spazio qui parcheggiato e allora perché non usarlo per informare i viandanti di passaggio sulle nostre mirabolanti avventure editoriali? Ecco: esce il nuovo pupo ad ottobre. Si chiama «Brucia l'aria», e ha la cover strepitosa di Andrea Serio:
domenica 31 gennaio 2021
(blog in stallo da anni, ok, però ogni tanto qualche notizia importante veniamo a riferirla. Tipo che ad aprile esce in Spagna la versione iberica de «Nella perfida terra di dio» per i tipi della Malastierras. Muy pronto!)
giovedì 3 gennaio 2019
su e giù per lo Stivale...
(ormai da queste parti non ci mettiamo quasi più il naso, il blog è fermo da tempo e per il momento va bene così! Ma poiché alla fine è diventato una sorta di magazzino virtuale ci fa piacere rendicontare qui con qualche istantanea anche questo lungo e proficuo 2018, un ennesimo anno di chilometri macinati e presentazioni in lungo e in largo dello Stivale; ora qualche settimana di sosta, il nuovo romanzo è alle porte, stay tuned!)
Santa Maria di Leuca - Circolo Nautico |
Gavoi - Festival Isola delle Storie |
Milano - Biblioteca Sormani |
Roma - Festival della Letteratura di Viaggio |
Cortina D'Ampezzo - Premio Montagna di Libri |
Torino - Libreria Therese |
Foggia - Ubik in piazza |
Verona - Liceo Messedaglia |
Seregno (MB) - Circolo Arci |
martedì 1 gennaio 2019
lunedì 4 giugno 2018
giovedì 21 dicembre 2017
next step: 2018!
...da qualche tempo abbiamo preso a utilizzare questo nostro spazio - ormai in modalità irrimediabilmente catatonica - trasformandolo in una sorta di piccolo forziere per articoli, interviste ed eventi legati all'uscita della nostra più recente creatura letteraria, Nella perfida terra di Dio, un romanzo che ci sta dando tante soddisfazioni e che ci ha fieramente accompagnato lungo un viaggio promozionale durato cinque mesi facendoci sbarcare in ben cinquanta (50!!!) città di questo nostro splendido e complicato stivale. Ora è tempo di fermarsi un po' per tornare a scrivere (la ristampa di Uomini e cani per Adelphi è ufficialmente fissata per la prossima primavera e c'è inoltre un inedito cui dedicarsi con impegno e abnegazione, ma di questo parleremo a tempo debito).
Nell'augurare il nostro più caloroso Buone Feste agli oramai sporadici navigatori di passaggio per queste lande digitali, proponiamo loro un breve sunto fotografico - un assaggio, poco più di una sinossi - di quello che è stato un tour sì sfiancante ma appassionato, emozionante, sorprendente e, in una parola, superlativo.
à tout à l'heure
Nell'augurare il nostro più caloroso Buone Feste agli oramai sporadici navigatori di passaggio per queste lande digitali, proponiamo loro un breve sunto fotografico - un assaggio, poco più di una sinossi - di quello che è stato un tour sì sfiancante ma appassionato, emozionante, sorprendente e, in una parola, superlativo.
à tout à l'heure
Andria (BAT) |
Bovolone (VR) |
Crotone |
Cuneo |
San Cataldo (LE) |
Lugo di Romagna (RA) |
Ostuni (BR) |
Parma |
Ravenna |
Torre Lapillo (LE) |
Torricella Peligna (CH) |
Pistoia |
Acciaroli e Pioppi (SA) |
Roma |
lunedì 18 dicembre 2017
Perfida Terra su Cabaret Bisanzio...
“In lontananza, velati dalla caligine, i cupi boccagli delle ciminiere dell’impianto siderurgico striavano il cielo con plumbee volute di fumo.” “Là fuori carcasse d’auto sfasciate giacevano capovolte come testuggini riverse sul dorso, ed erbacce di ogni genere infoltivano le asperità della piana formando giganteschi grovigli di rosticcio nei quali divani sventrati e vecchi frigoriferi proliferavano.”
Come annunciato nel titolo, non ci troviamo in una terra benedetta da Dio ma in una landa abbandonata a sé stessa; un’isola dove regna il degrado e dove gli uomini che ci vivono non possono evitare di subirne il contagio:
“…paesi quali Rocca Bardata… depredati dalla criminalità e vessati dalla cronica mancanza di lavoro… [ritornano] quasi per inerzia a quell’isolamento arcano e selvaggio che caratterizzava quelle lande sin dai tempi dei Borbone.”
Una terra, fra la provincia di Brindisi e quella di Taranto, che vive in un tempo che è solo suo, racchiusa in una nicchia ai margini del tempo presente, quello nostro, di noi che viviamo oltre i suoi confini.
Nel paese, ai suoi margini, vive il vecchio Nuzzo, che si crede profeta e santone, assieme ai suoi due nipoti, Michele e il fratello maggiore Gimmo, che gli fa da padre fino al ritorno del vero padre, da entrambi odiato perché sospettato di aver assassinato la madre. Fanno contorno boss locali con le loro attività criminali, una badessa che ha perso di vista il senso della sua missione e si serve dei clan per raggiungere i suoi loschi scopi, e gli abitanti di Rocca Bardata, che svolgono il ruolo del coro, proprio come nel teatro classico, facendoci partecipi, con i loro commenti, dei retroscena della vicenda che ci viene raccontata.
Il romanzo è strutturato fra un “dopo” e un “prima”, a capitoli alterni, in modo tale che veniamo a conoscenza degli effetti di azioni le cui cause scopriremo successivamente; nonostante ciò, la tensione di questo noir provinciale, mediterraneo ma dalle alte ascendenze letterarie (nel risvolto di copertina si fa il nome di Faulkner), non subisce alcun calo di sorta. Anche perché qui il tempo è quello di una violenza primitiva, senza tempo o fuori dal tempo: prima e dopo, qui, sono concetti fuori luogo. Conta solo stare al di sopra della miseria endemica di questa terra, costi quel che costi; spacciando stupefacenti, sotterrando rifiuti tossici, eliminando i nemici dei clan rivali.
E poi c’è Tore, il padre dei due ragazzi, un malavitoso di piccolo calibro che è tornato in paese per compiere la sua vendetta, dopo che si era allontanato per non mettere a rischio la vita dei suoi figli.
Un episodio a me è sembrato emblematico, quella in cui il piccolo Michele si rifugia in una grotta dove appende alle pareti piccoli animali, rane bisce insetti topi, che cattura e sacrifica alla memoria della madre sull’altare improvvisato della sua religione personale e pagana. Attraverso la “porta” di accesso alla grotta si entra in una dimensione infantile del mondo, così come infantile (ma dell’infanzia dell’umanità) e distante da un mondo di adulti consapevoli e da una concezione del vivere civile, è la vita che si conduce attorno ai tavoli del biliardo, avvolti di fumo, nel bar che è anche la sede del boss di turno, luogo dove avvengono i regolamenti dei conti, oppure nelle cave abbandonate dove si scommette sui cani, incitati a sbranarsi fra l’eccitazione di un pubblico di disperati, che dissipa nel “gioco” tutte le sue misere sostanze.
Al di là della vicenda raccontata, colpisce moltissimo la lingua che sa dispiegare l’autore, un impasto di italiano ricercato, colto, letterario e dialetto, raggiungendo, in alcune parti, vertici gaddiani: “Arrivò in groppa al Cagiva sputacchiante del suo socio, incipriando di dervisci di polvere finissima la viottola…”
“…le comari..s’avvicendavano al suo cospetto per cercare di riportarla alla ragione mentre il neonato, in telepatica connessione con la tempesta che stava abitando la madre, saturava il piedicroce con gli assordanti decibel del suo pianto a dirotto.”
La lingua, sì la lingua e lei sola, è l’unica luce che rischiara tenuemente il buio abissale che avvolge questo romanzo davvero straordinario. (qui l'originale)
sabato 16 dicembre 2017
venerdì 15 dicembre 2017
su Il Caffè Quotidiano...
Il premio nobel argentino Daniel Mantovani ha dichiarato che “la realtà non esiste, non ci sono parti ci sono interpretazioni. La realtà, o ciò che noi definiamo verità, è un’interpretazione che ha prevalso su tutte le altre”, sottolineando così come le costruzioni letterarie non siano così divergenti dal racconto della quotidianità compiuto dai media ogni giorno. Questo non solo dà estrema dignità alla finzione letteraria, ma la rende altrettanto degna di essere uno strumento perfetto per la decodificazione della realtà stessa. Dello stesso pensiero del maestro Mantovani, autore reso celebre soprattutto da Il gigante di sabbia, è sicuramente Omar Di Monopoli, il quale, alla stessa maniera di Mantovani, presentando il suo ultimo lavoro Nella perfida terra di Dio presso la enolibreria Chourmo venerdì 15 dicembre, ha sottolineato come attraverso i suoi romanzi cerchi di comporre un quadro a tinte noir della realtà torbida e piena di sfaccettature della sua Puglia, utilizzando le tonalità di un linguaggio innovativo, con una struttura degna di un western di Leone. Con l’estrema padronanza che l’ha contraddistinta nei precedenti incontri della rassegna, Silvia Pellizzari, collaboratrice della rivista Finzione Magazine, ha presentato e dialogato con Omar Di Monopoli cercando di introdurre il pubblico nel suo meraviglioso mondo, immergendolo grazie alla passionale lettura di Serena Varrucciu.
“Sono circa dieci anni che faccio, attraverso i miei romanzi, una rivisitazione della mia terra, la Puglia, che passa per essere bonificata dai mali che attanagliano il Sud, proposta dai media per l’incanto e la magia dell’estate - racconta Omar - Io descrivo la polvere sotto il tappeto: i lacerti della sacra corona unita, i drammi del più grande impianto siderurgico, l’Ilva, che avvelena i destini dei personaggi che sono un po’ la metafora di chi vive la Puglia tutto l’anno. C’è poi naturalmente la volontà e la sfida di rendere questa mia terra come il simbolo di una periferia più generale, parlando di ultimi.” Ma non siamo di fronte alla versione pugliese di Roberto Saviano, non essendoci una volontà prettamente documentaristica nella sua scrittura, ma, al contrario, una volontà compositiva e costruttiva che prende spunto direttamente dal suo tentativo iniziale di emulare Andrea Pazienza e spazia dalla pittura al cinema.
“Non appartengo a quella schiera di scrittori che Francesco Pacifico una volta definì scrittori psichici, che fanno entrare nell’animo dei personaggi, dato che i miei urlano, bestemmiano, sparano, scopano, piangono, fanno delle cose, e questo è un processo eminentemente cinematografico, lasciando al lettore la responsabilità di dare un giudizio morale su quanto accaduto. Allo stesso tempo è un procedimento molto pittorico perché descrivo tutto minuziosamente attraverso questa lingua particolare, che è barocca, espressionista e anche iperbolica. Come un fumettista, cerco di calcare i neri e i bianchi, con la differenza che, nei miei romanzi, prevalgono i neri”.
I grandi artisti che hanno influenzato Omar sono molteplici: dal già citato Sergio Leone a Sam Peckinpah, per quanto riguarda l’impostazione visiva, anche se alcuni vi hanno visto anche Quentin Tarantino o Martin Scorsese. Dal punto di vista linguistico, invece, il più grosso debito lo ha nei confronti delle sperimentalismo linguistico di William Faulkner, mediato, però, dalle traduzioni di Pavese. La lingua impiegata nel romanzo, in particolare, è costruita su una commistione di dialetto e italiano arcaico, rendendola così di difficile comprensione, ma senza essere necessariamente un limite, poiché il lettore, prendendo il ritmo del racconto, riesce a capirne il senso e anche ad essere così catapultato dentro a questo mondo. “Un libro deve stupire e cosa c’è di più bello che trovare una lingua finalmente nuova dopo che tutto è stato detto? Questo è un procedimento artistico, infatti l’intenzione è di fare di questi volumi delle opere d’arte”.
Se la realtà è solo interpretazione, come sostiene Mantovani, queste meravigliose costruzioni di Omar possono veramente lasciare qualcosa sulla Puglia, al di là delle stimolazione artistico - visive? Non si rischia forse di entrare in un mondo meravigliosamente cupo ma di confondere realtà e finzione e discapito della realtà, almeno per chi non ne è in diretto contatto? O forse invece sono proprio le particolarità artistiche modellate da Omar, dalle immagini al linguaggio, ad essere un veicolo perfetto per far conoscere una realtà spesso dimenticata. Dopotutto, anche Daniel Mantovani non esiste, se non nel film Il cittadino illustre, ma le sue parole non hanno di certo meno valore, veicolando un’importante messaggio, nello stesso modo di Nella perfida terra di Dio.
(Marco Rossi per Il Caffè)
(Marco Rossi per Il Caffè)
mercoledì 6 dicembre 2017
su ThrillerCafé...
È ormai uscito da qualche mese un nuovo romanzo di Omar Di Monopoli, il suo primo per Adelphi, Nella perfida terra di Dio. Non posso far altro che rammaricarmi e scusarmi per essere arrivato così tardi nel segnalarvelo, ma più che in ogni altro caso da anni, ho sentito l’esigenza di distanziarmi dall’opera e dall’autore, per verificare se i miei entusiasmi fossero in grado di durare nel tempo.
I miei entusiasmi hanno retto a ogni critica razionale che ho cercato di opporre, hanno passato indenni una rilettura, e hanno superato ogni esame pseudo-oggettivo che ho sentito come dovuto: posso quindi ora dirvi che Nella perfida terra di Dio è il migliore romanzo italiano che il sottoscritto abbia letto nel 2017, non soltanto per quanto riguarda il genere che caratterizza, informa e interessa Thriller Café ma anche per quanto concerne il cosiddetto “mainstream”.
Odio il termine “migliore”: sa di competizione, di gara, di vincitori glorificati e coperti d’oro e vinti che annaspano fra fango e polvere, tutte cose che non mi appartengono, ma credo anche che ci siano termini più adatti di altri a comunicare con la maggior parte dei lettori, che ben probabilmente non la pensa come me, e “migliore” funziona.
Quindi sì, Nella perfida terra di Dio è quanto di meglio io abbia letto da un italiano in quest’anno. Ho atteso però troppo a scriverne, facendomi scrupoli assurdi, e arrivo ora in totale ritardo, in un’epoca nella quale se non si parla di un romanzo nel mese della sua uscita si ha la sensazione di aver perso definitivamente il treno.
Seguo Omar Di Monopoli dai suoi esordi in casa Isbn (Uomini e cani, Ferro e fuoco, La legge di Fonzi: ammetto però di non aver ancora letto i racconti contenuti in Aspettati l’inferno, rimedierò), ma non ero e non potevo comunque essere preparato di fronte a questo salto di qualità che, senza nulla togliere a Isbn, coincide con il passaggio all’amata Adelphi.
Parlare di salto di qualità spinge a pensare che Di Monopoli, nelle prove precedenti, fosse “immaturo”: nulla di più falso, era già spanne sopra a larghissima parte degli autori italiani “di genere” (e su questa definizione torneremo più avanti), ha sempre saputo con precisione cosa stesse facendo, e semmai era rimasto troppo a lungo confinato nella pur volonterosa ma limitata e limitante avventura editoriale di Massimo Coppola & Co.
Ma il passaggio a quella che ritengo la più significativa, importante e interessante casa editrice del Paese, forse complice un lavoro di editing più accurato e partecipe (e sarebbe interessante parlarne con l’autore), ha comportato un perfezionamento fuori scala, di quelli che di solito richiedono almeno un decennio di lavoro intenso; un percorso laborioso, studiato, torturante ed esigente; una riflessione su scrittura, narrativa e letteratura che molti autori non sperimentano in tutta una vita.
A questo punto servirebbe un mio riassunto della “trama” di Nella perfida terra di Dio: per introdurvi al romanzo e procedere quindi a spiegarvi perché sia rimasto così mesmerizzato, di più, come sia rimasto come quegli animali che attraversano strade in mezzo ai boschi, nottetempo, e rimangono a fissare i fanali della macchina che li investe, senza muoversi, quando basterebbe uno scarto laterale per evitare l’impatto.
Non so voi, ma io sono stanco delle “trame”: ne scrivo quasi ogni giorno, qui e in altre parti, cerco di variare e riformulare, ma più rimesto e più sembra di rigirare e risistemare un corpo morto. In più la trama, o se vogliamo “la storia” di Nella perfida terra di Dio non è nulla di speciale, ed è questo uno dei tanti aspetti straordinari di questo capolavoro: aver preso una ordinaria narrazione criminale e averla trasformata, operando con vocabolario unico (non ne trovate di altri simili fra gli italiani viventi) e grande varietà di registri, fino a tramutarla alchemicamente in oro epico.
Quindi, solo per questa volta e anche perché Adelphi è in gamba in ogni settore e dettaglio e di conseguenza anche nello scrivere sinossi e risvolti, non farò altro che riportarvi quanto scritto sul sito e sul volume della casa editrice: da lì ripartiremo per alcune considerazioni aggiuntive.
Da tempo, al nome di Omar Di Monopoli ne sono stati accostati alcuni altri di un certo peso: da Sam Peckinpah a Quentin Tarantino, da William Faulkner a Flannery O’Connor. Per le sue storie sono state create inedite categorie critiche: si è parlato di western pugliese, di verismo immaginifico, di neorealismo in versione splatter. Nonché, com’è ovvio, di noir mediterraneo.
Questo nuovo romanzo conferma pienamente il talento dello scrittore salentino – e va oltre.
Qui infatti, per raccontare una vicenda gremita di eventi e personaggi (un vecchio pescatore riciclatosi in profeta, santone e taumaturgo dopo una visione apocalittica, un malavitoso in cerca di vendetta, due ragazzini, i suoi figli, che odiano il padre perché convinti che sia stato lui a uccidere la madre, una badessa rapace votata soprattutto ad affari loschi, alcuni boss dediti al traffico di stupefacenti e di rifiuti tossici, due donne segnate da un destino tragico, e sullo sfondo un coro di paesani, di scagnozzi, di monache), Omar Di Monopoli ricorre a una lingua ancora più efficace, più densa e sinuosa che nei romanzi precedenti, riuscendo a congegnare con abilità fenomenale sequenze forti, grottesche e truculente in un magistrale impasto di dialetto e italiano letterario – sino a farla diventare, questa lingua, la vera protagonista del libro.
È un risvolto di copertina perfetto e, se fossi più furbo e/o saggio, mi fermerei qui: dice tutto quel che occorre sapere: correte a comprarlo, fate e fatevi un perfetto regalo di Natale e via, a posto, chiudo il pezzo e siamo tutti contenti.
Ma no.
Molte delle recensioni che ho letto riguardanti Nella perfida terra di Dio rimasticano, ruminano e risputano più o meno il risvolto che vi ho citato. Ma non perché i vari critici e blogger siano pigri, incapaci o altro, quanto perché è quel che c’è da dire, è l’essenziale e sono idee che vengono in testa a chiunque mentre si legge Omar Di Monopoli i riferimenti sono corretti, i nomi sono quelli giusti, le coordinate perfette e c’è ben poco da aggiungere.
Quindi, secondo il less is more, quel che vi dirò aggiungerà ben poco.
Flannery O’Connor, su tutti, illumina alcuni personaggi di Omar Di Monopoli il vecchio pescatore in primis. E non è impresa da poco impiegare con saggezza una delle scrittrici più straordinarie di sempre, anche perché in questo romanzo, che ne cita il nome nel titolo, il Dio tanto caro e tanto temuto dall’autrice di Savannah è assente, non risponde a nessuna chiamata, terrena o meno, non riserva neanche uno sguardo, pietoso o infuriato a seconda del Testamento di preferenza, alle insane formiche che si affannano, errano e tribolano nel torrido e tossico deserto salentino.
Lo dice persino un personaggio del romanzo: «Dio non c’è. Siamo soli. Viviamo come capita e poi tutto finisce. Non c’è altro». Che è poi frase che credo sia difficile da digerire persino per gli scienziati più cinici. «Viviamo come capita» lascia così poco spazio alla volontà, alla decisione, ai programmi, alla speranza, ai patti e promesse, agli amori e amicizie, mette fuori gioco persino il fato, infine non lascia molto spazio o scampo all’individuo.
Sa di inciampo, di brancolio e brancichio, sa di dadi gettati con noncuranza e disperazione, in un vicolo di periferia, e poco importa del risultato, tanto domani è la stessa storia, e dopodomani ancora, una fabbrica continua e spietata nella quale conta solo il gesto ripetuto e meccanico di gettarli, quei dadi.
Non so se Dio non ci sia o se semplicemente si rifiuti di rispondere, ma al suo posto troviamo un forte misticismo, e non solo nel pescatore. Il misticismo, mi è sempre sembrato, si accompagna benissimo al sole, ne ha bisogno come le piante, prospera nei deserti più infuocati e salati. E spesso la Puglia di questo autore è un deserto, abitato da scheletri e inondato da un sole che è difficile immaginare qui a Milano. Un sole che fa impazzire tutti, senza scampo, chi in un modo, chi nell’altro.
Una landa inquinata, che esala stasi, il peggior veleno; un cimitero dove non vanno a morire elefanti ma carcasse di automobili, sogni e altra immondizia assortita e, spiace per qualche cantautore, non è che da questi escrementi riescano a nascere poi tanti fiori, appena spuntano il sole li avvilisce e avvizzisce. Nasce violenza, quella sì, nasce incapacità di comunicare e, di conseguenza, di amare, nasce il gesto fisico come unico verbo, come sola diplomazia e compromesso, come esclusivo metodo di scambio e di socializzazione, come soluzione a ogni problema e conflitto, come scelta identitaria.
Quel che il risvolto Adelphi non trasmette compiutamente, forse, è come e quanto i nomi citati, le influenze segnalate, si fondano; quanto il metabolismo intellettuale e culturale di Omar Di Monopoli sia fluido e capace, possente, in grado di scomporre anche l’ultima proteina nell’amminoacido alfabetico che gli necessita. Tutti quegli autori ci sono, e altri in più (Gadda? Bufalino? D’Arrigo? True Detective? McCarthy?) ma sono assimilati alla perfezione, digeriti e ridistribuiti e non li vedrete mai spuntare in modo “riconoscibile”, non avvertirete mai nessun debole quanto arrogante copia e incolla, non individuerete il copyright, non potrete giocare al noioso e vanesio “scova la citazione” per primeggiare in classe.
Merito della passione, dell’amore, della fatica e del lavoro dell’autore, che ha troppo rispetto per omaggiare male, così, tanto per flettere i muscoli.
C’è tanto cinema statunitense nel far east salentino di Omar Di Monopoli, ma è come se non trovassimo traccia né degli USA né della Puglia: è un altrove perfettamente definito, totalmente credibile, dettagliatamente verosimile, ma spostato di un impercettibile millimetro dal reale, lo noti alla periferia della visione ma quando ti volti per afferrarlo è già altrove.
Forse è una fortuna per il sottoscritto arrivare ultimo a cantare le lodi di Di Monopoli, così posso pavoneggiare nel cortile, tanto per rimanere attaccati a una bestia cara alla O’Connor, e dire che l’autore, fra molto cinema e tv, ha anche anticipato qualche fetta di Godless, ma con un controllo che gli autori netflixiani si sognano.
Il risultato finale è un altrove perfettamente credibile, anzi, un altroquando allucinato, che rimbalza fra oggi e ieri, facendoti capire che non esiste speranza in un domani. Il sole, se non ti getta nel misticismo, è facile che ti spinga alla follia, all’allucinazione, al gesto esagerato, ampio, largo, forte, veloce, rabbioso: che è poi quello che ti aspetti ogni secondo da molti dei personaggi di questo romanzo.
Ci sono due cose che sopporto con molta fatica quando mi occupo di narrativa di genere, per questo o altri siti. Da un lato c’è la logora, usuratissima tiritera del giallo-noir che “è specchio dei tempi e della società italiana”. Dall’altro lato, la caprina-caprona questione della letteratura alta “contro” la letteratura pop/di genere.
Deve essere brutto guardare al mondo e vedere solo bianchi e neri, risibile ma radicata dicotomia. Forse è come quando stavamo all’asilo e disegnavamo l’arcobaleno in sette colori, ben staccati e confinati, tutto a posto nella sua casella, e un colore ha ben poco a che fare con l’altro.
O forse non è brutto: forse è rassicurante vedere il mondo così, e di sicuro aiuta a costruirsi un pezzo d’identità che crediamo precisa e immutabile, ci dona “tradizioni”, appartenenza a qualche gruppo, che significa poi sempre scegliere di non appartenere alla maggioranza degli altri, di gruppi, così come aiuta il libraio a mettere i volumi negli scaffali “giusti” e il consumatore a consumare “giusto”, senza errare e vagabondare e mangiare (per caso! Non sia mai! Fuori controllo!) un colore sbagliato. Pare che a molti non rimanga altro che il consumo come scelta etica e identitaria, e che sia difficile consumare in modo curioso e variegato.
Io però vedo solo sfumature, non mi accorgo esattamente di quando passo dal giallo all’arancio: una delle cose che più amavo, quando lavoravo come commesso in un negozio di candele, era prendere questo “coso” che avevamo sotto il banco, questo insieme di pantoni (o è un solo pantone?) e scorrere le varie sfumature, erano tantissime, quel coso era molto spesso. Non ti accorgi di passare da letteratura bassa ad alta, da genere a mainstream, da innovazione a classico, sebbene esistano tutti.
Omar Di Monopoli riesce a compiere questo miracolo: lo leggi e non sai se sei dentro una narrazione criminale o altro, non sai se questa Puglia iperreale e ultradimensionale rispecchi i problemi della Puglia “vera” o meno, se quanto è narrato stia avvenendo oggi o ieri. E allo stesso tempo le sai tutte, queste cose.
E l’autore non fa altro che ripetere in piccolo la grande azione della sua casa editrice, che pubblica Ian Fleming accanto ai miei amatissimi Vladimir Nabokov e Milan Kundera, in un arcobaleno che vortica troppo velocemente per permettervi di segnare confini: tanto i confini son sempre squallidi e bugiardi, non state a tracciare rigacce inutili. Deve essere una sensazione magnifica stare in scuderia accanto a questi maestri, chissà che soddisfazione!
Ci sarebbe, infine, da affrontare la questione della lingua, del vocabolario impiegato in Nella perfida terra di Dio Ma è tardi ed è troppo, per me. Molto semplicemente: non sono dotato dei mezzi culturali per affrontare la questione.
L’autore scava e rovista nell’italiano con pala e piccone che non so dove abbia trovato e che darei un braccio per averli anche io, strumenti tanto possenti violenti quanto delicati e chirurgici che rivelano incessanti vene preziose di termini.
Di Monopoli fa brillare dinamite nella cava della nostra lingua e trova molto più materiale, qualitativamente e quantitativamente, di quel che c’era prima dell’esplosione. Che, appunto, è miracolo impossibile ma, a quanto pare, solo improbabile.
Omar Di Monopoli mi fa sentire analfabeta, posso dire questo.
Ma è un bene eh: quando ti senti analfabeta non vuoi rimanere tale e cominci a sbatterti, impari vocaboli, cerchi cose sul dizionario, ti stupisci, sei contento di apprendere.
Ecco, sì, “ti stupisci”: lo stupore è la sensazione dominante di fronte a Nella perfida terra di Dio. Stupore e mistica fioriscono attigui e rigogliosi sotto il dio-sole.
Quindi… se magari siete stanchi di commissari con problemi e idiosincrasie, di squadre poliziottesche affiatate ma con contrasti, di carabinieri anche un po’ criminali, di detective con traumi del passato o di serial killer afflitti da modus operandi artistici e cronici; se avete voglia di mettervi alla prova e di scoprire inevitabilmente di essere ignoranti; se cercate un romanzo al termine del quale sarete diversi, più ricchi e densi; se volete stupirvi e stupefarvi senza prendere pilloline o sniffare polverine, Nella perfida terra di Dio può fare al caso vostro.
È quel periodo dell’anno: fatevi un regalo, ne sarete felici.
giovedì 9 novembre 2017
...su Libreriamo
Sia ben chiaro: chi mette piede Nella perfida terra di Dio, dopo non sarà più lo stesso. Tornare quelli di prima, dopo un’esperienza di ammaliante intensità come questa, resta solo miraggio per sprovveduti.
Il titolo lo annuncia, la copertina lunare col greto di Cellina di Luca Campignotto lo lascia presagire, la potenza sconcertante della lingua lo conferma fin dalle prime righe: siamo in un altro mondo, un universo parallelo ancestrale e rude, lontano dall’immagine rassicurante della Puglia da cartolina con i cieli azzurri e il mare cristallino che piace ai turisti d’agosto.
L’ultimo romanzo di Omar Di Monopoli, edito da Adelphi, squarcia ogni umana sicurezza e, aprendo orizzonti devastati e devastanti, carica il lettore di quella e primordiale speranza che apre il cuore, quando si incontra lo Scrittore puro. Ogni vocabolo è misurato e pesato, quel tanto da colorare la narrazione di tinte fosche, come solo a Omar è concesso di fare.
“Dal golfo soffiava l’eco di una tempesta sul mare e un grigio sigillo di cumulonembi era giunto da sudovest ad annerire il crepuscolo. L’aria, ancora calda come un braciere, si smembrava e precipitava svagando ovunque sentori di ozono e argilla bagnata.”
Una scrittura che si fa carne e sa macchiarsi di sangue, mischiandosi al nero, pur restando poesia ai margini di un tempo lento e maledetto, in cui l’unica redenzione possibile resta un grilletto non premuto, per un uomo che si è perso altrove, lontano dai figli e da una terra intrisa di veleni e straziata dal malaffare. Per poi tornare, quando nessuno se lo aspetta.
Quando il latitante Tore della Cucchiara ricompare nella sua Rocca Bardata, immaginario paese del Salento tra Taranto e Brindisi, anche i suoi stessi figli sembrano non volerlo più, fermamente convinti che quell’uomo sia portatore unicamente di guai. Il minore neanche lo riconosce.
“Pure se la cosa ti sfastidia, sentenziò l’uomo allungandosi a disarmarlo con un gesto reciso eppoi liberatosi della doppietta tra le frasche a bordo del sentiero, io e te l’ istesso sangue teniamo. È bene che te ne fai capace.
Si può sapere chi è sto minchione? S’approssimò Michele grattandosi una natica. (…)
Ma che? Papà nostro è? Domandò alla fine in uno iato.
L’altro si limitò ad annuire.”
La scrittura di Omar di Monopoli è immersione indimenticabile in un Salento del quale non vorremmo neanche immaginare l’esistenza, eppure ci troviamo catapultati in questa narrazione sublime che ci risucchia, con le sue girandole di parole, aggettivi deliranti, termini dialettali che sembrano impastati con la stessa terra rossa dei luoghi di Puglia che descrive.
Due sono i piani narrativi: il “prima” e il “dopo”, che all’inizio frastornano il lettore, poi lo conducono verso la conclusione, che, come nei migliori romanzi, si stringe ad imbuto in un crescendo vertiginoso di emozioni, scandite da un ritmo narrativo sostenuto, che dà corpo alla caleidoscopica sfilata di personaggi che si agitano sulla scena.
E sembra di vederli, i brutti ceffi che popolano questa terra a Sud dei Santi, terra di spari, di roghi, di morti ammazzati, di atroci vendette, di ciarlatani vestiti da santoni, di suore corrotte oltre ogni limite, in cui l’unica religione possibile resta il profitto degli scellerati, ai danni dei pochi stupidi che restano a marcire, mangiando i frutti di una terra coltivata col sudore, rimestando zolle e scorie tossiche.
“Arrivò in groppa al Cagiva sputacchiante del suo socio, incipriando di dervisci di polvere finissima la viottola che conduceva alla catapecchia del guaritore. L’estate salentina arrancava in oro liquefatto colando sui campi granata ai lati del podere, e Tore, la maglietta già grondante per il caldo, parcheggiò la moto nei pressi di una mangiatoia per polli arrugginita, sotto il baldacchino di una coppia di giuggioli.”
Chi calca la perfida terra che si apre a ventaglio sotto i piedi, leggendo queste pagine, sente accapponarsi la pelle per la crudezza raccapricciante di alcune atmosfere, ma poi non può che inchinarsi di fronte alla maestria di una delle penne più dotate della letteratura italiana. Un lessico incredibile orchestra visivamente ogni situazione, e la pagina diventa pellicola in cui gli unici effetti speciali sono le parole.
“Quando le autorità ebbero espletato tutte le procedure previste, lasciandolo solo e ribollente d’ira, l’uomo al pari d’un vitello marchiato a fuoco, s’abbandonò a un lungo terribile urlo che non sembrò minimamente scuotere né glorificare la squassata fissità di quel microscopico lembo della perfida terra di Dio. Rimase tutto tale e quale, e alla fine il silenzio senza peso del tempo calò unanime e indifferente a riguadagnare il proscenio.”
Western pugliese, dice qualcuno.
Noir mediterraneo, dicono altri.
Capolavoro, dico semplicemente io.
lunedì 16 ottobre 2017
mercoledì 11 ottobre 2017
mercoledì 4 ottobre 2017
martedì 19 settembre 2017
Labellarte su OfcsReport...
“Sono più che consapevole del fatto che nell’intero Mezzogiorno vi siano amministratori e operatori della giustizia che da anni stanno lavorando con impegno e solerzia per affrontare e correggere vecchie problematiche legate al crimine, all’abusivismo e al malaffare”. Non c’è alcuna perfidia nelle parole di Omar Di Monopoli che con un’intervista a Ofcs Report racconta il suo ultimo successo letterario dal titolo Nella perfida terra di Dio, che ufficializza il suo passaggio alla casa editrice Adelphi. Un racconto con cui valuta l’attuale mezzogiorno italiano, nello specifico quello della ‘terra di Puglia’, dove egli stesso risiede. Per l’autore la critica coniò per la particolare tipologia del suo primo romanzo, Uomini e cani, la definizione di ‘western-pugliese’. Nei romanzi dell’autore pugliese, il tema del sociale attraverso la letteratura diventa così anche un prodotto di riflessione sulle perenni problematiche di un mezzogiorno che in realtà non si è ancora liberato della questione meridionale.
“Mi illudo di ordinare il caos del mondo con una penna” con questa affermazione ha voluto sintetizzare la sua missione letteraria. La letteratura, secondo la sua opinione, potrebbe essere un valido supporto al contrasto della criminalità?
“Certo, come ogni espressione artistica lo è nella misura in cui accende i riflettori su argomenti e questioni che si vorrebbero tacere. La letteratura, inoltre, ha nello specifico quel particolare ‘addendum’ di spingere e condurre il lettore alla riflessione su temi magari scottanti. Almeno, un certo tipo di letteratura riesce a farlo, poi, ovviamente, non sempre i libri, o gli autori, sono all’altezza di un compito siffatto. Va però specificato che nessuno scrittore scrive con la consapevolezza di dover necessariamente sollevare questioni importanti. Questo perchè è un’aspirazione che deve sicuramente accompagnare la stesura di un ‘opera, di qualsiasi genere essa sia, ma guai a calcolare tale progetto a tavolino, si rischia la didascalia e la presunzione mentre per un autore la priorità assoluta deve sempre essere null’altro che la storia da narrare. Che poi essa coincida talvolta con la Storia con la S maiuscola è un altro paio di maniche.
Secondo una sua recente opinione la Puglia “nasconderebbe un coacervo di problemi che sono ancora retaggio della mai risolta questione meridionale” non crede però che negli ultimi anni le amministrazioni locali si stiano impegnando a creare una Regione migliore e più appetitosa dal punto di vista turistico, commerciale e della qualità della vita e della sicurezza?
“Non si può naturalmente fare di tutta l’erba un fascio e sono più che consapevole del fatto che nell’intero Mezzogiorno vi siano amministratori e operatori della giustizia che da anni stanno lavorando con impegno e solerzia per affrontare e correggere vecchie problematiche legate al crimine, all’abusivismo e al malaffare. Ciò non toglie che, a dispetto della patina di oleografia che ha saputo fare del sud (e della Puglia in cui vivo in particolare) una meta di grande appeal dal punto di vista turistico, il meridione resti una zona altamente problematica e contraddittoria. Parlo di un luogo che d’estate si accende di rutilanti luci magiche e ipnotiche vibrazioni sonore ma che poi però, quando la bella stagione finisce, la realtà torni a chiedere il suo obolo e all’improvviso ci si rende conto che i veleni dell’Ilva e i fumi della centrale di Cerano continuano a rendere mefitica l’aria, che la Sacra Corona Unita è una mafia sconfitta solo sulla carta, basti guardare a quello che continua a succedere nel Gargano, dove le Società si affrontano a colpi di kalashnikov come nei film americani, e che la mancanza di lavoro e una politica ancora feudale non cessano di osteggiare qualsiasi progresso verso il futuro per questa terra disperata”.
Lei scrive: “Aveva interessato quelle latitudini sullo scorcio degli anni Ottanta, quando il calo produttivo dovuto alla crisi dell’ acciaio aveva imposto al polo siderurgico di Taranto, uno fra i più grossi e inquinanti d’ Europa, di smantellare parte dei cantieri e licenziare senza misericordia”. Le do una buona notizia: di recente l’ attuale amministrazione ha rassicurato i sindacati, confermando l’obiettivo di portare il gruppo Ilva al successo industriale che merita, nel rispetto della sostenibilità ambientale e di un miglior rapporto con la comunità tarantina.
Che romanzo ci scriverebbe?
“Guardi, il romanziere non fa il sociologo, l’antropologo né tantomeno il politico. Chi scrive storie si sforza di fotografare la realtà che lo circonda attraverso un proprio personalissimo punto di vista e non cerca risposte, anzi sovente il suo lavoro si giudica dalla capacità di sollevare domande. Io personalmente scrivo romanzi noir, libri dai toni volutamente cupi e a tratti espressionistici, quasi gotici. È una mia cifra che rivendico perché calcando sui toni riesco a mettere in rilievo le differenze. Evidenzio le criticità tramite l’eccesso di bianchi e di neri. Non posso quindi che plaudire a un eventuale miglioramento delle condizioni relazionali tra il più grande stabilimento siderurgico d’Europa e la comunità che vive e muore attorno a esso, ma sono portato per esperienza - e forse anche per un Dna tutto meridionale, una sorta di sesto senso non necessariamente costruttivo - a diffidare delle promesse accalappia voti. Staremo a vedere. Vigilando con attenzione ed eventualmente continuando a scrivere per documentare l’ennesimo tradimento perpetrato ai danni di questa perfida terra di Dio”.
lunedì 18 settembre 2017
Chiara Lecito su CrapulaClub...
Nella perfida terra di Dio di Omar Di Monopoli è un romanzo viscerale, scorticato e fragile, la cui materia narrativa è ridotta all’osso e impregnata di sangue.
La storia di Tore della Cucchiara, che ritorna nella sua terra per rimettere le cose a posto, si svolge in un microcosmo, il paese di Rocca Bardata, rappresentato come un universo nel quale ogni elemento tende all’assoluto e sprofonda nell’abisso, talmente chiuso in se stesso che ogni intromissione esterna (la trasmissione “Occhio alla notizia”, l’intervento della polizia) appare superficiale e sminuente.
Combatti, figlio mio, vinci la subdola pervicacia della sua tirannide, lo spronò ebbra di furore mentre l’idiota tornava a nerbarsi la schiena: si frustava lacerando brandelli di pelle che ricadevano ai suoi piedi simili a trucioli appena usciti da una pialla. Così, piccolo mio, così. Devi punirti per mettere a tacere il Malvagio una volta per tutte.
Sentimenti e azioni assumono caratteri tanto estremi da abbattere i limiti della ragione; ne consegue una vicenda che da sola alimenta il suo fuoco e si brucia, sprigionando un aroma di fatalità che i personaggi non riconoscono ma sentono vibrare nelle viscere, attraverso dinamiche di azione e reazione dal sapore di tragedia greca, laddove l’odio si mescola all’amore e si trasmette di generazione in generazione, senza filtri, cambiando solo l’oggetto a cui si rivolge.
Nella perfida terra di Dio è scritto in una lingua animalesca e aulica, epica ed esplosiva, in perfetta coerenza con i fatti; ci troviamo al cospetto di uno stile che, a prescindere dal genere, si situa al di fuori delle classificazioni di basso e alto, proprio in virtù della sua distruttiva vitalità e della purezza delle sue commistioni: ogni elemento concorre a restituire quell’idea di potenza, di durezza, di impermeabilità alle sfumature che trasfigura la brutalità in vigore, riuscendo a farci riconoscere come intimo un sentire (e un vivere) che siamo abituati a classificare come mostruoso, o inferiore, o selvaggio.
L’altro balbettava il suo diniego come un disco rotto. Come faccio? disse. Come cazzo posso fare?
Lei gli rispose con un sorriso amorevole.
Lo hai già fatto, disse in un singhiozzo. Fin dal primo giorno. Ma non è solo tua la colpa. Cìmu rrivati assieme fino a quài. Però una cosa buona io e te l’abbiamo fatta, Tò. È a loro c’àmu a rendere conto.
L’autore fertilizza quella perfida terra mitica composta da figure immense e spietate e di valenza archetipica, che ci affascinano e ci scuotono proprio perché radicalizzano le più cupe e disturbanti verità: il riconoscimento della nostra atavica ferocia e delle nostre pulsioni più basse (e al contempo più pure) si conferma come l’unico punto di partenza di cui disponiamo per poter non solo vivere pienamente, ma anche per riuscire a cambiare direzione, aprendoci al diverso e al suo valore che potrebbe salvarci.
Alla luce di ciò, la timida e riluttante fiducia di Tore verso la legalità, attraverso il contatto con un tutore della legge distante ma comprensivo nei riguardi delle selvagge dinamiche di Rocca Bardata, diventa significativa, perché permette al mito di oltrepassare i confini del libro, senza privarlo della sua dilaniata potenza ma donando a esso, e al lettore, nuovi margini di immaginazione.
Il romanzo di Di Monopoli non è soltanto una storia ricca e vivificante, ma anche un viaggio attraverso un qualcosa di essenziale e immenso, di così personale e sconosciuto da aver bisogno di essere sempre ribadito; e la tensione etica che anima ogni frase de La perfida terra di Dio entra nel cuore e nella testa e vi rimane, al contempo fresca e antica. (qui l'originale)
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