lunedì 18 dicembre 2017

Perfida Terra su Cabaret Bisanzio...

Prima di tutto il paesaggio entro cui vivono i protagonisti del romanzo:
“In lontananza, velati dalla caligine, i cupi boccagli delle ciminiere dell’impianto siderurgico striavano il cielo con plumbee volute di fumo.” “Là fuori carcasse d’auto sfasciate giacevano capovolte come testuggini riverse sul dorso, ed erbacce di ogni genere infoltivano le asperità della piana formando giganteschi grovigli di rosticcio nei quali divani sventrati e vecchi frigoriferi proliferavano.”
Come annunciato nel titolo, non ci troviamo in una terra benedetta da Dio ma in una landa abbandonata a sé stessa; un’isola dove regna il degrado e dove gli uomini che ci vivono non possono evitare di subirne il contagio:
“…paesi quali Rocca Bardata… depredati dalla criminalità e vessati dalla cronica mancanza di lavoro… [ritornano] quasi per inerzia a quell’isolamento arcano e selvaggio che caratterizzava quelle lande sin dai tempi dei Borbone.”
Una terra, fra la provincia di Brindisi e quella di Taranto, che vive in un tempo che è solo suo, racchiusa in una nicchia ai margini del tempo presente, quello nostro, di noi che viviamo oltre i suoi confini.
Nel paese, ai suoi margini, vive il vecchio Nuzzo, che si crede profeta e santone, assieme ai suoi due nipoti, Michele e il fratello maggiore Gimmo, che gli fa da padre fino al ritorno del vero padre, da entrambi odiato perché sospettato di aver assassinato la madre. Fanno contorno boss locali con le loro attività criminali, una badessa che ha perso di vista il senso della sua missione e si serve dei clan per raggiungere i suoi loschi scopi, e gli abitanti di Rocca Bardata, che svolgono il ruolo del coro, proprio come nel teatro classico, facendoci partecipi, con i loro commenti, dei retroscena della vicenda che ci viene raccontata.
Il romanzo è strutturato fra un “dopo” e un “prima”, a capitoli alterni, in modo tale che veniamo a conoscenza degli effetti di azioni le cui cause scopriremo successivamente; nonostante ciò, la tensione di questo noir provinciale, mediterraneo ma dalle alte ascendenze letterarie (nel risvolto di copertina si fa il nome di Faulkner), non subisce alcun calo di sorta. Anche perché qui il tempo è quello di una violenza primitiva, senza tempo o fuori dal tempo: prima e dopo, qui, sono concetti fuori luogo. Conta solo stare al di sopra della miseria endemica di questa terra, costi quel che costi; spacciando stupefacenti, sotterrando rifiuti tossici, eliminando i nemici dei clan rivali.
E poi c’è Tore, il padre dei due ragazzi, un malavitoso di piccolo calibro che è tornato in paese per compiere la sua vendetta, dopo che si era allontanato per non mettere a rischio la vita dei suoi figli.
Un episodio a me è sembrato emblematico, quella in cui il piccolo Michele si rifugia in una grotta dove appende alle pareti piccoli animali, rane bisce insetti topi, che cattura e sacrifica alla memoria della madre sull’altare improvvisato della sua religione personale e pagana. Attraverso la “porta” di accesso alla grotta si entra in una dimensione infantile del mondo, così come infantile (ma dell’infanzia dell’umanità) e distante da un mondo di adulti consapevoli e da una concezione del vivere civile, è la vita che si conduce attorno ai tavoli del biliardo, avvolti di fumo, nel bar che è anche la sede del boss di turno, luogo dove avvengono i regolamenti dei conti, oppure nelle cave abbandonate dove si scommette sui cani, incitati a sbranarsi fra l’eccitazione di un pubblico di disperati, che dissipa nel “gioco” tutte le sue misere sostanze.
Al di là della vicenda raccontata, colpisce moltissimo la lingua che sa dispiegare l’autore, un impasto di italiano ricercato, colto, letterario e dialetto, raggiungendo, in alcune parti, vertici gaddiani: “Arrivò in groppa al Cagiva sputacchiante del suo socio, incipriando di dervisci di polvere finissima la viottola…” “…le comari..s’avvicendavano al suo cospetto per cercare di riportarla alla ragione mentre il neonato, in telepatica connessione con la tempesta che stava abitando la madre, saturava il piedicroce con gli assordanti decibel del suo pianto a dirotto.”
La lingua, sì la lingua e lei sola, è l’unica luce che rischiara tenuemente il buio abissale che avvolge questo romanzo davvero straordinario. (qui l'originale)

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