lunedì 31 agosto 2015

il vate del polar...

pseudonimo del regista francese J. P. Grumbach (1917-1973), Jean-Pierre Melville esordì nel 1946 con il corto 24 heures de la vie d'un clown, un delicato omaggio al circo e al cinema muto, cui seguì l'anno dipoi il lungometraggio Il silenzio del mare (Le silence de la mer) dal testo omonimo di Vercors. La ristrettezza del budget a disposizione e le riprese a dir poco rocambolesche di questo esordio non invalideranno l'esito della piccola pellicola che gli regalò quasi subito la fama di fine intellettuale - per quanto la sua volontaria presa di distanza da ogni genere di accademia lo abbia a lungo relegato ai margini dell'industria filmica.
Grande estimatore della cultura statunitense (il suo cognome è un dichiarato omaggio allo scrittore di Moby Dick), nei suoi lavori successivi metterà a segno una propria personalissima poetica intrisa di atmosfere cupe e disperate (sono quelle del polar, il tipico noir  transalpino di cui Melville è considerato il vate) raccontando vicende crude e dense di personaggi votati al fallimento: quasi nessuno nei suoi film riesce a salvarsi, e ogni pedina del gioco finisce sistematicamente preda del proprio mortale inganno.
Il secondo e il terzo lungometraggio, Les Enfants terribles (1950) e Quand tu liras cette lettre (1953), costituiscono due esercizi di stile in parte anomali per il percorso del regista e, insieme a Léon Morin, prêtre (1961), definiscono un passaggio fondamentale per la sua carriera. Se il primo è un'incursione ben riuscita ma non estremamente caratterizzante nell'onirismo di Jean Cocteau, gli altri due film rappresentano il tentativo di raccontare attraverso il filtro della religione gli antagonismi tipici di quello che sarà suo cinema a venire.
Ma prima di approdare definitivamente al noir e consacrarsi come la quintessenza di questo genere, Melville si concede la realizzazione di un ennesimo sogno: da appassionato degli USA gira Deux Hommes dans Manhattan (1958) e L'ainé des Ferchaux (1962): pellicole in cui si abbandona ad un viaggio alla scoperta dei luoghi più cari al cinema a stelle strisce: New York, i meandri torridi e stagnanti del sud più profondo, le grandi highway americane e gli infiniti locali notturni male illuminati. Due opere quasi documentaristiche zeppe di omaggi al western e all'immaginario d'oltreoceano, che porteranno la sua visione ad una prospettiva sempre più matura.
Il successivo Lo spione (Le doulos, 1962) è quasi un compendio di tutti gli aspetti del cinema melvilliano; la storia si concentra su due uomini: Maurice e Silien (Serge Reggiani e Jean-Paul Belmondo) che assieme architettano un furto in una villa; le cose non vanno per il verso giusto poiché qualcuno parla. Uscito di galera, Maurice assolda un killer per far uccidere Silien, ritenuto il responsabile, ma venuto a sapere che in realtà egli è innocente farà di tutto per impedire l’omicidio: tutti e due verranno colpiti a morte dal killer. Ottimamente diretto e sceneggiato, è il film più funereo e spietato di Melville, il lavoro in cui la morte ha quasi una rappresentazione teatrale (prima di morire Silien ha addirittura la forza di telefonare alla sua amica per annullare un appuntamento). Accolto bene da pubblico e critica, qualcosa va però storto. L'immenso Godard, al tempo grande amico di Jean-Pierre Melville, lo accusa di aver rubato il finale di Á bout de souffle. I rapporti con i registi, nonché critici, della Nouvelle Vague diventano così sempre più tesi e irrimediabilmente compromessi. I Cahiers du Cinéma cominciano a diventare sempre meno indulgenti verso quel pioniere che sta abbandonando la strada della produzione a basso costo per rifugiarsi nei grandi budget e creare un duraturo sodalizio con tre grandi star: Lino Ventura, Jean Paul Belmondo Alain Delon.
Lo sciacallo (1963) da Simenon con Belmondo negli abituali panni della simpatica canaglia è un noir on the road interamente girato in Francia con un'America sognata - e abilmente ricostruita - che è per il regista una sorta di terra promessa. Costretto a rinunciare a una carriera di pugile, il giovane Michel Maudet (Belmondo) è stato assunto come segretario di un vecchio banchiere, Dieudonné Ferchaux che lascia la Francia per sfuggire alla giustizia per questioni fiscali. A New York e poi a New Orleans, i due uomini imparano a conoscersi meglio durante il gioco sottilmente perverso del gatto col topo. Forse un rapporto filiale dell'anziano banchiere col suo segretario, o forse un'omosessualità latente mai palesemente espressa. Sapiente uso del colore in chiave fortemente simbolica.
Tutte le ore feriscono, l'ultima uccide (1966) titolo italiano di  Le dexième souffle è scritto assieme a Josè Giovanni (autore anche del fortunato Il buco) e tratto da un suo romanzo. Qui si narra la vicenda di Gu Minda (un ottimo Ventura) che dopo essere evaso entra a far parte di una organizzazione criminale; in seguito ad una rapina è costretto a nascondersi, ma verrà ucciso da un poliziotto. Questo film rappresenta l’unica collaborazione di Melville con lo scrittore, sceneggiatore e (successivamente) regista Giovanni, il quale conobbe personalmente il mondo della malavita ed il carcere; d’altro canto si possono riscontrare talune parentele tra Il buco e gran parte dell’opera melvilliana.
La successiva opera del grande cineasta parigino è un caposaldo: Frank Costello, faccia d’angelo (Le samourai,1967) interpretata da un magnifico Alain Delon nei panni di un killer solitario che esegue omicidi su commissione. Tradito dagli uomini per cui lavora e braccato dalla polizia verrà assassinato nello stesso night dove aveva ucciso un uomo. Molto si è discusso sul carattere quasi schizofrenico del protagonista, che agisce in maniera meccanica, ripetitiva; non per nulla il titolo originale dell’opera richiama la pazienza e la meticolosità con la quale egli, al pari di un samurai, esegue ogni lavoro. Ma tutto il film è realizzato con grande precisione ed attenzione per ogni dettaglio. Anche qui la morte ha un sapore teatrale; addirittura il regista girò la scena finale in due versioni in una delle quali (assente dall’edizione italiana) Frank muore sorridendo. In realtà il suo è un suicidio (Nogueira parla di «uno dei più bei karakiri del cinema») poiché sa che inevitabilmente verrà ucciso (quando lascia il cappello al guardaroba non ritira la ricevuta).
Dopo la parentesi bellica di L'armata degli eroi (L'armée des ombres) del 1969, accolto in maniera discordante con accuse di filo-gollismo, è la volta di  I senza nome (Le cercle rouge - 1970), l’opera di maggior successo di Melville, summa e testamento della sua filosofia cinematografica basata sul determinismo e sull'amore per gli oscuri paesaggi metropolitani nonché sul fascino virile di «quelli della mala». Trama semplice semplice: due professionisti della rapina (Alain Delon e Gian Maria Volonté) insieme a un ex-poliziotto disincantato e dedito all'alcolismo (Yves Montand), preparano meticolosamente un colpo, ma vengono braccati da un pugnace commissario di polizia (André Bourvil). Su questo lineare canovaccio il padre del poliziesco europeo impronta la levigata, plumbea bellezza della sua penultima pellicola (che è anche il canto del cigno di un genere che proprio grazie al regista smise di essere considerato «minore» per affacciarsi con successo nelle fumose sale d'essay frequentate dagli intellettuali).
L’ultima pellicola, considerata dalla critica solo parzialmente riuscita ma in realtà un altro fulgido esempio di freddo e inesorabile noir francese, è Notte sulla città (Un flic) del 1972, amaro apologo sulla vendetta e sulla giustizia, interpretato da Alain Delon nelle vesti del commissario Coleman, qui affiancato da Richard Crenna, Riccardo Cucciolla, Michael Conrad e Catherine Deneuve. Il tiepido riscontro al botteghino e il poco entusiasmo della critica rappresentarono una cocente delusione per Melville. Mentre stava lavorando alla sceneggiatura del suo nuovo film, morì improvvisamente il 2 agosto 1973 in seguito ad una crisi cardiaca sopraggiunta durante una cena in un hotel di Parigi. Il suo corpo venne tumulato nel cimitero parigino di Pantin.

3 commenti:

CREPASCOLO ha detto...

Moby Dickson Carr è un fulgido esempio di freddo e inesorabile mobster di nuova generazione: organizza flash mobs in prossimità del posto che intende rapinare. La mano non è + veloce dell'occhio. Il trucco è concentrare l'attenzione sulla mano sinistra mentre è la destra che fa il magheggio.
Il cadavere di Carr è stato trovato dal suo segretario, Angelo Costello - una simpatica canaglia costretta a rinunciare ad una carriera di banchiere latente - nello studio che il racketeer lasciava solo per andare a dormire. Obeso ed afflitto da una carnagione lattea come la via che lo ipnotizzava quando si spiaggiava da bimbo che sognava il palcoscenico e la poesia , dopo il crepuscolo, x dimenticare il mondo ingrato che lo chiamava ciccio , pareva una balena trafitta da un raggio di sole. Il pugnace commissario Lino Guminda, praticamente un samurai, non crede si sia trattato di un suicido ( " quello non era tipo del seppuku " ). Il suo collega Maurice Silien - -poliziotto disincantato e dedito all'alcolismo - commenta che è solo un altro ceffo che ha smesso di respirare ed è questa epigrafe lapidaria che scatena la luccicanza di Lino.
Richiama Costello, già interrogato, x dirgli che ha capito il magheggio: il segretario ha chiesto al suo capo di provare una nuova flash mob in cui si chiede ai partecipanti di smettere di respirare, sostenendo che una simil epidemia di eccessive apnee avrebbe richiamato e trattenuto gli sbirri, mentre la banda faceva quel che andava fatto. Carr era stato eccessivo ed aveva perfomato oltre il dovuto. Costello, dopo anni di onesta militanza, aveva deciso di ascoltare la vocina del suo banchiere latente e mettere le manine sul grisbi. Caso risolto. Adoro il lieto fine.

Anonimo ha detto...

Una bella carrellata che mi riporta ai tempi dove la prostata se ne stava in pace.
Fabio

sartoris ha detto...

@crepa: vabe' tu lo sai che con te ormai ho esaurito i commenti sensati vero? :-)

@Fabio: ci avrei scommesso che ti solleticava, Melville :-) (domani vedo di postarti l'articoletto: è che ancora non sono a pieno regime - anzi, mi sa che sono decisamente fuori-fase!)