giovedì 5 marzo 2015

una Calabria livida e rugginosa...

liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Gioacchino Criaco (Rubbettino, 2008) Anime Nere ha avuto tredici lunghi minuti di applausi allo scorso Festival di Venezia ed è stato uno dei film-rivelazione della passata stagione cinematografica nostrana. Il regista Francesco Munzi, uno che decisamente sa come posizionare la mdp, racconta una solida storia di ‘ndrangheta attraverso il dramma di una famiglia calabrese in lotta con un clan rivale. Figli di pastori, tre fratelli sono cresciuti in un ambiente omertoso e violento nel quale hanno saputo farsi valere. Luigi, il più giovane, è un trafficante internazionale di droga. Rocco, milanese adottivo dalle apparenze borghesi, è imprenditore di successo grazie ai soldi sporchi del primo. Luciano, il più anziano, coltiva invece per sé l'illusione patologica di una Calabria preindustriale, instaurando un malinconico e solitario dialogo con i morti. Suo figlio ventenne, Leo, è la nuova, perduta generazione priva di alcuna identità: dagli avi ha ereditato solo il rancore e la negazione di qualsiasi forma di futuro normale. Per una lite banale il ragazzo compie un atto intimidatorio contro un bar protetto dai nemici. In qualsiasi altra terra, il fatto verrebbe archiviato come una semplice monelleria. Non in Calabria, tantomeno in Aspromonte. È la scintilla che fa divampare l'incendio.
Per Luciano è di nuovo il dramma che si riaffaccia dopo tanti anni dall'uccisione del padre. In una dimensione sospesa tra l'arcaico e il moderno i personaggi si spingono fino agli archetipi della tragedia.
Regia capace, grande scrittura ed efficacissimi attori, quelli di Anime Nere, una pellicola coraggiosa che non si perita di guardare a Fratelli di Abel Ferrara non limitandosi a copiarne le dinamiche ma rielaborandone il cuore con abilità e una consapevolezza ammirevole: peccato per un finale sì d'impatto che appare però frettoloso, quasi improvviso, come se la vicenda narrata necessitasse di una chiusa d'effetto che un po' lascia insoddisfatti.
Resta però uno spettacolo visivamente intenso. Il regista Munzi, assecondato dalla fotografia di Vladan Radovich, sceglie di puntare sulle facce forti, quasi pasoliniane, e sui paesaggi brulli e spigolosi che le hanno scolpite, immerse in una profonda oscurità, per raccontare il dolore. Si tratta di un lavoro sopraffino, anche rischioso: il regista ha preso molte comparse del posto mischiandoli ai professionisti, un lavoro di produzione mastodontico, che ha richiesto l'ausilio di numerosi coach per la lingua - in quella fetta di Sud ogni paese ha il proprio precipuo e incomprensibile dialetto.
Via via che la storia procede, tutti i membri della famiglia tornano a riunirsi in Calabria e qui, nella drammaticità di eventi inaspettati e sempre più incalzanti, si vieni catapultati con vigore in una terra di convinzioni aspre e ferine, da quelle dei più anziani fino a quelle dei più giovani che sono poi i più inclini a esasperare una condotta criminale che gli adulti fanno finta di riprovare, sancendone di fatto l'accettazione. E infatti la violenza degenera e si fa faida familiare, con tutto il portato di onore da difendere e prove di forza psicologica. Eppure sarà proprio all'interno della stessa famiglia che germinerà l'atto risolutivo, con una forza e una motivazione che se sulla carta sembra plausibile sul Grande Schermo sfarina un po' la tenuta dell'intero corpo narrativo. Ma l'intuizione di guardare al focolare come serbatoio al contempo del Male e degli anticorpi ad esso è interessante e originale: la distinzione fra il giusto e lo sbagliato non la fa l'Antimafia, o le forze dell’ordine o i magistrati: le istituzioni sono assenti praticamente in tutto il corso del film. No, la soluzione arriva dal proprio sangue, un sangue ormai corrotto dalla violenza e pertanto destinato a scorrere vanamente. Non insomma il solito film di denuncia bensì un western contemporaneo che parla di legami e di colpa, e questo, decisamente, è già un grandioso passo avanti rispetto al bollito cinematografico degli ultimi anni.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Gran bel film. Anche se forse un po' televisivo. Ma ad avercene.
(Pippo)

sartoris ha detto...

@Pippo no dai televisivo no, sono semmai alcuni degli attori a richiamarti il piccolo schermo per associazione... comunque ci sono scene di ottimo se non grande cinema (l'assassinio del giovane Leo, ad esempio, preceduto da silenzi e spirate di vento terrorizzanti) e nel complesso è un film da promuovere. Ha qualche sbavatura - come scritto nel post - ma è un esperimento riuscito.