(ok, è solo uno spudorato pretesto per postare questa splendida gif: ma l'augurio di un 2014 ricco di novità e foriero di momenti belli ci sta tutto, ché ce lo meritiamo! Auguri...)
martedì 31 dicembre 2013
lunedì 30 dicembre 2013
la violenza del cielo!

«Sapeva di avere la stoffa dei fanatici e dei pazzi, e di esser sfuggito al suo destino quasi con la sola forza di volontà. Si teneva ritto su una linea sottilissima, tra la pazzia e il vuoto». Una fede intrisa di fanatismo bieco, vissuta quasi come un'ossessione, e una ragione sterile e repressa, «spazio nudo e lindo come la cella di un manicomio»; sono questi i due poli opposti entro cui la troika di personaggi di Il cielo è dei violenti muove passi estremi, inquieti e disperati. Sotto un titolo che cita il Vangelo di San Matteo, Flannery O’Connor scolpisce tre spettacolari figure: un vecchio eremita sbroccato che predica la sua religione fondamentalista al deserto silvestre che lo attornia e al ragazzino che ha praticamente rapito (e plagiato), costringendolo a condividere con lui la solitudine dei boschi; il ragazzo, appunto, un iberbe convin
to di possedere la capacità di ribellarsi ma che in realtà è stato completamente soggiogato dalla follia dell'anziano; e un giovane insegnante razionalmente, integralmente laico, zio del ragazzo e parente dell’eremita, che vive in città e ha perso ogni speranza di recuperare il nipote. Fino al giorno in cui il vecchio muore, salutato dal ragazzo con una catartica pira, e questi arriva alla porta dello zio. Nel sangue di questi tre uomini si annida il seme di un'unica ossessione, scorre la paura, si avverte il mistero di un'esistenza che pare impossibile comprendere (e accettare).

Mary Flannery O'Connor (1925-1964), annoverata tra i narratori più importanti del Novecento americano, concepì la vocazione di narratrice come apostolato e testimonianza di fede in un mondo che aveva (ed ha) gettato alle ortiche il senso del sacro. Le storie della O'Connor sono ambientate in un Sud primitivo che è ormai un topos, una terra costellata di campagne disabitate e città minuscole, di predicatori ambulanti e incendi roventi, di famiglie contadine contagiate dalla pazzia. La deformazione fisica e spirituale dei suoi personaggi è il mezzo estetico di cui si avvale per provocare nel lettore un giudizio morale. Nel 1988 la sua opera narrativa - e una selezione di quella epistolare e saggistica - è stata pubblicata nella prestigiosa collana della Library of America, un'onore riservato (oltre naturalmente ai grandi del passato) solamente al suo padre artistico William Faulkner. Il prezioso paniere di pagine che ci ha lasciato (due romanzi e un pugno di racconti eccezionali!) l’hanno dunque eletta icona letteraria, e oggi l'autrice è considerata un “mostro sacro” praticamente irraggiungibile. A chi la accusava di indulgere alle bassezze anziché trattare argomenti "edificanti" ribatteva serafica: «Lo scrittore cattolico sentirà la vita dal punto di vista del mistero cristiano centrale: cioè che per essa, a dispetto di tutto il suo orrore, Dio ha ritenuto valesse la pena morire». Non si tratta di dare lezioni di spiritualità o di morale, ma di tentare di rendere di nuovo in qualche modo presente il Mistero a lettori che ne sono radicalmente estranei: «l'argomento della mia narrativa è l'azione della grazia in un territorio occupato in gran parte dal diavolo».
Flannery O'Connor
Il cielo è dei violenti (nuova edizione Einaudi)
Etichette:
RECENSIONI,
SOUTHERN GOTHIC

domenica 29 dicembre 2013
la recensione...
Le disgrazie non nascono mai sole. E mai proverbio fu più azzeccato nei confronti del libro. Già di per se stesso una disgrazia. Al quale vanno aggiunte tutte le altre disgrazie più o meno spinose che si porta appresso. Partendo dalle presentazioni in pubblico, dalle interviste sempre in pubblico e in privato, per finire alle recensioni.
Non c’è nulla di più perfido di una recensione. Una balla che più balla non si può. Togliamo subito di mezzo il fatto che sia scritta da un/a amico/a dell’autore o dell’editore. O da un/a amico/a dell’amico/a ecc. ecc. che fa lo stesso. La falsità è già insita nella fattispecie di rapporto. Come minimo la recensione si trasforma in un peana. Non si scappa. Con qualche piccolo distinguo, semmai, tanto per dare l’impressione di un’integerrima professionalità.
Poniamo invece che il tizio che scrive la recensione sia un perfetto sconosciuto per l’autore. Sarà senz’altro più imparziale. Penserete voi. Mica così semplice. Mica così scontato. Intanto il recensore, o critico che dir si voglia, donna o uomo fa lo stesso, è soggetto ai piccoli-grandi eventi della vita quotidiana che possono influenzare il suo giudizio: la nascita di un figlio, una vincita record alle scommesse o una dipartita improvvisa di una suocera impicciona (un classico, scusate la pigrizia) possono renderlo senz’altro più accogliente verso il libro che deve recensire. Più morbido, più disposto a passare sopra certe manchevolezze e a mettere in maggiore risalto i lati positivi.
Se l’evento è tragico come avere perso la partita segaioli-ammogliati, o essere colpito da un attacco improvviso della prostata con spisciolamento extrawater e umiliante lavata di capo della moglie, allora state pur certi che questi dolori si ritorceranno contro l’autore del libro. Chiunque esso sia. Si tratti di Pinco Pallino o di Camilleri.
Vi sono poi eventi che possono incidere in un senso o nell’altro. Così per Caso. Per Fortuna. Come un’abbuffata della sera precedente con ubriacatura finale. Vai a capire che influenza può causare. Al risveglio si può essere più sgrilli di prima o avere un cerchio di fuoco alla testa. Qui siamo nell’imponderabile. Tutto sta nel fisico del recensore ubriaco.
Un altro elemento che condiziona il giudizio è la naturale simpatia o antipatia verso il “genere o “sottogenere”, chiamatelo come vi pare. E il giallo inteso in senso lato ne ha di “generi” e “sottogeneri”! Che sembrano proliferare ogni momento. Il recensore che abbia in uggia uno o più di questi farà fatica a restare neutrale. Come farà fatica a esprimere un giudizio equilibrato se si trova di fronte ad uno “stile” che gli sta sul gozzo.
Ma non è finita. Ci si mette di mezzo anche l’età. Perché sono sicuro che un vecchietto come il sottoscritto che ha visto scorrere sotto i suoi occhi fiumi d’inchiostro, è senz’altro più stizzoso ed esoso (oggi ammorbidito dai nipotini) di un giovane critico alle prime armi. A meno che questo giovane critico non sia già stizzoso ed esoso. Ma certo non glielo auguro. Per il bene suo (allora come sarà da vecchio?) e quello degli altri che gli stanno intorno.
Infine la fretta. Quando solo all’ultimo minuto ci si accorge di dovere scrivere il famoso «pezzo». La lettura del libro diventa per forza affrettata (appunto) e non mi pare che questa rappresenti un valido viatico per una migliore comprensione.
Dunque un consiglio: non leggete il libro e neppure la recensione. Andate a fare una giratina.
[una satiretta made in Fabio Lotti]
Etichette:
CAZZATE,
SGUARDI,
VOCI AMICHE

sabato 28 dicembre 2013
martedì 24 dicembre 2013
...i meglio libri del 2013
(prima di tuffarci nelle grandi abbuffate festive che nell'arco di una settimana circa metteranno a dura prova i nostri girovita, ecco prontamente segnalati i migliori testi passati tra le mani del titolare del blog in questo ignobile, funereo anno carico di tasse e privazioni. Va da sé che il giudizio è personale, sommario e sicuramente parziale ;-)
Letteratura straniera:
Ballando a notte fonda di Andre Dubus (Mattioli); torna il gigantesco scrittore di racconti della Louisiana con un'altra cesta di perle cariche di dolore e poesia del quotidiano. Semplicemente inarrivabile. (qui l'incipit di uno dei racconti della raccolta precedente)
Viale dei Giganti di Marc Dugain (ISBN); ne abbiamo parlato qui. La potentissima storia del serial killer Ed Kemper, attraverso la cui parabola l'autore disegna quella degli USA negli anni della controcultura e del conflitto in Vietnam: un poderoso, affascinante romanzo on the road che vi lascerà di stucco.
Gli ultimi fuochi di F. Scott Fitzgerald; se la realizzazione del nuovo Gatsby con Dicaprio ha avuto un merito è quello di aver risollevato le tirature del grande poeta della lost generation: tutti i lavori del caro Francis Scott sono infatti ripubblicati in una sontuosa collana Mondadori dalla grafica moderna e minimale. Van bene tutti ma a noi ci è molto piaciuto riprendere in mano questo struggente, ultimo libro messo a punto da uno dei più grandi scrittori di sempre. Consigliatissimo.
La foresta di Joe R. Lansdale (Einaudi); ogni volta che Big Joe torna in libreria è una vera festa, ma quando si tratta di un libro ambientato nel west a stelle e strisce nel periodo a ridosso della Grande Depressione, si ha la certezza di accedere all'ennesimo capolavoro del grande autore texano: non resterete delusi!
Letteratura italiana:
Ovviamente un sacco di roba, ma ci limitiamo a scegliere quattro volumi di autori che stimiamo e che in questo 2013 hanno saputo offrirci opere davvero degne di essere ricordate.
In primis La pelle dell'orso, dell'amico Matteo Righetto (Guanda); un libro bello e robusto, dal sapore classico (ne abbiamo abbondantemente parlato qui).
Poi un compagno di catalogo, Luca Giordano, che al suo esordio con Qui non crescono i fiori (ISBN) ci ha regalato una storia impressionante, davvero ben scritta, asciutta e crepacciata come la terra arsa dal sole in cui si muovono i suoi protagonisti. Lo abbiamo intervistato qui.
Di Francesco Formaggi con il suo Il casale (Neri Pozza) non possiamo che parlarne bene (lo abbiamo fatto qui, per l'appunto), poiché finalmente è emerso un autore nostrano capace di reinventarsi gli schemi, rivoluzionando il genere attenendosi però pedissequamente alla gabbia delle sue regole. Bene, bravo, bis!
Infine permetteteci uno strappo, I cavalieri del west di Andrea Bosco e Domenico rizzi (Le Mani) non è uscito questo anno ma nel 2012, eppure non dovrebbe mancare nelle biblioteche di tutti gli appassionati di western e di cinema in senso più ampio: non è soltanto lo studio appassionato di due cultori dell'intramontabile epopea della frontiera. Contiene anche un’analisi critica degli eventi e dei personaggi, evidenziando le enormi divergenze che li separano dalla leggenda. Il libro analizza le infinite manipolazioni hollywoodiane nei riguardi della realtà storica scoprendo come il cinema, benché non abbia nessun obbligo di tutelare la Storia, a volte sui sentieri del west abbia deliberatamente – e senza pudore – smarrito la pista.
Upgrade:
[guardate un po' tra i libri più belli del portale inMondadori chi c'è...]
Upgrade:
[guardate un po' tra i libri più belli del portale inMondadori chi c'è...]
giovedì 19 dicembre 2013
bianco natal...
(ci prendiamo qualche giorno di ferie per organizzare il Natale - son più le rogne che il resto, ma tant'è; fortuna che viene solo una volta all'anno, 'sta benedetta festa - voi restate sintonizzati: tra qualche giorno ritorniamo per i libri più belli letti in questo 2013 cupo e disperato come non mai!)
Auguri a todos...
Auguri a todos...
mercoledì 18 dicembre 2013
Faulkner in Italia: un vecchio pezzo della Pivano.
Il grande scrittore Premio Nobel 1949 è stato battezzato da un ministro metodista col nome William Cuthbert Faulkner il 25 settembre 1897. La sua semantica è stata studiata in tutte le università del mondo, le sue tematiche sono state esaminate in migliaia di tesi di laurea; dopo averlo svillaneggiato e sbeffeggiato nel momento della sua creatività più intensa, lo hanno fatto girare per tutto il mondo a fare conferenze, che ha affrontato con ironia vendicatrice sottraendosi ai discorsi teorici e presentandosi come un contadino. In Italia è venuto per la prima volta molto prima delle conferenze, quando aveva 28 anni e usciva dall'esperienza di New Orleans, dove Sherwood Anderson lo aveva introdotto alla propria prosa irresistibile e gli aveva dato il consiglio che fece la sua fortuna: quello di scrivere «sul fazzoletto nel Mississippi di terra dove era nato». A New Orleans aveva fatto amicizia con Williams Spratling, un pittore, scrittore e organizzatore di feste e riunioni che raccoglievano gli intellettuali del posto. È stato Spratling a suggerirgli di venire in Europa, con 70 dollari in tasca ma alcune lettere di presentazione per Ezra Pound, James Joyce e T.S. Eliot. Faulkner non usò le lettere; invece si trovò al centro di avventure imprevedibili che hanno fatto la felicità dei biografi. Spartling e Faulkner partirono sulla nave da carico "West Ivis" e il 2 agosto 1925 il capitano McLain approdò al porto di Genova, diretto a Napoli. Ma Spratling e Faulkner scesero a Genova, in cerca di uffici cambi che pero' erano tutti chiusi. L'ufficiale in seconda affermò di sapere dove cambiare i dollari e li condusse in un cabaret foderato di velluto rosso; appena seduti a un grande tavolo erano stati raggiunti da alcune ragazze di buona compagnia. La compagna di Spratling lo aveva distolto dal gruppo per appartarsi con lui e l'avventura era finita con la comparsa dei carabinieri che avevano portato via Spratling facendogli passare la notte in prigione. Poi Spratling aveva preso un treno per Roma e Faulkner aveva proceduto lungo la costa per v
edere quello che Yeats chiamava la "sottile linea di madreperla spezzata di Rapallo", dove aveva vissuto Ezra Pound. Poi aveva preso il treno per Milano: di li' aveva mandato una cartolina alla madre impressionato dai "merletti di pietra" del Duomo e aveva proseguito per Stresa, dove avrebbe dovuto incontrare Spratling. Da Stresa era andato nel villaggio di montagna di Sommariva a vivere coi contadini, falciando l'erba con loro, mangiando con loro pane e formaggio e ritornando al villaggio al tramonto. Poi aveva incontrato Spratling ed erano andati a Montreaux, a Ginevra e a Parigi. Era ritornato in America il 19 dicembre 1925. La gita in Italia diventoò col tempo una via di mezzo tra uno sbiadito ricordo e un romantico tema da tenere nello scrigno del materiale utilizzabile in un libro. Quando era ritornato in Italia nel 1953 era ormai uno scrittore famoso ma gia' tormentato da amori sfortunati e già all'inizio della sua disintegrazione alcolica. Lo aveva chiamato a St. Moritz il regista suo amico per tutta la vita Howard Hawks per lavorare alla sceneggiatura del film Land of the Pharaons (Terra dei Faraoni). Faulkner si lamentava perche' non sapeva come parlassero i faraoni e proponeva di farli parlare come colonnelli del Kentucky. Howard Hawks, un po' preoccupato, il 4 dicembre 1953 lo aveva portato per due settimane a Stresa sperando che la nostalgia dell'avventura di giovinezza lo rasserenasse abbastanza da farlo lavorare. Erano ospiti di un amico di Hawks in una tenuta sul lago. Poi Hawks il 19 dicembre 1953 lo aveva sistemato a St. Moritz, con l'idea di farlo restare fino al 15 gennaio. Faulkner continuava a bere e nel suo oceano di Bourbon il 24 dicembre 1953 aveva conosciuto la bellissima e ricchissima diciannovenne Jean Stein, innamorata pazza di lui che aveva cinquantasei anni. Jean lo aveva conquistato trattandolo da artista invece che da "celebrità" come avveniva di solito in America: aveva ottenuto la fiducia di Faulkner che, contro le sue abitudini, le aveva offerto la spiegazione fino ad allora segreta delle sue tematiche: Jean lo ascoltava incantata e subito in quei giorni scrisse la famosa intervista che uscì sulla Paris Review nel marzo 1956 e resta il documento più sicuro dei pensieri di Faulkner. Dopo qualche girovagare in Europa, lo scrittore il 19 gennaio 1954 era venuto a Roma, e all'hotel Excelsior aveva discusso con Humphrey Bogart e Lauren Bacall la notizia secondo cui Hemingway era dato per morto in un incidente aereo in Africa. Nelle interviste a Roma aveva difeso Hollywood, ma la sua intenzione era in realta' del tutto assorbita da una questione legale a proposito di A Fable, il fluviale romanzo appena finito. A rasserenare Faulkner era stato l'arrivo di Jean Stein, venuta da Parigi all'insaputa della famiglia, ma la felicità di Faulkner era stata di breve durata perche' gia' il 15 febbraio aveva dovuto andare al Cairo, arrivando cosi' ubriaco che dall'aereo era stato portato via in ambulanza. A Roma ritorno' il 28 agosto 1955, inviato dal governo, trovando di nuovo Jean Stein ad aspettarlo. L'ambasciatrice Claire Boothe Luce lo invitò a colazione con Alberto Moravia, Ignazio Silone e alcuni altri letterati, ma senza Jean, e Faulkner rispose a monosillabi alle loro domande. Poi erano ricominciati i suoi doveri del viaggio ufficiale, il 9 settembre, con un centinaio di giornalisti romani, il 12 settembre con ottantacinque napoletani, il 14 con cinquanta milanesi: ottanta quotidiani e dodici settimanali parlarono di lui. Il 14 settembre '55 era andato a Milano invitato dalla rivista Epoca della Mondadori, e al ristorante Savini di allora, in una fantasmagoria di lusso e di potere, Alberto Mondadori, grandissimo editore, aveva espresso a Faulkner la sua magari un po' ciclotimica ma esaltata ammirazione proponendog
li una sua Opera Omnia in italiano. Faulkner ne aveva scritto a mano un indice molto particolareggiato, che era stato chiuso nella cassaforte della Mondadori e poi era scomparso, con grande dolore di Alberto. Su richiesta di Alberto, Faulkner aveva scritto alla Garzanti, che aveva pubblicato il romanzo Sartoris, chiedendo il permesso di includere nella Omnia anche questo volume. Nel pomeriggio, non ancora ubriaco, era stato condotto all'Usis, nella deliziosa sede un po' vecchiotta, e soffocato da una folla da concerto rock, affranto dalla fatica e dal caldo, aveva risposto alle domande accademiche dei critici usando il suo repertorio internazionale noto ad alcuni di noi: che lui non era uno scrittore ma un contadino, che quello che gli piaceva dell'Italia erano il pane e le donne, che non conosceva nessuno scrittore italiano. Aveva voluto venire a cena con me, che lo avevo conosciuto a Parigi, mettendoci in gravissimo imbarazzo perché né mio marito né io, a quei tempi della nostra felice boheme, avevamo di che pagargliela, la cena; ma il caro Franco, direttore del Don Lisander di allora, ci aveva fatto credito fino all'indomani. Era cominciata una conversazione deliziosa basata sui ricordi dei cibi che ciascuno di noi aveva provato nei nostri molti viaggi, e conclusa poi in un'esplosione del suo humour quando aveva inventato uno sketch sulla famiglia della signora Tesio, dove doveva andare l'indomani, immaginandola tutta mobilitata a lucidare le argenterie, pulire i tappeti, stirare le tovaglie. Non era stato facile farcelo andare, a quella colazione, ma il 15 settembre '55 aveva finito per ubbidire all'editore italiano e, accompagnato da Guido Lopez, direttore dell'ufficio stampa della Mondadori, si era lasciato trasportare alla famosa scuderia Tesio a Dormelletto, vicino al lago Maggiore, dove la gentile signora lo aveva accolto dicendogli: «Mi dicono che lei parla un po' d'inglese, mr. Faulkner»; al che Faulkner, impassibile, aveva risposto: «A little bit, madam», (un pochino, signora). Il 17 settembre era partito per Monaco. L'avevo accompagnato alla stazione, dove ho fatto la piu' buffa gaffe della mia vita offrendogli una bottiglia di acqua minerale per il viaggio. Mi aveva guardato sbalordito e aveva aperto lo zaino, suo unico bagaglio, per mostrarmi che conteneva solo quattro bottiglie di Bourbon. In Italia non e' piu' venuto, l'Opera Omnia non si e' pubblicata. I nostri giornali quell'anno scrissero che «la presenza di Faulkner in Italia e' stata il principale avvenimento dell'estate». Fernanda Pivano (fonte: la rete)


Etichette:
SGUARDI,
SOUTHERN GOTHIC

martedì 17 dicembre 2013
wannabe cinema...
(invece della consueta classifica dei migliori film dell'anno, quest'anno abbiamo deciso di stilare una breve lista di pellicole wannabe: opere che abbiamo atteso con ansia e che «avrebbero voluto essere, e invece...»)
• Elysium di Neill Blomkam. Perché sembrava l’occasione perfetta, per un giovane regista come il visionario autore di District 9, per riformulare una prospettiva fantascientifica all’interno dello smunto sistema hollywoodiano e invece si è rivelato l'ennesimo pasticcio dalle grandi potenzialità (anche visive) ma in soldoni opera senza capo né coda: troppo grintoso per essere divertente e troppo leggero per essere quell'action d'impegno civile che ambiva ad essere. Occasione bruciata.
• Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann. Perché avrebbe potuto essere un filmone fluido, maestoso ed elegante come il romanzo di partenza permetteva. Invece, è stato solo un lungo videoclip abbagliato dal cattivo gusto e prevedibile nell'impianto: Daisy ridotta a una figurina insulsa e Tobey Maguire un babbione senza alcuno scampo. L’unico in parte il buon vecchio Dicaprio, semplicemente perfetto, ma è troppo poco.
• Come un tuono di Derek Cianfrance. Perché tifavamo per il regista fin dai tempi di Blue Valentine dove aveva saputo raccontare la straordinaria forza sentimentale del quotidiano e ci aspettavamo grande frisson dal suo ritorno sul set con Ryan Gosling e invece, a fronte di una prima parte solida e accattivante, la pellicola s'inceppa nel secondo tomo della storia diventando noiosa, insincera, priva di quello sguardo empatico che ha forgiato il talento di Cianfrance. Visione, per dirla tutta, evitabile.
• Escape Plan di Mikael Håfström. Perché se un ventennio fa ci avessero nominato Schwarzenegger e Stallone nello stesso film in tanti avremmo sperimentato l'inatteso choc dell'orgasmo multiplo. Quest'anno finalmente il miracolo è compiuto. E il risultato è una pellicola talmente piatta e incolore da risultare indigesta (e quindi dimenticabile). Uno dei film più attesi degli ultimi decenni, pubblicizzato male e venduto peggio, che non accontenta nessuno e lascia legioni di fan dei film anni '80 da soli, con lo sguardo perso nel buio e la salivazione azzerata. Una delusione.
Etichette:
ANALISI,
SEGNALAZIONI

lunedì 16 dicembre 2013
lupi mannari nel profondo Salento...
(per festeggiare il post numero 2000 - ehilà! - pubblichiamo uno stralcio del racconto La mannara di San Cassiano, firmato dal titolare del blog per il volume collettaneo Storie Lampanti, appena dato alle stampe dalle edizioni Lupo)
«...Una volta disotto ci siamo ritrovati centinaia di minuscoli occhi rosso-fuoco puntati addosso: sobillati dalla nostra presenza, nugoli di sorci sbucavano dalle commessure dell’ammattonato per venire a camminarci sugli stivali.
Il Maggiore è stato rapito da un inaspettato moto di disgusto e con uno sciò quasi isterico ha calciato alcuni di quei viscidi abitatori delle tenebre per poi ricomporsi in tutta fretta e proseguire nell’antro mentre i ratti, in un disarmonico agitarsi di code, si disperdevano squittendo nell’oscurità alle nostre spalle.

Poi, posate le fiaccole in una rastrelliera, il parroco si è affrettato ad avviare le lucerne impiccate alle pareti.
Lo spettacolo che d’un tratto si è illuminato davanti ai nostri sguardi è stato come un impiastro di gelo sul cuore, anche per quelli della truppa più avvezzi agli orrori della guerra. Solo la decennale pratica nel gabinetto anatomico dell’università mi ha consentito di tenermi saldo e lucido dinanzi alla pianura di cadaveri che ingombrava la sala delle sepolture. Alla stregua di larve d’un inimmaginabile essere ctonio, una moltitudine di corpi enfiati, calvi, pallidi, le bocche serrate oppure stravolte in un’espressione di eterna sorpresa, le mani rigide e contratte, talvolta mutile, fissavano senza occhi il cielo del cimitero ipogeo in una macabra, straziante composizione mortuaria.
Riavutomi dalla sorpresa, ho chiesto al Priore dove si trovassero i corpi che ci interessavano, cosicché quello ci ha condotto nell’angolo più remoto della sala, laddove ci siamo radunati a semicerchio attorno a un cofano muffito.
Una volta scoperchiato, dal loculo si è sprigionata una nube sottile di un gas alabastrino che per un istante, nonostante ci fossimo premuniti di proteggere il volto con dei fazzoletti, ha offeso il nostro olfatto provocando più di qualche mugugno.
Avvolto entro un sudicio bendaggio ormai completamente sfibrato, il cadavere della mammana giaceva semimummificato sotto un informe strato di calce. A parte, come una talea in dotazione colla salma, un involucro di pezza conservava ciò che rimaneva della sua testa...»
[il resto? restate sintonizzati]
Etichette:
NARRAZIONI,
SOUTHERN GOTHIC,
STRALCI

sabato 14 dicembre 2013
nel Blu dipinto di blu...
The Guardian ha inserito Blu, artista bolognese, tra i migliori dieci writers del mondo. Noi lo abbiamo visto all'opera in quel di Grottaglie (TA), qualche anno fa, e da allora segnaliamo il suo sito sulla colonnina dei link amici qui affianco. So' soddisfazioni (per noi italiani, intendiamo!) e vi invitiamo a sbalordirvi con i suoi numerosi lavori visibili in rete (ma dal vivo son pure meglio!)
Etichette:
SEGNALAZIONI,
SGUARDI

venerdì 13 dicembre 2013
i bambini di Simmons
Dan Simmons è uno scrittore dalla penna ariosa, di non facile collocazione all'interno d'una semplice etichetta letteraria: non produce infatti solo opere di valore nei generi più svariati (fantascienza, fantasy, horror), ma riesce a imprimere a tutto il suo lavoro un legame con i classici della letteratura mainstream, risultando così facilmente appetibile alle tipologie più disparate di lettori. Classe 1948, dal 1971 l'autore americano ha fatto per dieci anni l'insegnante. Incoraggiato da Harlan Ellison nel 1982 scrisse il racconto The River Styx Runs Upstream, col quale vinse un importante concorso per esordienti. Tre anni dopo un suo romanzo, Song of Kali, vinse il World Fantasy Award. Da allora la sua carriera non ha conosciuto soste e ha pubblicato oltre dieci romanzi, due antologie e due libri sulla scrittura. Ha vinto un premio Hugo, due World Fantasy Award, un Theodore Sturgeon Award, otto Locus Award, un British Fantasy and Science Fiction Award e quattro Bram Stoker Award.

Il poderoso romanzo L'estate della paura (ben 640 pagg.) sembra affrontare, in modo inconsueto e probabilmente più poetico - tanto da essere a tutti gli effetti un bildungroman, un romanzo di formazione virato in salsa horror - un tema non molto lontano da quello sviluppato in uno dei più celebri romanzi di King: quell'It che in molto ricorderanno anche per una versione televisiva abbastanza amorfa. Pubblicato nel 1991 in America col titolo originale di Summer of night, in Italia il libro arriva nel 1994 grazie alla collana Interno Giallo della casa editrice Arnoldo Mondadori Editore, con traduzione di Riccardo Valla.
Oggi questo romanzo è reperibile nella versione della Gargoyle Books, una casa editrice specializzata in horror, in versione integrale e con traduzione di Annarita Guarnieri. È la storia di un gruppo davvero irresistibile di ragazzini a zonzo per la provincia statunitense dei torridi anni Sessanta, i quali tra mille peripezie si troveranno (e l'autore è inopinatamente superlativo nel lasciar sedimentare la suspence, regalando più di qualche brivido alla schiena del lettore) a combattere un 'Male' dalle più disparate forme. Plot solido, pennellate di costume e lucida atmosfera da 'amarcord': il tutto calibrato nella misura giusta. Lettura consigliatissima anche per i non amanti del genere.
Oggi questo romanzo è reperibile nella versione della Gargoyle Books, una casa editrice specializzata in horror, in versione integrale e con traduzione di Annarita Guarnieri. È la storia di un gruppo davvero irresistibile di ragazzini a zonzo per la provincia statunitense dei torridi anni Sessanta, i quali tra mille peripezie si troveranno (e l'autore è inopinatamente superlativo nel lasciar sedimentare la suspence, regalando più di qualche brivido alla schiena del lettore) a combattere un 'Male' dalle più disparate forme. Plot solido, pennellate di costume e lucida atmosfera da 'amarcord': il tutto calibrato nella misura giusta. Lettura consigliatissima anche per i non amanti del genere.
L'estate della paura
Dan Simmons (Ed. Gargoyle Books)
Dan Simmons (Ed. Gargoyle Books)
Etichette:
RECENSIONI

giovedì 12 dicembre 2013
terra di poliziotti...

Garrison, città (fittizia) sul fiume Hudson: 1280 abitanti di cui la maggior parte sbirri, trasferiti laggiù dalla Grande Mela per allontanare le famiglie dalla violenza metropolitana. Presiede l'ordine uno sceriffo giuggiolone, Freddy Herlin (uno straordinario, panciuto Sylvester Stallone), sordo da un orecchio e convinto di vivere nel migliore dei mondi possibile fin quando capita qualcosa che lo costringe a spalancare gli occhi. Attorno a questa bella figura di (inutile) tutore dell'ordine in un paese di tutori dell'ordine, il regista James Mangold - qui al suo secondo lungometraggio - non solo evita di costruire il solito giocattolone zeppo di effetti speciali, ma, al contrario, dirige e scrive con Cop Land (1997) un film di taglio realistico, strutturato con intelligenza, in cui lo scavo psicologico dei personaggi riesce a viaggiare in parallelo con l'azione. Ritagliata sul modello di una cittadina western, governata da proprie leggi non scritte, per il regista Garrison diventa quindi l'ottimale scenario in cui far muovere lo straordinario gruppo di attori a disposizione: Robert De Niro in rappresentanza della legalità,
Harvey Keitel poliziotto corrotto, Ray Liotta deciso a uscire dal giro cattivo. E bisogna dire che Sly nel gioco di squadra accanto a calibri di siffatta levatura non sfigura. Per niente. Certo non tutto funziona a puntino, nel fitto reticolo di vicende: perché Keitel prima fa credere morto il nipote Big Boy per evitargli un'incriminazione e poi, senza batter ciglio, accetta d'annegarlo in giardino? E da dove spunta l'improvvisa «bontà» d'un losco figuro come quello interpretato da Ray Liotta? A quale scopo poi Mangold scomoda un attore come Bob De Niro, in un ruolo da poliziotto che indaga su poliziotti, se poi non lo usa che per un paio di comparsate, seppur folgoranti? Ma d'altro canto a queste quisquilie fanno da contraltare l'impianto classico e ponderoso della messa in scena (che resta davvero impressa) e la corposa focalizzazione di alcuni caratteri, stereotipati ma epici: colpisce, soprattutto, l'espressività ritrovata di Stallone, che dopo questa pellicola ha saputo riciclare sé stesso senza tradirsi (perfino in chiave auto-parodistica).

Etichette:
VISIONI

mercoledì 11 dicembre 2013
martedì 10 dicembre 2013
2 storie che non si intersecano...

«Nuovamente s'udì bussare alla porta, un bussare discreto e perentorio insieme, mentre il dottore scendeva le scale dietro il raggio della torcia che saettava giù nella tromba delle scale tinte di marrone e sul rivestimento, pure tinto di marrone, dell'ingresso a terreno. Era un cottage sul mare, ma a due piani, illuminato con lampade a petrolio; anzi con una sola lampada, che la moglie s'era portata di sopra quando erano saliti dopo cena. Il dottore indossava una camicia da notte, non un pigiama, per la stessa ragione per cui fumava la pipa che non gli piaceva e sapeva non gli sarebbe mai piaciuta, oltre ai sigari che occasionalmente gli offrivano i pazienti negli intervalli delle domeniche, quando fumava i tre sigari che riteneva di potersi concedere benché possedesse quel cottage, quello attiguo, e quello in cui dimorava abitualmente, con luce elettrica e pareti intonacate, nel villaggio a quattro miglia di distanza. »
Le palme selvagge - William Faukner (Ed. Adelphi)
lunedì 9 dicembre 2013
ora e sempre Porno...
È un inaspettato Shame in chiave Jersey-Shore quello messo a segno con indiscutibile sagacia da Joseph Gordon-Levitt, enfant-prodige della tv statunitense prima e poi del grande schermo (valga per tutte la sua interpretazione del potenziale Robin nell'ultimo Batman di Nolan, ma di ruoli cazzuti nel suo carnet ne ha davvero parecchi), il simpatico Don Jon, passato ai festival di Berlino e Sundance 2013 e da qualche settimana giunto anche nelle nostre sale.
La storia s'impernia su tale Jon Martello, sorta di Don Giovanni contemporaneo, un bulletto che ha grande successo con le donne ma è anche ossessionato dal porno virtuale. Stanco della propria insoddisfacente routine, si imbarcherà in una relazione seria (con una sempre burrosa Scarlett Johanson) nella speranza di trovare una vita sessuale e affettiva più gratificante; ma il viaggio finirà per trasformarlo, conducendolo all'incontro di una donna più materna.
Al netto di qualche stereotipo volutamente caricaturale (l'italiano palestrato dalla chioma perennemente ingellata che prega e va in chiesa ogni domenica) si respira parecchio buon cinema, in Don Jon: si omaggia smaccatamente il capolavoro - irripetuto - di Vincent Gallo, quel Buffalo 66 in cui il protagonista era un tamarro che esattamente come il Don di Levitt andava a pranzo dai genitori in un'atmosfera assurda, pregna di strilli e recriminazioni e con la cronaca televisiva di una partita di football perennemente in sottofondo, ma non si può non pensare al bel Boogie Night di Paul Anderson - tra l'altro incentrato come questo sul porno - quando improvvisamente compare una grande Julianne Moore in versione milf amorevole a rinfrescare la libido infetta del protagonista.
Al netto di qualche stereotipo volutamente caricaturale (l'italiano palestrato dalla chioma perennemente ingellata che prega e va in chiesa ogni domenica) si respira parecchio buon cinema, in Don Jon: si omaggia smaccatamente il capolavoro - irripetuto - di Vincent Gallo, quel Buffalo 66 in cui il protagonista era un tamarro che esattamente come il Don di Levitt andava a pranzo dai genitori in un'atmosfera assurda, pregna di strilli e recriminazioni e con la cronaca televisiva di una partita di football perennemente in sottofondo, ma non si può non pensare al bel Boogie Night di Paul Anderson - tra l'altro incentrato come questo sul porno - quando improvvisamente compare una grande Julianne Moore in versione milf amorevole a rinfrescare la libido infetta del protagonista.
Duole, semmai, scoprire che, dopo i primi tre quarti di puro sollazzo, la pellicola decida di addomesticarsi non poco preferendo percorrere una via meno trasversale, da commedia mainstream, con l'addiction al centro della storia messa al bando come il Male assoluto in funzione di una supposta idea di Amore celeste, profondo e "bidirezionale". Ma è una pecca che tutto sommato (accantonando ogni integralismo indie) si riesce a perdonare considerando quanto ciò nonostante il film regga il ritmo senza cedimenti strutturali. Merito dell’acerbo Gordon-Levitt in cabina di regia, che mostra di avere le idee chiare e adotta un linguaggio semplice e personale basato sulla reiterazione ossessiva di alcuni elementi narrativi; suoni, scene o frasi che gli servono per instaurare con lo spettatore un felice gioco di rimandi, allusioni e ammiccamenti (uno su tutti, geniale: il suono di avvio del Mac) e quindi non si può non segnalare il notevole salto di stile e sostanza che l'attore, alla sua prima prova dietro la macchina da presa, imprime al cinema moralista d'oltreoceano dell'ultimo decennio.
Bravo Joseph: non ci sentiamo affatto di avallare la prospettiva perbenista che alla fine permea l'opera - quella dell'«amore che salva», a dir poco una visione ingenua - ma siamo più che soddisfatti della pellicola e quindi ci uniamo al carrozzone di chi fa il tifo perché l'attore riesca in futuro a migliorarsi, portando alla luce pellicole ricche dello stesso brio, ironia e intelligenza del suo Don Jon che rimane, fino adesso, proprio grazie alla sua natura provocatoria e alla sua impostazione, una delle migliori commedie del 2013.
Etichette:
VISIONI

sabato 7 dicembre 2013
autostop con gli alieni...
Difficilissimo catalogare l'opera di Michel Faber, scrittore dai natali olandesi, cresciuto in Australia ma residente in Scozia da abbastanza tempo per poter rientrare nell'agguerrita pattuglia di quel Rinascimento Letterario Scozzese che ha, nel decennio passato, fatto la gioia di numerosi paginoni culturali. Giunto alla ribalta con il romanzo Il petalo cremisi e il bianco, un torrenziale romanzo d'impronta vittoriana imperniato sulla figura di una prostituta che tenta di sfuggire alla propria condizione, Faber si è meritato prestigiosi consensi della critica per la meticolosità con cui ha saputo riprodurre i costumi e la forma mentis dell'epoca in cui la storia è ambientata, anche se - come per ogni libro popolare - non sono mancati i detrattori pronti a storcere il naso dinanzi ad un'operazione che a qualcuno è sembrata troppo studiata a tavolino.
Prima di questo best-seller internazionale l'autore aveva però esordito in patria con questo strano romanzo di genere, Sotto la pelle, un interessante lavoro uscito dalle nostre parti con anni di ritardo ma fatto passare dall'editore italiano come nuovo di pacca. La vicenda - scritta con una lingua suggestiva e mai scontata - comincia con Isserley, una ragazza piccola e occhialuta, segnata da traumatiche cicatrici nel corpo (ma ancor più profondamente nell’anima). Non è bella, ma ha due tette da sballo che non passano inosservate (ma nella trasposizione cinematografica testé passata sugli schermi del Festival di Venezia la impersona una sgnacchera come Scarlett Joansonn). Al volante della sua macchina tutte le mattine perlustra le fredde campagne della Scozia in cerca di autostoppisti. E lo fa seguendo un suo preciso metodo: cerca infatti esemplari sani, giovani, grossi, muscolosi. Spalle larghe e aitanti. All’inizio anche il lettore ci casca: al pari degli autostoppisti, permette al gioco di sguardi, alle battute, all’intesa erotica
che cresce nell’abitacolo di prevalere sul buon senso. Poi lentamente le cose si fanno più complicate. E l'orrore si materializza squarciando la normalità.

Attraverso un canovaccio trito e ritrito, che attinge spudoratamente alla fantascienza degli anni sessanta, lo scrittore ci conduce per mano in una storia forse poco originale (e che ha lasciato di stucco i non pochi fan che si aspettavano un prequel del libro più famoso di Faber) ma sicuramente ben congegnata, che si avvia promettendo risvolti erotici per concludersi in maniera struggente e ipnotica, con una toccante morale sul potere, sul dolore e sulla pietà. Consigliato.
Sotto la pelle - Michel Faber (Ed. Einaudi)
Etichette:
RECENSIONI

venerdì 6 dicembre 2013
un volatore notturno...

The Night Flier, primo lungometraggio di Mark Pavia, è un film horror del 1996 davvero suggestivo, per lo più sconosciuto al grande pubblico ma ben noto agli appassionati. Si tratta infatti - nel suo genere - di un piccolo ma portentoso gioiello: anzitutto perché riesce nell'impresa di non rovinare il racconto di Stephen King da cui è tratta la sceneggiatura (sport praticatissimo oltreoceano, Kubrick e Reiner esclusi, ovviamente), poi per lo strepitoso finale emoglobinico che mette alla berlina un certo modo trash e sensazionalistico di fare giornalismo e infine per l'utilizzo di effetti speciali semplici e cruenti che concorrono ad una tenuta potente dello script. La pellicola s'impernia su una sorta di parallelo fra la sete di scoop che anima la rivista 'Inside View', sempre a caccia di sangue o di orrore, e un assassino che imperversa (a bordo di un Cesna nero, come un nuovo Dra
cula dei nostri tempi) nella notte della provincia americana cara al Re dell'Horror. Miguel Ferrer (clone del padre José) è efficacissimo nel ruolo del giornalista cinico, chandleriano, un baro capace di prendere a calci una lapide tombale per renderla più fotogenica (personaggio già apparso in La zona morta), che si mette alle calcagna del serial killer con gran mantello e tricorno settecentesco. Piccole idee, grandi risultati, divertimento assicurato.

Etichette:
VISIONI

giovedì 5 dicembre 2013
l'estate di Frank...
Strepitoso documentario quello riprodotto integralmente qui sopra, mandato in onda nel 2012 da Rai Educational e intitolato 1982: l’estate di Frank, dedicato dal regista Salvo Cuccia al concerto tenuto da Frank Zappa a Palermo il 14 luglio 1982. Il documentario segue il viaggio che i due figli di Zappa, Diva e Dweezil, hanno fatto nel 2011 per tornare a Partinico, in provincia di Palermo, paese di origine dei genitori di Zappa e loro nonni. Le voci narranti del documentario sono quelle del regista, che la mattina del 14 luglio 1982 partì da Pordenone per vedere il concerto, e di Massimo Bassoli, un amico di Zappa.
Il concerto fu un disastro: Maurilio Presta, un organizzatore di concerti che era presente quel giorno, ha raccontato a Repubblica che «il palco era posto al centro del campo, mentre noi spettatori sedevamo sulle gradinate. Il risultato visivamente ed acusticamente era disastroso. I musicisti erano dei puntini lontani e la musica arrivava malissimo. Così alcuni decisero di scendere ed avvicinarsi al palco, di lì a poco tanti altri fecero lo stesso e a quel punto si creò il caos. Le forze dell’ordine intervennero pesantemente lanciando lacrimogeni ad altezza uomo. Si scatenò il panico».
Etichette:
SEGNALAZIONI,
SGUARDI

mercoledì 4 dicembre 2013
il sud della Tartt
Donna Tartt pubblicò Dio di illusioni quando aveva ventotto anni (era solo un'adolescente quando Willie Morris, editor di cui le cronache si occupavano come di una leggenda, la incontrò all'Ole Miss e le disse: «penso che tu sia un genio!»). Il libro divenne presto il fulcro d'ogni conversazione nel mondo letterario, rendendo in poco tempo una vera e propria celebrità la sua autrice: recensendola sui giornali i critici si contendevano le lodi a botta di superlativi. Eppure, passata la fiera, Donna Tartt non sfornò nessun nuovo romanzo per i successivi dodici anni. Poi, finalmente, giunse Il Piccolo Amico, 700 pagine di monumentale caratura, e chi si aspettava un'altra storia di giovinezze tradite e rovina esistenziale ne venne totalmente spiazzato. Ambientato in una piccola cittadina del Mississippi (conseguenza per la quale è impossibile non ravvisare l'ombra di Mark Twain in ogni parola del lungo racconto), il libro è un affresco della provincia meridionale alla fine degli anni '70, il ritratto di una comunità conservatrice che incentra il suo stile di vita sulla fede protestante di confessione battista e dove ancora vige di fatto la segregazione razziale, fra neri che compiono stoicamente solo i lavori più umili, bianchi benestanti soffocati da un'ipocrisia bigotta e i white trash che vivono nelle roulotte privi d'ogni prospettiva. La morte di un ragazzino novenne condiziona per sempre la vita della famiglia Dufresnes. L'azione s
i sposta circa 10 anni più avanti quasi subito, e la protagonista diventa la figlia minore Harriet, 12 anni, una ragazzina ribelle ma profondamente sensibile, assetata di verità e conoscenza.

Attraverso il cammino della protagonista entriamo in contatto con un vasto campionario di personaggi, descritti in maniera mirabile e grottesca nella tradizione cara a Flannery O' Connor: la nonna, le zie, il padre, la sorella, la madre, la famiglia Ratliff, alcuni amici e diversi personaggi minori ma funzionali alla storia; la narrazione si insinua inesorabile, e il lungo capitolo conclusivo sdipana alcune sottotrame in un emozionante twist di scene madri, dritto ad un finale che, improvvisamente, ci ricorda che non era un giallo (infatti non c'è alcuna soluzione dell'enigma, l'assassinio resterà un mistero), bensì, semplicemente, la vita.
Il piccolo amico - Donna Tartt (Ed. Rizzoli)
martedì 3 dicembre 2013
lunedì 2 dicembre 2013
on the road col killer...
Ed Kemper è stato uno dei serial-killer più noti della dolorosa storia del crimine del Novecento.
Nelle interviste (tutte visionabili sul Tubo) rilasciate dal carcere di Vacaville, dove tuttora, ancorché anziano, è detenuto, emergono con forza il suo clinico distacco nei confronti della realtà e la sua intelligenza fuori dal normale (il QI dell'assassino risulta essere superiore persino a quello di Einstein). Ma soprattutto, coscienziosamente celata dietro un paio di spesse lenti bifocali, ciò che risalta all'occhio è l'indubbia complessità del personaggio. Impossibile non venire catturati dalla malia composta - e insana - che il personaggio irradia, col rischio di perdersi nell'abisso verso il quale per tutta la vita Kemper ha provato un'attrazione letale, senza riuscire mai a opporsi al male che lo ha percorso, fiaccato da un passato segnato dai soprusi materni e da una serie di fantasie mortuarie mai veramente sopite.
Adolescente tormentato dall’angoscia, dotato di un corpo smisurato che non sa come abitare, ha solo quindici anni quando uccide i nonni paterni a fucilate. È il 22 novembre del 1963, il giorno dell’assassinio di John Kennedy ma anche, per una grottesca coincidenza, quello che cambierà per sempre la sua vita. Finirà in un ospedale psichiatrico sotto osservazione, dichiarato innocuo dopo solo cinque anni dai suoi tutori. Apparentemente guarito, Kemper riapproda in una società - quella statunitense - governata dagli movimento degli hippy, dalla controcultura e dai riverberi del conflitto in Vietnam. L’illusione di poter condurre una vita normale cede però presto il posto ai cattivi pensieri: comincerà a caricare autostoppiste nella sua macchina, ragazze che non vedranno mai più la luce del sole per mano sua.
Con le tappe della biografia di Kemper ben impresse nella mente, Marc Dugain mette a segno con Il Viale dei Giganti un favoloso viaggio nella mente di un assassino (nel libro si chiama Al Kenner), ma anche un romanzo affascinante e implacabile sulle strade di un'America ingenua, razzista e profondamente turbata dalle paure della Guerra Fredda.
Scritto magnificamente, il libro non specula mai sui risvolti efferati della vicenda (anzi, se ne tiene a debita distanza calibrandone sapientemente il peso) ma ci accompagna nella mente di un lucido omicida seriale senza dimenticare l'ambiente che ne ha forgiato le gesta e la mentalità: ecco perché Viale dei Giganti è anche una grandiosa storia on the road; un affresco efficacissimo e appassionante della società americana degli anni settanta vista con l’occhio intransigente di un personaggio mostruoso e al tempo stesso profondamente umano.
Marc Dugain è nato nel 1957 in Senegal, e all’età di sette anni si è trasferito in Francia con la famiglia. Dopo la laurea in Scienze politiche e un periodo a capo di una compagnia di aviazione, a 35 anni ha pubblicato il suo primo libro, La stanza degli ufficiali. È autore di altri sei romanzi tradotti in tutto il mondo, tra cui La maledizione di J. Edgar, Un’esecuzione ordinaria e L’insonnia delle stelle. Dal 2001 vive in Marocco.
Viale dei Giganti
Marc Dugain (Ed. ISBN)
domenica 1 dicembre 2013
la Virginia di Styron...

L'assortito filone della letteratura statunitense di stampo southern contiene al suo interno, a partire dall'impianto di base fornito dai pionieri Faulkner, Capote, O'Connor e Caldwell, numerosissime declinazioni.
William Styron (1925-2006), drammaturgo e critico letterario oltre che scrittore, è un esponente di spicco della frangia più defilata del genere e sicuramente tra quelli meno noti nel nostro paese - a parte forse che per il suo più famoso romanzo del 1967, La scelta di Sophie, un capolavoro sull'olocausto tradotto in pellicola con l'interpretazione d'una intensa Maryl Streep e un bravo Kevin Kline. Definito dal collega scrittore Tom Wolfe un vero romanziere del Sud, si avvicinò alla letteratura mentre frequentava l'università, abbandonandola a causa dello scoppio della seconda guerra mondiale. Reduce dal conflitto mondiale e dalla successiva guerra di Corea, nel 1952 fondò la rivista Paris Review e l'anno seguente si sposò con la poetessa Rose Burgunder, da cui ebbe quattro figli. Nel 1968 ottenne il Premio Pulitzer per il romanzo Le confessioni di Nat Turner, pubblicato l'anno precedente. Una mattina in Virginia è una raccolta di racconti pubblicata nel 1993, dopo anni di silenzio, e rappresenta, secondo la definizione dello stesso autore «una ricostruzione fantastica di avvenimenti reali collegati l'uno all'altro da una catena di ricordi». E con un grande, sottointeso protagonista: la Virginia, terra natia dello scrittore, la stessa che sta al centro della sua intera opera. Sono tre storie molto intime in cui uno stesso narratore rievoca la propria giovinezza nel profondo Sud statunitense agli albori della Seconda guerra mondiale, tre episodi che segnano la progressiva perdita dell'innocenza vertendo sui consueti temi dell'intero corpus dell'opera di Styron: l'eredità dello schiavismo e del razzismo, le sottili violenze che
smuovono i legami familiari e la tragedia della guerra. Il racconto centrale in particolar modo, quello intitolato Shadrach, che narra le peripezie di un vecchio nero che giunge in Virginia per morire dove è nato, è una piccola chicca intessuta di saggezza antica, con febbrili descrizioni di scenari segnati dalla Grande Depressione: relitti di macchine accartocciate sotto il sole, decine di fratelli tutti uguali vestiti di stracci, una landa assolata e cruenta e una visione della vita che è al tempo stesso terribile e consolatoria. Insomma, una piccola perla tascabile.

Una mattina in Virginia - William Styron (Ed. Mondadori)
Etichette:
RECENSIONI,
SOUTHERN GOTHIC

Iscriviti a:
Post (Atom)