domenica 29 gennaio 2012

pareti mortali e bambini rapiti...

Non concede un attimo di tregua questo A Lonely Place to Die (2011), survival-thriller di Julian Gilbey, un giocattolino assai ben costruito dove la natura selvaggia delle Highlands scozzesi e le scabre meraviglie di un panorama davvero mozzafiato contribuiscono non poco all'instaurarsi di un clima perennemente sospeso tra la frenesia e la contemplazione. Il cineasta riesce - saccheggiando da più parti, questo va detto, ma facendolo con riverenza e cognizione di causa - a mescolare con abilità non convenzionale l'action spasmodica della più classica «caccia all'uomo» con la suspense incalzante del filone «arrampicate mortali», galoppando tra torrenti impetuosi, pareti di granito e burroni a picco sul vuoto. L'avvio della storia s'inserisce senza troppi problemi nella genia dei vari 127 ore e Vertical Limit, dove giovani palestrati mediamente cazzari praticano sport assurdi invece di consumarsi fior di diottrie davanti a un monitor lcd (ognuno sceglie di rintronarsi a modo proprio, d'altronde). Qui abbiamo una compagine di scalatori tra le montagne, in mezzo alla quale svetta - è proprio il caso di dirlo - la bella climber Melissa George, stellina mai davvero spuntata nel cielo dioturno del cinema che conta, eppure già apprezzata ai tempi di Dark City e in una particina di rilievo nel Mulholland Drive di David Lynch. Sin dai primi istanti della vicenda si percepisce nell'agonismo vigente tra i protagonisti una certa inquietante tensione emotiva, quasi un'ansia compressa che non lascia presagire nulla di buono. E infatti le scintille arrivano.

Ma non si fa in tempo a capire per chi parteggiare che la pellicola vira, e per un po', quando la squadra incoccia in una strana bambina nascosta in una bara interrata nel bel mezzo dei boschi, siamo dalle parti del solito tranquillo weekend di paura. Stiamo quindi per prepararci allo scontro con una manica di rednecks affamati quando invece, con solido mestiere, il film sorprende ancora, introducendo personaggi e situazioni che non ti aspetteresti (beh', non sempre i conti tornano, nella sceneggiatura, a dirla tutta, però la bravura di Gilbey sta tutta nel ritmo: praticamente, non si ha il tempo di soffermarsi a notarle, le incongruenze)(che pure, intendiamoci, si contano sulle dita di una mano). A Lonely Place to Die è quindi un film di genere tutt'altro che scontato (non foss’altro per le scelte tecnico-cromatiche, con i proiettili che spalancano petali rocciosi nella pietra intorno a Melissa e l’acqua del fiume, vista da sotto, rossastra e agitata come una birra doppio malto), per la capacità di gestire più registri senza incappare nella trappola degli stereotipi, e per il bel lavoro fatto sulla scansione dei tempi filmici, a riprova del fatto che non c'è bisogno di 3D ed effetti speciali mirabolanti per tenere lo spettatore col fiato sospeso. Ma questo, si sa, è una cosa che quaggiù abbiamo smesso di concepire (e dire che i nostri Fulci, Castellari e DiLeo ce l'avevano nel sangue!). Consigliatissimo.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

C'è in giro un interesse, che a volte mi sembra un po' troppo "interessato", sulla questione dei bambini. Se Omar lo permette vorrei porvi all'attenzione questo pezzetto che scrissi qualche tempo fa http://corpifreddi.blogspot.com/2009/11/la-violenza-sui-bambini-nel-moderno.html per suscitare qualche riflessione.
Fabio

sartoris ha detto...

@Fabio avevo già letto questo tuo pezzo e lo trovo molto interessante, bravo, anche se in questo film in realtà la bambina rapita è davvero un pretestino da poco, quasi una scintilla (be', a ben guardare è anche il motore di tutta la vicenda, però è trattato con rispetto...

(uhm, mentre ne scrivo mi accorgo di accartocciarmi, a riprova della "pelosità" dell'argomento: aspetto ulteriori contributi;-)

Anonimo ha detto...

E' un po' una mia fissazione che sarà pure sbagliata ma vedo troppi bambini sulle copertine.
Fabio