Un tranquillo week-end di paura (Deliverance) è un film del 1972, diretto da John Boorman, con Jon Voight e Burt Reynolds. Tratto dal romanzo Lungo il fiume di James Dickey, il film è considerato oggi un cult assoluto. Il succo della storia è noto: per disintossicarsi dei miasmi urbani, quattro americani di città organizzano una discesa in canoa del fiume Catooga, nella Georgia del Nord. I luoghi sono selvaggi, come la popolazione. La discesa si trasforma in un incubo: uno dei giovani, Bonny, viene violentato da un montanaro; un altro, Lewis, si rompe una gamba; un terzo, Drew, annega nelle rapide. Dopo essersi piegati, volenti o nolenti, alla duna legge della foresta, i tre sopravvissuti tornano verso la civiltà, ma il ricordo della loro avventura non li abbandonerà così presto. Giramondo hemingwayano, lo scrittore James Dickey adattatò egli stesso per lo schermo il suo best-seller, in cui (come per l’autore di Il vecchio e il mare) si erigeva un monumento alle virtù terapeutiche della competizione sportiva, che forgerebbe il carattere. Ma la visione del regista del film è invece più cruda: «La violenza», dice, «non rende migliori. Piuttosto degrada!». Questa divergenza in fatto di etica rese la collaborazione tra scrittore e cineasta molto appassionante, lasciando raffiorare una certa ambiguità: la civiltà, a conti fatti, non è poi una cosa così brutta. Non si tratta di rinnegarla, ma di ridarle un senso, attraverso un lavoro su di sé. L’inglese John Boorman (nato nel 1933) ci propone, film dopo film, prove iniziatiche sul tipo di questa, ma in campi diversi: il film di gangster in Senza un attimo di tregua (1967); la favola politica in Leone l’ultimo (1970), la fantascienza in Zardoz (1973), la mitologia cavalleresca in Excalibur (1981), l’avventura esotica allo stato puro in La foresta di smeraldo (1985). Si tratta ogni volta di un ritorno alle sorgenti da cui l’eroe, un uomo comune, uscirà bastonato ma purificato. Su questa strada si incontrano molte ingenuità, che non devono fan dimenticare la straordinaria maestria tecnica che il regista dispiega, il suo senso flahertyano della natura, la ricchezza del suo universo sonoro. Questo «visionario del suo tempo» (Michel Ciment) ha sempre avvertito «il bisogno di lavorare nel senso della bellezza». E non ha mai deviato da questa sua traiettoria lirica. Quello dei quattro cittadini di Un tranquillo week-end... diventa quindi un viaggio negli inferi dell'inconscio, del pre-storico, del mito in un contesto di dolore e di morte. Tra le diverse scene memorabili da citare almeno il duetto di banjo e chitarra all'inizio. Ottima fotografia di V. Zsigmond. (fonti: la rete)
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