Bubber Reeves (un imberbe e ancora sconosciuto Robert Redford) evade dal carcere e, lungo la strada per il Messico, approda nei pressi del suo paese d'origine, laddove sua moglie (Jane Fonda nel suo periodo mozzafiato) è divenuta l'amante di Jake, figlio dell'uomo più ricco del luogo. La sua presenza scatena gli istinti peggiori mettendo gli abitanti più bellicosi sulle sue tracce. Solo lo sceriffo Calder (un immenso Marlon Brando) cerca di sedare gli animi per evitare un linciaggio, ma il suo intervento risulterà nullo. Un parco-attori di prim'ordine per questo strepitoso La caccia (1966), lungometraggio tratto da un romanzo di Horton Foote e firmato dal compianto Arthur Penn: uno dei più fertili e strutturati esponenti di quel movimento per il quale la critica coniò la definizione di «New-Hollywood». La pellicola si prende il suo tempo - due ore abbondanti - per presentarci i personaggi e definire le coordinate della vicenda, sviluppata per mezzo di un meccanismo a orologeria che sfocerà in un finale toccante e incredibilmente saturo di crudeltà. Il regista rovescia l'assunto (in quegli anni praticamente dogmatico) per il quale la provincia statunitense è un ricettacolo di «gente tranquilla» e «laboriosa» mostrandocene invece l'aspetto più torbido e malato. Ciò che vien fuori è un ritratto spietato degli aspetti più gretti e meschini della società americana (qui c'è il Texas del petrolio sullo sfondo, e non è forse un caso visto che siamo a pochi anni dall'assassinio di Kennedy a Dallas, con tutti i rigurgiti potilici della faccenda), dove gli istinti bestiali sono mascherati dietro una patina ipocrita di perbenismo. Dove anche la legge è costretta a tacere dinanzi alla prepotenza del potere. L'interpretazione di Brando è da brivido (con il pestaggio conclusivo che riporta a Fronte del Porto - nonché ad un certo larvale masochismo che l'attore stesso si riconoscerà più tardi nella propria autobiografia), ed è ingiusto considerarlo alla stregua dei tanti film deludenti che l'attore girerà in quegli anni per pure ragioni alimentari (cfr. I due seduttori, A sud ovest di sonora, I morituri etc.). Un opera magari a tratti un po' enfatica che - come usava in quegli anni - talvolta eccede sul versante melò, capace però di mettere in scena un dramma civile con guizzi di maestria che ribaltano gli schemi narrativi classici utilizzandoli in maniera innovativa e una tecnica registica che (nonostante le ingerenze della produzione, a quanto pare assai invasiva) è ancora oggi ammirevole. Imprescindibile!
3 commenti:
Praticamente una pernacchia alla Commissione Warren: Redford è ucciso nello stesso modo in cui è stata chiusa la bocca ad Oswald.
Il suo larvale masochismo lo portò a recitare nel ruolo di don Vito Corleone con un ferro di cavallo per pony bonsai in bocca. Il suo fan numero uno Jack Nicholson, tanto per fare lo sborone come direbbe il signor Rossi da Zocca, ha recitato ne L'Onore dei Prizzi con un ferro del Black Stallion di Mickey Rooney davanti ai denti.
Mickey Rourke sta per girare una miniserie sulla lavorazione di Missouri, ma ha firmato quando era alticcio e credeva si trattasse di un remake del Padrino. Intende indossare come paradenti uno zoccolo del cavallo preferito di Brunetta. La produzione sta pensando di farlo passare per un lavoro dei Monty Python.
Crepa purtroppo ho idea che il buon Rourke, uno dei miei preferiti in assoluto (forse secondo solo a Brando, anche nel disfacimento fisico programmatico) dopo l'ultimo intervento plastico potrà lavorare solo con molto cerone addosso (sin city docet) fatti un giro su google e guarda le ultime, recentissime foto: ti giuro è un altro, nuovo naso, nuova bocca, persino nuovi addominali finti!)
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