domenica 14 settembre 2014

all'inferno non ci si sta tanto bene...

Sergio Garrone tratteggia con Django il bastardo uno dei migliori sotto-Django del periodo. È il 1969 e la pellicola capostipite della serie (quella più famosa con Franco Nero nel ruolo del pistolero protagonista) sta riscuotendo un grandissimo successo, inferiore forse solo a Per un pugno di dollari. Garrone allora, in collaborazione nella sceneggiatura col suo attore Anthony Steffen, amplifica l'aura sepolcrale che ammantava il lungometraggio di Corbucci per costruire una storia davvero malsana, realizzata con pochissimi soldi (e le solite, scalcagnate presenze attorali che hanno animato l'intero arco di vita del western nostrano) ma decisamente efficace nella sua ruvida messa in scena. Già l'idea di partenza, quella di improntare uno spaghetti-western che si snoda in una sola notte in un villaggio deserto, è notevole e originale, soprattutto per le anomale venature horror che sin da subito permeano il susseguirsi degli eventi. Ma poi la presenza di tipologie grottesche di personaggi come il killer epilettico Hugo o il folle dallo strano nome di Lu Kamante (impersonato da Luciano Rossi) regalano al film uno status di culto. La vicenda - in fondo molto elementare - vede Django tornare dalla guerra (ma forse dalla morte, il regista è bravissimo nel lasciare sospesa l'informazione) per vendicarsi dei soldati sudisti che hanno tradito il suo gruppo in battaglia. Vestito di nero come un pipistrello e impassibile di fronte a qualsiasi minaccia, il pistolero incide su una croce la data della morte di ogni suo bersaglio e quando alla fine compie la mattanza, scompare nel nulla com'era venuto rispondendo alla domanda di rito «dove andrai, straniero?», «All'inferno... e ti assicuro che non ci si sta bene!». Magnifico. Il film ispirò (e parecchio) Clint Eastwood per il suo Lo straniero senza nome.

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