giovedì 12 dicembre 2013

terra di poliziotti...

Garrison, città (fittizia) sul fiume Hudson: 1280 abitanti di cui la maggior parte sbirri, trasferiti laggiù dalla Grande Mela per allontanare le famiglie dalla violenza metropolitana. Presiede l'ordine uno sceriffo giuggiolone, Freddy Herlin (uno straordinario, panciuto Sylvester Stallone), sordo da un orecchio e convinto di vivere nel migliore dei mondi possibile fin quando capita qualcosa che lo costringe a spalancare gli occhi. Attorno a questa bella figura di (inutile) tutore dell'ordine in un paese di tutori dell'ordine, il regista James Mangold - qui al suo secondo lungometraggio - non solo evita di costruire il solito giocattolone zeppo di effetti speciali, ma, al contrario, dirige e scrive con Cop Land (1997) un film di taglio realistico, strutturato con intelligenza, in cui lo scavo psicologico dei personaggi riesce a viaggiare in parallelo con l'azione. Ritagliata sul modello di una cittadina western, governata da proprie leggi non scritte, per il regista Garrison diventa quindi l'ottimale scenario in cui far muovere lo straordinario gruppo di attori a disposizione: Robert De Niro in rappresentanza della legalità, Harvey Keitel poliziotto corrotto, Ray Liotta deciso a uscire dal giro cattivo. E bisogna dire che Sly nel gioco di squadra accanto a calibri di siffatta levatura non sfigura. Per niente. Certo non tutto funziona a puntino, nel fitto reticolo di vicende: perché Keitel prima fa credere morto il nipote Big Boy per evitargli un'incriminazione e poi, senza batter ciglio, accetta d'annegarlo in giardino? E da dove spunta l'improvvisa «bontà» d'un losco figuro come quello interpretato da Ray Liotta? A quale scopo poi Mangold scomoda un attore come Bob De Niro, in un ruolo da poliziotto che indaga su poliziotti, se poi non lo usa che per un paio di comparsate, seppur folgoranti? Ma d'altro canto a queste quisquilie fanno da contraltare l'impianto classico e ponderoso della messa in scena (che resta davvero impressa) e la corposa focalizzazione di alcuni caratteri, stereotipati ma epici: colpisce, soprattutto, l'espressività ritrovata di Stallone, che dopo questa pellicola ha saputo riciclare sé stesso senza tradirsi (perfino in chiave auto-parodistica).

2 commenti:

LUIGI BICCO ha detto...

Bel film. L'ho sempre considerato la prova del fatto che Stallone potesse interpretare anche altri ruoli, oltre i suoi soliti. Questa versione triste e panciuta mi ha sempre convinto.
E Mangold non mi dispiace. Peccato che sia partito da qui e sia finito a girare Wolverine l'immortale. Di mezzo ci salvo Identity e il remake di Quel treno per Yuma (ma non completamente).

sartoris ha detto...

Luigi, è esattamente ciò che avrei scritto io per commentare una rece di Copland ;-))