lunedì 31 marzo 2008

Il nero di Jim Thompson


James Myers Thompson (1906 - 1977) è uno tra i più rinomati scrittori di «genere» a stelle e striscie. Deve la sua fama principalmente al noir, etichetta sotto la quale andrebbero rubricati almeno una trentina di libri di questo prolifico autore pochissimo apprezzato in vita, e la  cui statura letteraria venne riconosciuta solo negli anni 80 con le riedizioni della casa editrice Black LizardL'umanità che costella i libri di Thompson è un'accozzaglia proteiforme di truffatori, perdenti, sgualdrine e sociopatici: il tipo di fauna che pullula nei recessi della società contemporanea (talvolta abitandola sin nelle gerarchie più alte, perfettamente inserita nel castello di convenzioni che ne regola il funzionamento). Il punto di vista dell'autore è quasi sempre espresso da una narrazione assai classica, una narrazione piana e priva di sdruccioli dietro la quale si cela una perfetta comprensione degli abissi della follia criminale:  attraverso l'utilizzo della canonica prima persona, la prosa di questo scrittore adesca sottilmente il lettore costringendolo a diventare quasi complice di quell'abiezione descritta con spaventosa perizia. Difficile trovare personaggi positivi nei libri di questo monumento del pulp: anche quelli apparentemente più innocui mascherano dosi considerevoli di egoismo, meschinità, cupidigia e vizio diffuso.
Superato il difficoltoso momento di approccio con il mondo editoriale - caratterizzato negli anni 40 da due romanzi di scarso séguito - il successo lo bacia con un tascabile pubblicato nel 1952, dal titolo L'assassinio che è in me. Il libro capita tra le dita di Stanley Kubrik, che dopo averlo letto decide di contattare lo scrittore: da qui, la collaborazione tra i due per la realizzazione dei film Rapina a mano armata (1955, direttamente ispirato al testo), e Orizzonti di gloria (1957), con Thompson brillante sceneggiatore di entrambi. Nel corso di questi anni, la sua attività si misura con la pubblicazione di altri 14 romanzi. Tra questi da ricordare: In fuga scritto nel 1958, che ha avuto un importante recupero cinematografico, con Getaway già girato da Sam Peckinpah nel 1972, divenuto poi remake di successo nel 1994 con la regia di Roger DonaldsonNelle ambizioni di Thompson il passo successivo sarebbe quello di scrivere per Hollywood, ma il tentativo conduce soltanto a rinnovata delusione, amplificando nell'autore una brutta tendenza all'alcolismo. Siamo nei mitici sixties, il noir è un genere messo al bando dall'America della generazione Kennedy; eppure, è proprio nell'arco di questo tempo che alcuni capolavori quali I truffatori (1963), e Colpo di spugna (1964), trovano posto tra gli scaffali delle librerie statunitensi: altri due libri, questi, da cui verranno realizzati altrettanti film, Rischiose abitudini, nel 1992, e ancor prima l'omonimo Colpo di spugna di Bernard Tavernier, con protagonista un Philippe Noiret d'annata. Morto nel 1977, Jim Thompson è quasi del tutto dimenticato in patria, mentre in Europa, particolarmente in Francia, la sua riscoperta percorrerà gran parte del decennio successivo.

domenica 30 marzo 2008

Cosa è rimasto di quegli anni '8o...



Ho trovato alcune mie vecchie cose. Disegni, fumetti realizzati quand'ancora credevo fosse per me possibile una evoluzione in quel senso (la faccenda è lunga e tortuosa, non credo di aver voglia di dipanare il bandolo!)... Sono del 1988 o giù di lì (all'epoca andava forte Torpedo, di Abuli e Bernet, e si vede, direi) e ho deciso di postarne i migliori. Sì, insomma, puro riverbero di Ego, siamo d'accordo...

venerdì 28 marzo 2008

Che profumo ha l'estate salentina?

(riciccio una riflessione della mia amica Elisabetta Liguori riguardo il libro Salento's Movida, di Armando Tango)

Davanti ad un libro ricco come questo spesso, chissà poi perché, ci si sente obbligati a far discorsi di genere. Un giallo, un noir, un thriller? Cosa è questo Salento’s Movida scritto da Armando Tango per la Glocal editrice alla fine del 2007? Questioni come queste presupporrebbero una distinzione puntuale; si dovrebbe procedere cautamente per tesi e antitesi, per categorie letterarie rigorose, così da sperare di puntualizzare modalità e fini narrativi in via definitiva. Onestamente io non credo che una simile operazione abbia davvero un senso, quando si parla di letteratura. In teoria un giallo, nel quale l’individuazione del colpevole resta centrale, dovrebbe avere come fine la rassicurazione del lettore, il ripristino dell’ordine e la conquista di una qualche verità; diversamente il noir, che si nutre del caos, dovrebbe rappresentare un momento di rottura e di denuncia sociale. In altre parole affermando che il giallo consente una placida e attiva evasione, finiamo per dire che il noir mira invece ad invadere la sfera conoscitiva ed emozionale del lettore e a turbarla. Ma allora Armando Tango? A cosa mira Armando Tango? Evade o invade? A mio avviso questo suo romanzo rappresenta un ottimo esempio di fusion letteraria: qui i generi come le finalità si contaminano, svago e denuncia diventano occasione e non pretesto, la città narrata si muove a metà tra il bello o l’orrido, l’abbandono e il lusso, il degrado e il disimpegno più glamour. Qui non conta il fine, ma il mezzo e il modo. Il mezzo è l’osservazione. Il modo sta nella vastità, nell’articolazione, nell’intensità della stessa osservazione. Il carattere fortemente distintivo di un’opera come questa, dunque, non è il genere, ma il luogo. Quest’ultimo, assieme all’autore, parla attraverso la bocca dei personaggi. Un gran bel luogo, ricco di stimoli, stupore e dubbi. Un territorio poliforme che riesce ad essere, nello stesso tempo, sporco ed eroico e quindi ancor più autentico, in quanto fortemente contraddittorio. È per questo che il romanzo di Armando Tango, per scontro persistente, tinte accese, divertimento crudo, dinamicità e mito, mi par più vicino al buon vecchio genere western e ai suoi sterminati affreschi. Chissà cosa ne avrebbe detto Sergio Leone, ma questo nostro sud polveroso sembra ormai prendere proprio quel suo storico immenso ghigno. Si pensi a quello che ne aveva fatto Omar Di Monopoli nello scorso anno con il suo «Uomini e cani». Il sud dei cani di Di Monopoli era un sud ancestrale, animalesco, primitivo nei luoghi come nelle emozioni, mentre il Salento di Tango è una pancia lussureggiante, gravida di trasformazioni, fortemente contemporanea. Non è infatti un caso che tra i personaggi chiamati a dare movimento alla storia ci siano due icone del potere televisivo. Maurizio Costanzo e Maria De Filippi: sono loro gli astri intorno ai quali per caso e per progetto, tra festini, intrighi, fraintendimenti, cene luculliane e gite in barca, s’avvoltola il peggio e il meglio della città di Lecce. La vicenda narrata da Tango è pura fantasia, ma non lo è il mondo che la partorisce. La Tivù, quella vera e quella di provincia, i sogni inconsistenti dei ragazzetti di periferia, delle starlette sfigate coi jeans a vita bassa, dei fotografi assetati di luci, i giri grossi e quelli piccoli, la borghesia bene coi suoi motoscafi carichi di commercialisti o principi del foro, il giro delle feste, quello del malaffare, o degli stranieri. La vecchia malavita che si barcamena tra nuovi linguaggi tecnologici e vetusti eccessi di violenza. I nuovi poveri ingenui opposti ai vecchi ricchi osceni. Tutto così è rivelato e quindi condiviso. La scelta di Tango è senza dubbio coraggiosa perché localizzata con chirurgica precisione e perché chiamata a far da specchio a quella che è la realtà sociale nazionale. La sua Lecce è vera, non più segreta e lontana, e si muove lungo coordinate comunali categoriche:
1) il cuore storico della città e la sua movida frenetica:
2) la zona 167, la parte più appassita, totalmente dimenticata dalle amministrazioni quanto dalla gente;
3) le arterie provinciali o rurali, la campagna ancora frizzante di grilli e di emozioni primordiali;
4) la costa marina, il suo smeraldo, le sue albe acide, le sue terrazze snob, il suo turismo variegato. Ad ogni ambiente corrisponde un diverso personaggio. Una diversa tipologia d’uomo. La storia di questo romanzo, dunque, è una sorta di giostra che gira intorno al fulcro cittadino e sembra voler rispondere ad un unico quesito: cosa sta diventando il Salento e la sua gente? La risposta è appassionata, l’intreccio necessario e travolgente, rispondente ai canoni stilistici del thriller ma non solo a quello. La voce narrante mescola ad una rabbiosa indignazione, onde di sana nostalgia. Dopo un inizio assolato, apparentemente quieto, il ritmo narrativo si fa via via più vorticoso. La giostra comincia a girare ad un ritmo quasi ipnotico. I personaggi creati da Tango si alternano capitolo dopo capitolo sempre più rapidi e nonostante il loro turbinare conservano fino alla fine potenza tridimensionale. Le loro personalità s’intrecciano le une con le altre, in un gioco sapiente di equivoci che passa con grande abilità dai toni tragici a quelli grotteschi, mentre l’occhio dello scrittore, amaro e consapevole, vigila e tiene in scacco il lettore pagina dopo pagina. Un occhio che sembra conoscere molto bene i vizi segreti dei luoghi scelti. La movida per esempio. Una dimensione tipica delle ultime estati salentine. Una novità che sta mettendo in connessione il sud con il mondo, alterandone la struttura dall’interno e appiattendola. Osservare la città che s’anima di notte è come fissare negli occhi il figlio storpio di una globalizzazione incerta. Non oggetto, ma soggetto, la movida descritta da Tango è capace di incidere sulla percezione dei luoghi da parte dei numerosi protagonisti della storia, sui loro desideri, sui loro umori. Ha vita propria. Una movida torrida, pacchiana, assordante, che ogni personaggio vive in modo diverso: come ostacolo, come furto, come opportunità, o come nemico. Una forma di modernità qui narrata come contrasto. E sono appunto i contrasti il punto di forza di questa scrittura: gli uomini che la abitano, pur mossi dagli stessi istinti, quali potere, riscatto, denaro, fama, rivincita, hanno dimensioni umane diverse, reazioni diverse. Il loro è un sentire condizionato dal clima, dal rumore, dalla cultura mediatica e non, e dalla storia di provenienza di ciascuno, quindi contrastante. In questa terra caratterizzata da tale acceso conflitto tra vecchio e nuovo, tra silenzio e rumore, tra innocenza e dolo, in un primo momento Tango sembra voler scindere nettamente il bene da male, ma poi sceglie di riportare il tutto ad una dimensione di nebuloso disinganno e la giostra ad un momentaneo stop. Ogni suo personaggio trova un diverso epilogo.

Come vuole sempre la vita, posta davanti alle sue migliori occasioni perdute.

giovedì 27 marzo 2008

Ciofeca project (Altered)

Nel buio labirintico dei boschi della Florida una storia di uomini e alieni. Quindici anni prima proprio in quei boschi cinque amici erano stati catturati e rapiti da misteriosi extraterrestri, alieni malvagi e dalle sembianze terrificanti. Uno di loro venne ucciso e così oggi tre degli amici tornano nel bosco per vendicare l'accaduto: riescono a catturare un alieno e lo nascondono nella casa del quarto amico che oramai tenta di dimenticare la terribile esperienza, vivendo serenamente con la moglie. L'alieno riesce a liberarsi e per la donna e i quattro amici inizierà un nuovo incubo dal quale doversi velocemente liberare. 
Il regista di origini cubane Eduardo Sánchez, co-regista/sceneggiatore/montatore di quel grandioso fenomeno mediatico che fu nel 1999 The Blair Witch Project torna, a distanza di diversi anni, a dirigere una nuova pellicola dell'orrore: l'ambientazione prediletta sono sempre i boschi, che imprimono nel film una sensazione immediata di oscurità e possibile paura, come d'altronde è nei più classici canoni orrorifici.
In questa nuova pellicola - ammettiamolo: una ciofeca che ha deluso le grandi aspettative dei fan e soprattutto ha confermato che il successo del primo film era dovuto più al viral-marketing che all'effettivo valore del lavoro - che strizza l'occhio a tutti i più banali cliché del genere horror (dalla musica alla fotografia) l'elemento sicuramente più interessante è la miscela di elementi horror, splatter e fantascienza, che ben amalgamati vengono a creare un film che, seppur non riesca a superare i limiti del prodotto di cassetta da distribuire in sordina d'estate rispolverando i magazzini, ha comunque un tocco di originalità apprezzabile e una spinta verso scelte registiche personali che fanno sembrare di tanto in tanto di trovarsi davanti a una pellicola seppur minimamente diversa dall'infornata di horror estivi che ogni anno viene ciclicamente riproposta. Assolutamente trascurabile il cast, formato per lo più da esordienti, da stunt o da caratteristi senza particolari doti recitative (anzi, sin dai primi secondi cominciano a starnazzare e giogioneggiare in maniera assolutamente indisponente, e il doppiaggio italiano non aiuta!). Sconsigliatissimo (purtroppo!).

sabato 22 marzo 2008

Quando McCarthy incontra Non aprite quella porta!

Scompaginato da un frastornante montaggio ad altissimo voltaggio visivo, La casa dei 1000 corpi - il precedente film di Rob Zombie (rocker, regista e ultimamente anche fumettista) - era un film all’insegna dello shock e della contaminazione estetica. Se da una parte questo trattamento stilistico era portato avanti con lucidità lungo tutto il film (cosa che non poteva che colpire positivamente), dall'altra finiva per inibire l'essenziale gioco delle identificazioni, precludendo allo spettatore la possibilità di partecipare emotivamente alle vicende rappresentate sullo schermo. Ne derivava una pellicola di grande impatto estetico, ma vagamente epidermica: più che testimoniare una rinuncia alle dinamiche psicologiche convenzionali, la mancata partecipazione emotiva suonava come un altolà all'ingresso nel film. Con La casa del diavolo (codardo quanto arbitrario titolo italiano che «ripulisce» The Devil’s Rejects, «i rifiuti del diavolo»), Rob Zombie mostra di aver imparato la lezione e costruisce un film interamente basato sulla gestione delle identificazioni. Se in un primo momento simpatizziamo infatti con la famiglia Firefly asserragliata nella fattoria e detestiamo i poliziotti capitanati dall’invasato sceriffo Wydell (un William Forsythe fenomenale), successivamente prendiamo le distanze anche da Otis e Baby (Bill Moseley e Sheri Moon, entrambi inopinatamente 'in parte'), fino a riconoscere la sostanziale interscambiabilità dei ruoli di vittime e carnefici (sottolineata anche dalla ripetizione della medesima battuta, in situazioni simili, da parte dello sceriffo e di Otis: “Ho soltanto cominciato!”). Ma il gioco degli specchi si fa ancora più complicato: una volta raggiunta la parità morale tra inseguitori e inseguiti (gli uni e gli altri ugualmente ammirabili/detestabili), sono le istanze narrative a determinare per chi parteggerà lo spettatore. Con magnifica imprevedibilità, Rob Zombie spariglia di continuo le carte in tavola: prima ci inchioda alla brutalità della vendetta personale, poi ci soccorre con un intervento gratuitamente liberatorio e infine, in una sequenza semplicemente maestrale, ci lancia in una corsa forsennata contro la legge. E il tutto è gestito con maturità stilistica davvero notevole: ralenti alla Peckinpah, montaggio iperframmentato (ma non caotico come ne La casa dei 1000 corpi), scelte musicali azzeccatissime (Blind Willie Johnson, The Allman Brothers Band, Otis Rush): ogni soluzione risulta perfettamente integrata in un’opera digrignante e disperata, al contempo attacco frontale alle istituzioni e canto del cigno di un’utopia radicalmente eversiva. Detto chiaramente, questo magnifico The Devil’s Rejects è il controtipo negativo dell’altrettanto magnifico Le tre sepolture: se nel film di Tommy Lee Jones l’America dei padri puniva ed educava i figli irresponsabili, qui padri e figli, alleati, rifiutano la morale dell’autorità, crivellandola di colpi e scagliandocisi contro con furibonda irruenza suicida, come in un romanzo del più sanguigno Cormac McCarthy. Attenzione, le due sequenze più dannatamente esaltanti del cinema americano degli ultimi dieci anni sono in questo film: l’omicidio iniziale di Abbie sulle note di Midnight Rider della Allman Brothers Band e il tiratissimo finale sull’incalzante, irresistibile accelerazione ritmica di Free Bird dei Lynyrd Skynyrd

mercoledì 19 marzo 2008

Santuario - Faulkner visto da Tommaso Pincio


Quando Santuario fece la sua apparizione in libreria, nel febbraio del 1931, William Faulkner non aveva ancora compiuto trentaquattro anni ma aveva già al suo attivo libri come L'urlo e il furore e Mentre morivo, che lo avrebbero reso uno dei padri fondatori della modernità americana. Benché stilisticamente meno audace e compiuto di altri suoi capolavori, Santuario è un romanzo più che notevole. Ciò nonostante, in occasione della prima ristampa Faulkner avvertì il bisogno di scrivere un'introduzione nella quale parve lasciare intendere che il romanzo fosse per lui privo di particolari pregi letterari in quanto «concepito unicamente allo scopo di far soldi». Non l'avesse mai fatto. Da allora i critici hanno iniziato a perdersi tra mille dubbi, ondeggiando tra la quasi certezza che l'introduzione non andasse presa alla lettera e la sconcertante eventualità che Santuario potesse davvero essere un'opera minore.

Una pista in buona parte falsa.
Si è anche pensato che lo scrittore volesse prendersi gioco dei suoi lettori, a cominciare dai critici, il che risponde al vero ma solo in parte. Faulkner è alquanto evasivo e ambiguo sulle ragioni per cui il romanzo non godrebbe della sua piena approvazione. Quel che dice, in sostanza, è che si prese un po' di tempo per individuare un tema che potesse solleticare il pubblico, dopodichè inventò il racconto più terribile che potesse immaginare, infine buttò giù in tre settimane un manoscritto che inizialmente il suo editore si dichiarò riluttante a pubblicare. In seguito, sempre stando a quanto egli sostiene nell'introduzione, ci tornò a lavorare per «tirarne fuori qualcosa che non facesse troppo vergognare L'urlo e il furore e Mentre morivo
Di queste poche cose, però, due sono false. In primo luogo, la versione originale di Santuario non fu tirata via in tre settimane. Fu scritta in quattro mesi di tormentate revisioni. L'idea, poi, non era affatto un'invenzione ma si ispirava in buona parte alla storia realmente accaduta di una donna violentata da un gangster impotente, che Faulkner aveva udito in un nightclub di New Orleans dalla viva voce della malcapitata. Difficile credere che Faulkner avesse la memoria confusa su due punti così rilevanti. È di gran lunga più verosimile che egli sapesse di mentire e che avesse le sue buone ragioni per farlo. Resta solo da stabilire quali.

Fantasmi in forma di parole.
Gli scrittori indulgono a uno strano vezzo. Non appena sentono il cigolio del cancello della giovinezza che si chiude alle loro spalle, non resistono alla tentazione di parlare di sé come rievocassero un passato lontanissimo. E poco importa che abbiano appena varcato la soglia della maturità: gli scrittori parlano di sé esprimendosi col tono di chi ha quasi cent'anni ed è ormai più di là che di qua. Il perché di un simile atteggiamento ha a che fare con il quesito che ogni narrazione scritta sempre solleva. Chi è il narratore e che rapporti ha con la storia che racconta? Agli occhi della maggioranza dei lettori uno scrittore è destinato a restare un'entità misteriosa, spesso null'altro che un nome stampato sulla copertina di un libro, talvolta accompagnato da una piccola foto nel risvolto. Non una persona in carne e ossa, dunque, ma una sorta di fantasma che si manifesta in forma di parole. Parole che, per quanto parlino di fatti realmente accaduti se non addirittura autobiografici, sempre e solo parole rimangono. 
Capita allora che gli scrittori non resistano alla tentazione di mostrarsi anche fuori dei confini della narrazione in senso stretto, ricorrendo a postille, premesse, note a margine, confessioni o introduzioni come quella di Santuario. A ben guardare, infatti, il vero argomento di questo testo introduttivo sul quale la critica si è tanto arrovellata non è la presunta pochezza del romanzo bensì Faulkner stesso. «A quell'epoca avevo la pelle dura» - racconta lo scrittore magnificando tempi andati che di fatto risalivano soltanto a cinque, sei anni prima, tempi in cui egli non pensava di far quattrini coi libri né si preoccupava se un editore gli rifiutava un manoscritto. «C'era un sacco di cose che potevo fare e mi procuravo quei quattro soldi di cui avevo bisogno grazie alla continua gentilezza di mio padre che, se necessario, mi dava di che mangiare nonostante l'affronto ai sui princìpi costituito dall'aver messo al mondo un fannullone. Poi cominciai a rammollirmi». In questo e altri passi dell'introduzione Faulkner dipinge un autoritratto abbastanza somigliante. Tuttavia il tono che usa per raccontare il suo passato recente ricorda il tempo indistinto delle storie inventate. È un tono che ammanta il «vero» Faulkner di un'aura impalpabile, quasi romanzesca. Più di altri scrittori, Faulkner vedeva nei suoi libri la possibilità di sopravvivere alla morte e per questo li amava più della sua stessa vita. Desiderava non lasciare alcun segno se non ciò che dava alle stampe. 
«Tutti i miei sforzi sono volti a un'unica aspirazione - scrisse in una lettera - ovvero che la mia vita e la sua storia diventino un tutt'uno e abbiano la stessa frase per necrologio ed epitaffio: scrisse libri e morì». 
Alla luce di un simile intendimento le parole usate dallo scrittore per commentare Santuario acquistano un senso diverso da quello che in genere si è preteso di individuare. Non volevano essere né un parziale misconoscimento dell'opera - tanto più che nel finale Faulkner precisa di aver fatto «un discreto lavoro» riscrivendolo - né una presa in giro vera e propria. Quella introduzione era semplicemente la tessera di un grande mosaico nel quale avrebbe dovuto compiersi la definiva trasformazione dell'uomo William Falkner - il nome anagrafico non aveva la «u» - nel personaggio dello scrittore William Faulkner. Il verbo «rammollirsi», per esempio, è un espediente che consente allo scrittore di essere elusivo sul perché, a un tratto, i soldi diventarono un problema. 
La verità è che nella vita di Faulkner era riapparso un vecchio amore di quando era ancora studente. La ragazza in questione, un tipetto vivace di nome Estelle Oldham e dalle relazioni piuttosto movimentate, si era però lasciata condurre all'altare un po' a cuor leggero da un altro uomo. Trascorsa una decina d'anni, nell'aprile 1929, Estelle divorziò e due mesi dopo si sposò con Faulkner.

Uno scandalo foriero di novità.
Con una moglie e due figli, frutto del precedente matrimonio di Estelle, lo scrittore non poteva più limitarsi a sbarcare il lunario pilotando barche al servizio dei contrabbandieri o piccoli aerei privati. Per quanto la cosa non gli garbasse, doveva trovare modi meno romanzeschi per mantenere la famiglia. Il bisogno puro e semplice non basta però a spiegare l'insistenza con cui Faulkner torna sulla questione del denaro. Come molti scrittori di grandi ambizioni letterarie voleva dimostrare a se stesso e al mondo di essere capace di scrivere anche libri che potessero vendere. Spesso gli scrittori come Faulkner pensano che per ottenere un successo commerciale si debba scandalizzare il pubblico. Da qui al «rammollimento» di partorire lo «spaventoso» racconto di Santuario il passo fu breve. Il romanzo fece scandalo regalando a Faulkner una notevole notorietà. Da Santuario venne tratto perfino un film ma, ironia della sorte, la casa editrice andò in bancarotta e lo scrittore non incassò il denaro che gli spettava. Non solo, dovette anche pagare per il privilegio di riscriverlo in quanto l'editore pretese il rimborso della metà dei costi di composizione tipografica della prima versione, secondo Faulkner troppo orribile per essere pubblicata. 
Quasi mai gli scherzi del destino sono davvero accidentali. «Per la gente resterò sempre quello della pannocchia» avrebbe commentato in seguito lo scrittore alludendo a uno dei particolari più chiacchierati del romanzo. Il guaio è - se di guaio possiamo parlare - che Faulkner non aveva affatto scritto un romanzo commerciale, bensì un altro libro dalla lingua per nulla immediata e dalla narrazione ellittica. Insomma, un altro libro alla Faulkner dove il male trionfa e la giustizia è soltanto un abbaglio. 
L'azione si svolge nel profondo Sud ai tempi del proibizionismo e ruota attorno allo stupro di un'avvenente debuttante, violentata da un gangster che commette anche un paio di omicidi per uno dei quali verrà incolpato un innocente. Questo in superficie. Di fatto, come giustamente notò André Malraux, Santuario è «un romanzo con un'atmosfera da detective-story ma senza detective». Un romanzo, tra l'altro, che racconta una storia impossibile: uno stupro perpetrato da un impotente. Più che violare le leggi umane, il gangster Popeye si ribella a quelle della natura e supplisce alle proprie deficienze sessuali deflorando l'ancora vergine Temple Drake con una protesi di fortuna, la famosa pannocchia. 
Il modo in cui viene commesso lo stupro induce a pensare che il vero cardine del romanzo non sia tanto l'atto in sé quanto l'impossibilità di perpetrarlo concretamente. Non per nulla, il crimine sessuale viene sempre evocato ma mai raccontato in termini espliciti, quasi che dall'impotenza del gangster discenda un limite espressivo con cui lo scrittore deve fare i conti. Un limite che egli non può superare ma solo aggirare: l'orrore indicibile non può essere detto se non con protesi letterarie, immagini che alludono a ciò che non si può o non si deve vedere. Popeye viene così costantemente colto nel gesto di accendersi una sigaretta che poi lascia pendere dalle sue labbra come il patetico simulacro di un'erezione. E in più di una circostanza, Faulkner si sofferma sulla bocca aperta di Temple, «una piccola cavità vuota» che rimanda inevitabilmente all'altra cavità che la ragazza ha tra le gambe. 
Tutto diventa simbolico in Santuario ma non per volontà dell'autore. «Uno scrittore è troppo preoccupato di creare personaggi in carne e ossa che stiano in piedi per aver tempo di rendersi conto di tutto il simbolismo che può aver messo in ciò che ha scritto» diceva Faulkner. In altre parole, se tutto diventa simbolico è solo per una sorta di predestinazione. Gli stessi personaggi agiscono e subiscono come se la loro coscienza si lasciasse stancamente andare alla deriva. Più che persone, vengono mostrati come corpi. Corpi che fanno cose, corpi che vengono violati, corpi vivi e corpi morti. In più di una circostanza, la loro presenza di spirito pare ridotta a un lumicino, non brilla più del mozzicone di una sigaretta. 
La massa gravitazionale attorno cui ruotano queste pallide luci è un vuoto, la bocca di Temple, il cui giovane corpo sembra condannato a ruotare sul proprio asse, ad accartocciarsi in se stesso, a rigirasi nel letto, a piroettare in una sala da ballo. Quando non ruota come una trottola la fanciulla se ne sta «floscia in un angolo». 
La critica si è domandata quale sia il simbolo supremo ovvero a cosa alluda il titolo del romanzo. La risposta più facile, visto il nome che porta, è che il santuario sia Temple, nella fattispecie il suo corpo in quanto tempio di una purezza profanata. Ma non è la sola ipotesi. Anche il tribunale, scritto con la T maiuscola, è in fondo un tempio profanato visto che condannerà un innocente e ne consentirà il linciaggio. Ma potrebbe pure essere la fabbrica clandestina di alcol dove Temple viene violentata, oppure il bordello nel quale Popeye conduce la ragazza dopo lo stupro, o l'impettito bigottismo della gente perbene. Perfino l'avvocato Horace Benbow, che cercherà di salvare l'innocente senza successo - altro buon esempio di impotenza - cova desideri incestuosi verso la sorella e la figliastra.

Nonostante le premesse
È più probabile, però, che il santuario sia il vuoto simboleggiato dalla bocca perennemente aperta di Temple, un vuoto che inghiotte tutto, dalla purezza difesa con scarsa convinzione alla sua improbabile e patetica profanazione. Una piccola cavità vuota che ruota su stessa creando un vortice di caos dove, alla resa dei conti, il male trionfa e qualunque tentativo di fare ordine e giustizia, e finanche di raccontare, non è che una misera pannocchia. Anche il cielo - ulteriore ed estremo simbolo di un santuario teoricamente troppo in alto per non essere al riparo dalle brutture di un mondo irrimediabilmente caotico - nelle righe finali del libro viene descritto «prono e vinto nell'abbraccio della stagione della pioggia e della morte». Ma nonostante lo snervante e impietoso pessimismo, malgrado non sia «un gran che, come idea, perché concepito unicamente allo scopo di far soldi», questo romanzo rimane comunque un santuario della letteratura, e Faulkner non è rimasto affatto quello della pannocchia bensì quello della grande, ineguagliabile penna. Anche se, forse, tra le due cose non c'è poi molta differenza. Tommaso Pincio

I Fantastici 4 e Silver Surfer visti da Valerio Evangelisti

«Volendo farmi del male, e riscattare con il mio sacrificio i peccati dell’umanità, ho deciso di vedere, dopo quella gran boiata de I fantastici 4, anche I fantastici 4 e Silver Surfer. Be’, devo dire che le mie intenzioni masochiste e salvifiche sono in parte andate deluse. Il secondo film è molto meglio del precedente. Più autoironico, più brioso e di una spettacolarità che, a tratti, impressiona davvero. Anche i caratteri sono meglio definiti. L’uomo che si allunga, quello di pietra, quello che brucia, la donna invisibile interagiscono brillantemente e si scambiano battute ben congegnate. E poi c’è il tristissimo Silver Surfer che – va ammesso – ha una sua solennità.
Ciò significa che il film esce dal novero delle boiate? Non esageriamo. C’è della spazzatura che si lascia guardare volentieri. Quella di Napoli, per esempio, a me piace. Sembra piena di cose interessanti, tutte da scoprire. Ecco cos’è I fantastici 4 e Silver Surfer. Spazzatura da esplorare, che non annoia. E da esplorare soprattutto per risolvere un mistero che sto per descrivere.

Tutto il film è intrecciato di storie d’amore. Prima però di indagarle, è bene riassumere la trama. Questo Silver Surfer è un soggetto che schizza fuori, su una tavola da surf, da un pianeta che sta esplodendo, e vola diritto verso la terra. E’ al servizio di un misterioso padrone, un agglomerato di materiali infuocati, rocciosi. terrosi e, si direbbe, persino catarrosi compressi in una palla enorme. L’aspetto è più o meno quello di un asteroide, ma il bolo deve avere una storia più complessa perché, sebbene non parli, è noto nell’universo col nome di Galactus. Dunque, da qualche parte ha forse una mamma e un papà.
Il perfido Galactus distrugge pianeti per divorare le energie degli abitanti, e Silver Surfer è il servitore che fa per lui. Infatti, giunto sulla terra, il surfista volante congela tutto quello che può, dalle piramidi al Tamigi, e scava grandi buchi un po’ qui e un po’ là. Conta, in questo modo, di fare a pezzi il nostro mondo.
Non aveva però fatto i conti con i Fantastici 4. Costoro, se nel primo film dichiaravano a ogni piè sospinto di volere l’anonimato, adesso campano della loro popolarità. Vendono gadget, accettano sponsorizzazioni. L’imminente matrimonio tra la donna invisibile e l’uomo che si allunga è l’evento dell’anno. Collegato a questo è il maggiore momento di suspense di tutto il film: quando Jessica Alba, in un sapiente crescendo di eventi casuali, scopre il futuro marito in una discoteca, impegnato in una festa di addio al celibato. La scena occupa una decina di minuti della pellicola, per fortuna alternati a quadretti in cui si vede Silver Surfer congelare in giro.
Proprio il surfista rovina le nozze della coppia, innevando e scassando tutto ciò che può. Per fortuna, i Fantastici 4 e l’esercito riescono a staccarlo dalla tavola su cui volteggia e a ridurlo all’impotenza, grazie a un’invenzione dell’uomo elastico. Costui infatti, come gli scienziati di certi romanzetti di fantascienza degli anni ’20 e ’30 (di Vargo Statten, Murray Leinster, ecc.), fa quattro o cinque invenzioni al giorno, una sola quando è costipato. Per tutto il film non fa che inventare congegni che servono alle necessità del momento. Naturalmente si tratta di ordigni semplici, tipo un’automobile volante capace di scindersi in due auto indipendenti, volanti anche loro a velocità supersoniche.
Ma la scoperta decisiva, che determinerà l’esito della vicenda, è “l’impulso di tachioni”, e il marchingegno atto a generarlo. Udita per caso la parola “impulso”, subito l’uomo elastico ha una folgorazione e concepisce l’applicazione del concetto ai tachioni. D’altra parte, è capitato più volte anche a me di pensare “qui ci vorrebbe un impulso di tachioni”. Immagino che prima o poi succeda un po’ a tutti.
Ma restiamo a Silver Surfer. Catturato, l’esercito americano lo sottopone a tortura “umanitaria” (e qui va lodata l’intenzione critica degli sceneggiatori). Jessica Alba si impietosisce e lo salva. Così veniamo a conoscere la triste storia del surfista, che distrugge mondi per amore. In realtà lui e buono, ma Galactus tiene in ostaggio la sua donna, e così lo costringe a operare il male. Jessica somiglia a colei che ama.
Con la trama mi fermo qua, per non rovinare al lettore ulteriori, molteplici sorprese (c’è anche un altro infido nemico). Tratto invece del mistero che è un po’ la chiave di tutto il film. Silver Surfer è completamente nudo. Mentre lo torturano, lo possiamo contemplare agevolmente tra le gambe. Non c’è nulla. Non c’è il pisello. Escluso che sia un angelo, è come Big Jim: tanto muscoloso in alto quanto asessuato in basso. Che la sua donna si sia consegnata a Galactus volontariamente?
Sembra un tema secondario, e invece è il filo conduttore sotterraneo di tutta la pellicola. All’inizio vediamo l’uomo di pietra amoreggiare con una ragazza nera bellissima. Non crediate che costei sia cieca. Sono abbastanza frequenti i casi di donne che si innamorano di un grosso sasso (la moglie di Clemente Mastella, per esempio, quella di Giuliano Ferrara, ecc.).
Fatto sta che l’uomo di fuoco – discotecaro dalle labbra curiosamente rosse, come se si truccasse – all’inizio del film chiede ironicamente all’uomo di pietra come lui e la sua bella consumeranno. La risposta del macigno al quesito che tutti ci poniamo è un bofonchio rabbioso. D’altra parte, si è già visto come l’uomo di fuoco si incendi spesso, da capo a piedi (e dunque anche “lì”), nei momenti più imprevisti. Forse è per questo che cambia amanti con tanta frequenza. Non sta tanto meglio dell’uomo di pietra, in ultima analisi.
Chi invece sembra passarsela bene è la donna invisibile, dato che l’uomo elastico può allungare ogni parte di sé quanto vuole. Certo che a volte si allunga troppo, contro la sua volontà. Neanche la condizione di Jessica è in fondo troppo felice. Prima o poi si troverà sventrata, ma per il momento se la gode. E’ comprensibile, comunque, il suo feeling con Silver Surfer, che problemi del genere non ne pone affatto. Del resto la donna del surfista, che è sicuramente Barbie, difficilmente si dimostrerà gelosa.
La valutazione finale sul film è legata a una favola famosa: “L’uccello di fuoco” (quella del balletto di Stravinskij). Meglio guardarsi dagli uccelli di fuoco che, nella celebre storia, si tramutano in uccelli di pietra. Peggio ancora se si tratta di due uccelli distinti, uno di fuoco e l’altro di pietra.
Accettabili, in via transitoria, gli uccelli elastici. Passabili in senso platonico Silver Surfer e Galactus, se si è in preda a un “impulso di tachioni”.
Da cui si perviene all’espressione che circola fra gli scienziati, valida per l’intera pellicola: “che due tachioni”». (Valerio Evangelisti per la rivista Robot)