«Era una domenica mattina, la temperatura insolitamente
mite per dicembre. Un gruppo di musicisti sedeva sul bordo
del marciapiede di fronte a una pensione di Des Moines,
in Iowa.
Des Moines era una tappa di quello che all’epoca era
noto come il Circuito Balaban e Katz. Negli anni Trenta,
inserirsi nei vari circuiti spettacolistici era per un musicista
la maniera di vedere tante città, tanti panorami diversi. Il
Circuito Balaban e Katz, per esempio, partiva da Kansas
City e saliva fino a Lincoln, in Nebraska; poi a Omaha; di
lì a Des Moines, quindi a nord verso Minneapolis e St.
Paul; poi scendeva di nuovo a sud passando per Madison,
in Wisconsin, e per Milwaukee, per arrivare a Chicago,
quindi a Springfield, nell’Illinois, a St. Louis, e, dopo un
passaggio a Jefferson City in Missouri, di nuovo a Kansas
City. In quel girovagare se ne sentivano di musiche e anche
di parlate; e insieme a quelle, si incontravano tante donne.
Il rischio c’era, sempre, ma era l’avventura che valeva bene
tutti quei chilometri e quella fatica. Una volta sceso da quei
vagoni, ti stiracchiavi, se c’era tempo ti tiravi un po’ a lucido,
poi, con comodo, raggiungevi la sala da ballo, montavi
lo strumento, sistemavi la sedia pieghevole di legno, tiravi
fuori gli spartiti, ti accordavi, ti rilassavi; arrivata l’ora, il
jazz si scatenava da te come un lampo, un puledro scarmigliato.
E a quel punto ti sentivi vivo; era allora che dal tuo
strumento sgorgavano fascino, grazia, audacia; era allora
che la tua mente riluceva come oro del Klondike.
Per uomini come quelli, come per tanti altri, Kansas City
era la Mecca. Era stata per anni una vera città aperta,
grazie alla predominanza dei gangster locali e al regime
corrotto istituito dal boss politico Tom Pendergast; e proprio
in quegli anni era diventata terreno propizio alla creatività
febbrile che si manifestava sulle pedane delle orchestre.
Nel 1941, però, Pendergast si era ormai visto confezionare
un bel completo a strisce e la vibrante aura notturna
di Kansas City era in declino. La musica ormai aveva
cominciato ad andarsene dalla città, prendendo a ovest, a
nord e a est insieme con i musicisti, i quali, a Kansas City,
non avevano mai conosciuto né la Depressione né la disoccupazione.
Dalla fine degli anni Venti e per tutti i Trenta
avevano potuto suonare, sfidarsi, fare baldoria a tutte le
ore del giorno e della notte. In quella città-miracolo del
jazz, i vari stili e lo swing venivano minati e scavati come
vene aurifere o pozzi petroliferi e, se non tutte le notti, di
certo con costanza sufficiente a permettere che lì il ritmo
venisse sottoposto a un trattamento diverso, meno uniforme,
a uno swing che aveva un carattere tutto sud-occidentale.
Con il suo battito pulsante riusciva a cantare, oltre
agli inviti, ai richiami, alle grida e ai lamenti della carne,
anche l’anima.»
Fulmini a Kansas CityL’ascesa di Charlie Parker
Stanley Crouch (Ed. Minimum Fax)
2 commenti:
Questo libro qui è nella mia lista già da un po'. Non credevo potesse interessarti un testo così tanto intriso di jazz, ma immagino che a solluccherarti il palato siano gli anni e le ambientazioni ;)
@Luigi ma a me il jazz piace parecchio, non credo di potermi definire un esperto ma ho sempre ascoltato Mingus, Davis e Brubeck come se piovesse... poi non dimentichiamo che il jazz nasce nelle piantagioni come lamento dei neri, e questo argomento è assai tangenziale a quel deep-south a stelle e strisce che adoro e che vado magnificando di continuo :-)))
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