Che siano falegnami sul set di un film porno, puntigliosi riparatori di macchine da scrivere, truffatori tossicodipendenti dallo sguardo pietoso, ragazzini costretti a crescere in fretta o sceneggiatori di successo finiti in un ospedale psichiatrico, i personaggi di questi otto racconti lottano per superare il trauma di un abbandono o di una violenza, per comprendere la deriva delle persone amate, per mantenere la propria umanità in un’America marginale e dolente, provinciale e uggiosa.
La scrittura accurata e potente di D’Ambrosio - autore schivo e poco prolifico, ma acclamato dalla critica americana come una delle rivelazioni degli ultimi anni - li riscatta, descrivendo l’insoddisfazione personale di ciascuno come qualcosa da cui smettere di fuggire, e regalandoci un capolavoro dal fascino oscuro dal quale, come ha scritto il Seattle Times, «è quasi impossibile staccare gli occhi».
«All’Istituto mi svegliavo presto, quando le suore ancora dor mivano, e me ne andavo al negozio del vecchio cinese. Il vecchio cinese era un uomo brunastro, nodoso e rattrappito che sembrava un pezzo di radice di zenzero e aveva uno di quei negozietti minuscoli che vendono pompelmi, vino e carta igienica e nessuno capisce mai come fanno i proprietari a camparci. Ma lui ci campava, si vede che aveva trovato un sistema. La sua vecchia moglie cinese era una donnetta esile come un ramoscello che se ne stava seduta su una sedia senza mai dire una parola. Lui parlava inglese solo quel tanto che bastava per mandare avanti gli affari, per dire buongiorno e buonasera, per dare il resto, anche se ogni mattina, quando andavo a comprare il mio pompelmo, cercavo di insegnargli qualche parola utile.»
Il museo dei pesci morti
Charles D'Ambrosio (Ed. Minimum Fax)
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