Tony Manero, opera seconda di Pablo Larrain, regista cileno poco più che trentenne, racconta senza trucchi né infingimenti la lacerazione di una terra stuprata dalla dittatura. Lo fa però in modo indiretto e trasversale, non accendendo i riflettori sulle grandi pedine della Storia ma preferendo piuttosto mettere a fuoco quella «banalità del male» che è l'humus su cui prolifera ogni tirannide. Omertà, indifferenza, vendetta ed egoismo sono le architravi su cui il regime di Pinochet ha saputo costruire il proprio consenso, e il cineasta ce le fotografa in maniera esemplare attraverso lo specchio deformante (e deformato) degli occhi chiusi/aperti di Raùl Peralta, un viscido signor nessuno ossessionato dal protagonista del famoso film con John Travolta che passa le sue giornate a imitarne passi e movenze in un night-club di periferia.
Sciatto e poco attraente, vestiti sporchi, loquela ridotta a meno dell'essenziale e una faccia perennemente inerte (i tratti di un Al Pacino in salsa sudamericana), quando qualcuno domanda a Raùl cosa fa nella vita, egli risponde sempre prontamente «questo!». Cioè rivivere all'infinito il suo personale trip de La Febbre del sabato sera. E basta. Raùl se ne frega di tutto il resto, campa di espedienti in una periferia polverosa alle spalle di una barista in età nel cui retrobottega prova interminabilmente i passi del suo eroe, scopa chiunque gli capiti a tiro - ma spesso senza riuscire ad avere un'erezione degna - e arriva a uccidere e rubare pur d'impedire al suo personalissimo sogno di deragliare.
La pellicola, pluripremiata in tutto il mondo (anche a Torino, nel 2009), è un pugno allo stomaco d'insolita sgradevolezza per lo spettatore, e non soltanto in virtù del contesto ambientale e sociale che descrive con grande efficacia, né tantomeno per la tecnica di ripresa sperimentale (con uso insistito della camera a mano), ma grazie soprattutto all’indigeribilità dello stesso personaggio principale: Alfredo Castro è insuperabile nell'impersonare uno squallido ominicchio che procede nel suo destino di alienazione mosso solo dalla consapevolezza che nella Santiago senza cielo in cui è imprigionato egli non può che essere Tony Manero, ovvero l’unica speranza di sopravvivenza in un presente cupo e senza futuro. L’unico modo è essere il dio (che veste di) bianco Tony Manero, perché nell'inferno condiviso della dittatura, questo significa vita. E morte a chiunque si frapponga tra Raúl e le sue assurde pretese di clonazione del mito. Morte a chi osa, come il proiezionista del cinema in cui vede e rivede il suo idolo, cambiare film in programmazione e, peggio, dissociare John Travolta dal suo unico alter ego. Morte per chi possiede un televisore a colori, un pezzo di vetro colorato, un po' di denaro da trafugare. Turpe e allucinato nell'inflessibilità con cui persegue il suo sogno da poco, il protagonista del film diventa epitome del destino di un intero paese perduto, affondato nel buio più nero.
La pellicola, pluripremiata in tutto il mondo (anche a Torino, nel 2009), è un pugno allo stomaco d'insolita sgradevolezza per lo spettatore, e non soltanto in virtù del contesto ambientale e sociale che descrive con grande efficacia, né tantomeno per la tecnica di ripresa sperimentale (con uso insistito della camera a mano), ma grazie soprattutto all’indigeribilità dello stesso personaggio principale: Alfredo Castro è insuperabile nell'impersonare uno squallido ominicchio che procede nel suo destino di alienazione mosso solo dalla consapevolezza che nella Santiago senza cielo in cui è imprigionato egli non può che essere Tony Manero, ovvero l’unica speranza di sopravvivenza in un presente cupo e senza futuro. L’unico modo è essere il dio (che veste di) bianco Tony Manero, perché nell'inferno condiviso della dittatura, questo significa vita. E morte a chiunque si frapponga tra Raúl e le sue assurde pretese di clonazione del mito. Morte a chi osa, come il proiezionista del cinema in cui vede e rivede il suo idolo, cambiare film in programmazione e, peggio, dissociare John Travolta dal suo unico alter ego. Morte per chi possiede un televisore a colori, un pezzo di vetro colorato, un po' di denaro da trafugare. Turpe e allucinato nell'inflessibilità con cui persegue il suo sogno da poco, il protagonista del film diventa epitome del destino di un intero paese perduto, affondato nel buio più nero.
Difficile dimenticare la perfezione del finale, un redde rationem che deflagra a tradimento durante una gara televisiva per il sosia ufficiale di Manero. Larrain indugia - con chirurgica crudeltà - sulle speranze di Raúl prima di infrangerle definitivamente, con l’espediente dell’esito incerto del voto, della ripetizione degli applausi. Dunque la sospensione nello sguardo che, alla scelta dell’avversario più giovane, si trasforma in una vuota maschera paralizzata dallo sgomento. Maschera che non si scioglie durante il desolante viaggio di ritorno. Un film disturbante, spettacolare e inestimabile. Astenersi animi delicati. Voto 10.
2 commenti:
Film immenso, meraviglioso, indimenticabile. Ero in sala al Torino Film Festival (dove poi trionfò)quando fu proiettato. Castro è un grande attore. Qualcuno si è accorto che era uno dei protagonisti di "E' stato il figlio" di daniele Ciprì?
Ma dai? Era nel film di Ciprì? (io non l'ho visto ma mi fa piacere che Castro abbia lavorato in Italia;-))
Posta un commento