Fa davvero piacere constatare che il tacco della nostra penisola, a più di un quindicennio dalla prima pubblicazione dell'antologia Sporco al sole (Besa) che diede la stura ad uno scoppiettante movimento letterario autoctono e portò a battesimo molti degli scrittori di maggiore successo odierno, non abbia perso una sola oncia della sua poliedrica vivacità.
Eva Clesis è sicuramente - ultima arrivata solo in termini cronologici - tra gli esponenti più validi e rappresentativi di quella ondata composita di narratori che dal meridione sta contribuendo a propalare in tutto il paese un'idea innovativa e al contempo atavica della scrittura: il suo recentissimo Parole sante (pubblicato da Perdisa, meritoria casa editrice bolognese che non più tardi di pochi mesi ha saputo accogliere tra le sue fila anche Giuseppe Merico, altro baluardo di questa eccezionale nouvelle vague terrona) è un libro speziato e appassionante, che unisce ad una visione del sud solida e potente un'indubbia capacità di raccontare storie fuori dagli schemi, arrivando a regalarci un romanzo deliziosamente in bilico tra noir e commedia. Facendo ricorso a una griglia di marcati colori southern, l'autrice barese ci conduce a scoprire gli intrighi e i misfatti della provincia più cupa: siamo a Comasia, un immaginario paesino del Salento in cui vivono Lina Magnano, superstiziosissima vedova ammaliata dalla religione, e suo figlio Santo, affetto dallo stesso morbo che colpì il musicista Beethoven. Madre e figlio sono gli eredi di un'importante e una volta danarosa famiglia del luogo. A loro restano oggi una grande casa, Villa Magnano, e le terre che la circondano: beni considerevoli che ora la donna vorrebbe barattare con la salvezza dell’anima, donandoli alla Chiesa nonostante l’ostilità del figlio. Nessuno è però al corrente che don Felice, fidatissimo parroco che si accompagna a un sagrestano tocco e violento, ha un piano segreto circa i possedimenti dei Magnano. E la faccenda si complica quando alla villa arriva come domestica l'ucraina Viorica, dando luogo a una concatenazione di eventi che trasformerà il tranquillo paesino del sud in un sanguinoso teatro di misfatti.
Con una leggerezza che è pura apparenza, la Clesis allestisce una tragedia coi vestiti della farsa, si mette alle calcagna dei suoi personaggi costringendoci a seguirne i piani passo dopo passo, in una costruzione narrativa che incalza il lettore tra macchinazioni, desideri nascosti e perfidie intrise d'indicibile razzismo. Che bello, ancora una volta un libro robusto in grado di squarciare il velo della provincia più negletta per esibirla in tutta la sua depravazione!
Abbiamo scambiato due parole con l'autrice.
In questi anni hai lavorato parecchio sulla tua scrittura. Ricordo i tuoi esordi e mi sembrava stessi cercando una tua voce, operazione che mi pare abbia trovato definitiva messa a fuoco con questo tuo ultimo ed efficace parto. Quanto lavoro c'è dietro Parole sante, e dove hai pescato l'ispirazione per una Puglia finalmente scevra dall'oleografia di matrice turistica che la attanaglia?
Parole sante nasce nel 2010, mi ha preso un anno di lavoro nella prima stesura, più lunga della definitiva di una quarantina di pagine.
Proponendolo alle prime case editrici ho raccolto quattro o cinque opinioni secondo cui il romanzo era promettente ma un po’ lungo. Bastava questo a lasciar perdere per loro, certo non per me. Lavorando di fino, ho creato una seconda stesura in pochi mesi e l’ho presentata all’editore attuale. Quindi è stato un romanzo parecchio pensato e lavorato. Per quanto riguarda la Puglia, ho lo sguardo disincantato di chi l’ha vissuta e la vede “venduta male” anche da un punto di vista turistico. La Puglia è la mia casa, ci sono nata e ti so dire i punti di luce e anche dove le piastrelle ballano.
Parliamo della lingua. Hai mescolato sapientemente una struttura classica, con ricorrente uso di metafore e similitudini, a un abbondante utilizzo del dialetto nei dialoghi tra i protagonisti. Il tutto corroborato da un umorismo talvolta un po' crudele, che personalmente ho amato trovandolo molto femminile (ma anche, non dimentichiamolo, molto meridionale). Non hai avuto timore di essere fraintesa o non capita al di là dei confini regionali?
Da barese mi è toccato studiare per mesi il dialetto salentino: dizionari, racconti, studi di dialettologi, ma anche testi musicali e forum, pur essendo appassionata di filologia a un certo punto mi scoppiava la testa. Mentre a Bari il dialetto si “italianizza”, per descrivere il Salento un po’ di sano idioma ci voleva, o non sarei riuscita a caratterizzarlo. Nei dialoghi soprattutto, mantenere la verosimiglianza era fondamentale; ho cercato di mediare, tenendo presente le esigenze dei lettori, e scegliendo un vocabolario che, affiancato ai termini in italiano, poteva essere riconosciuto senza appesantire la lettura.
Come sei arrivata nel catalogo di Perdisa? Hai trovato appoggio sin da subito sull'utilizzo di una lingua meticciata col vernacolo oppure hai dovuto importi?
Sono orgogliosa di aver pubblicato con Perdisa. Ci siamo trovati e questo per me è raro. Come autore sono in difficoltà a proporre un mio testo, quasi mi sentissi in dovere di “venderlo” all’editore e non fossi in grado di farlo. Arrivata alla seconda stesura di Parole sante, ho puntato subito a Perdisa: ha un catalogo interessante, fa un discorso di qualità e investe sull’autore. Non a caso poco prima di me aveva pubblicato Giuseppe Merico, che seguivo già dal suo esordio. Sull’uso del vernacolo non ci sono stati problemi, e in generale con il direttore di collana Antonio Paolacci ci siamo intesi subito, senza reciproche imposizioni.
Il romanzo colpisce per la compattezza. Ogni parola è calibrata e regolata in funzione della vicenda corale che volevi raccontare: quanto esercizio dedichi alla scrittura e come si arriva a mettere da parte ogni pulsione egoica per "raccontare" una storia?
Molto dipende dalla storia. Per me lo stile è tutto, ma non deve pesare sulla trama. Parole sante aveva un intreccio che da un rigo di idea si sviluppava in modo robusto. Non potevo cavarmela con una scrittura disinvolta, dovevo essere verosimile senza dilungarmi. In generale scrivo ogni giorno, tantissimo, poi butto molto. Non so cosa sia la pulsione egoica, mi compiaccio poco, non sono mai contenta. Ho romanzi iniziati e sacrificati o lasciati a metà o rimasti a due terzi. Racconti lunghi che ho scritto sapendo che difficilmente avrebbero trovato luce editoriale. Sacrifico ogni frase bella che mi appare insensata, non riciclo mai nulla, non sono conservativa, voglio la libertà e cerco un senso. Vado a tentoni, mi avvilisco e mi riorganizzo. Questo è l’unico allenamento che conosco, e un po’ diffido da chi mi dice di scrivere col bilancino.
Domanda di rito ma inevitabile: a cosa stai lavorando e cosa prospetta il futuro (ammesso di averne tutti uno: sono tempi assurdi, questi: tocchiamo ferro!) per Eva Clesis?
Adesso ho un romanzo breve, essenziale, sempre d’impostazione noir, da proporre alle case editrici. Poi ho scritto la prima stesura di un romanzo con un detective per protagonista, una storia che mi attira e che s’ispira agli hard-boiled di cui sono fanatica. E infine ho un terzo progetto per un romanzo ambizioso, ma ci vorrà un altro anno almeno per finirlo e aspetto che mi faccia innamorare. Per ora ci guardiamo in cagnesco, l’ho lasciato a raffreddarsi, ma lui si sbraccia nella mia mente e mi prega di tornare. Sarò ciò che scrivo. Futuri editoriali e ipotetiche fortune non le posso prevedere, hanno logiche che non capisco, per cui non ci penso. Vedremo.
5 commenti:
Puglia per sempre! (Leggeremo, leggeremo... Grazie della segnalazione)
A.
cara A. facci sapere poi, eh? :-)
sembra bello, bisognerà approfondire :)
PIPPO
@Pippo, approfondisci approfondisci, il libro di Eva è molto bello! (diffondete)
Perdisa pubblica sempre robe interessanti...
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