«Eccole. Impossibile non vederle. Da qualsiasi direzione si arrivi sono la prima cosa che intercetta lo sguardo. Te le trovi improvvisamente dinanzi nella loro maestosa, svettante ineluttabilità: gigantesche sputafuoco carenate in costante lavorio, draghi catafratti abbarbicati all’azzurrità di un cielo ormai irrimediabilmente ammalato. Sono le ciminiere dell’Ilva di Taranto, il più grande stabilimento siderurgico d’Europa, un sogno petrolchimico che nello zenit degli spumeggianti anni ’60, quando ancora si chiamava Italsider, regalò a quest’angolo di Mezzogiorno un ventaglio spropositato di nuove, concrete possibilità di sviluppo economico e che a circa mezzo secolo dal suo varo si è tramutato - indiscutibilmente - in una bomba ecologica sulla perenne soglia della deflagrazione finale.
Da tanti, troppi anni una graveolente cappa di veleni asfissia infatti il capoluogo di provincia pugliese. Un paese, Taranto, che ammaliò Strabone per la bontà dei suoi sapori, irretì Quinto Orazio Flacco nella sua quintessenziale eleganza ellenica e le cui fondamenta furono poste, secondo la leggenda, addirittura da Taras, figlio di Poseidone dio del mare e della ninfa Satyria. Oggi lo splendore millenario di queste terre incantevoli è un ricordo appannato, un monumentale affresco al quale un turbine di malaffare e miopia politica ha progressivamente dilavato i colori mentre una nube perpetua di diossina ammanta le speranze, gli slanci e le prospettive per il futuro di chi in questo paradiso violentato ha la ventura di abitarci.
Ma Taranto è uno spazio proteiforme, è un pezzo di meridione eroico, ferace, greve di tutte le barbarie del mondo e al tempo stesso puro, innocente, tragico e imprevedibile come solo alcuni luoghi senza tempo del nostro Sud più arcaico sanno essere: situato nell’omonimo golfo sullo Ionio, culla della Magna Grecia e sino a pochi decenni orsono fiore all’occhiello della cantieristica navale italiana, quivi ancora persistono, celati nel dedalo di viuzze della Città Vecchia, nascosti tra le fragranze odorose di pesce e fatica del porto, spersi tra gli andirivieni della caratteristica Processione dei Misteri della Settimana Santa, i tratti di una identità «levantina» ancora viva e pulsante, inestimabile e, vivaddio, immortale. Sono pezzi di cuore che palpitano le belle, pietrose facce delle anziane «camasce» che animano i quartieri popolari, ancora nerovestite come nelle pagine di un saggio di Ernesto de Martino, affacciate da balconi ingombri di cespi di basilico dai quali file di panni stesi svolazzano garrendo simili a bandiere nello scirocco; e sono frammenti di un’umanità invincibile le frotte gioiose di scavezzacolli che, a dispetto della cupezza di una crisi occupazionale che non accenna ad allentare la morsa, affollano campetti di calcio improvvisati, ostinati spazi di agonismo ludico sottratto ai cumuli di rottami e cemento che assediano l’urbe. Nel Canale presieduto dai contrafforti del Castello Aragonese, sull’uscio dell’isola artificiale sulla quale si snoda il borgo più antico dell’agglomerato urbano, il nylon d’una lenza tesa tra le mani di un pescatore a bordo d’una bagnarola lancia argentei barbagli che frangono la malinconia limacciosa di un mare che una volta era grande, immenso, indomabile: il mare di Virgilio e dei poemi oggi spettinato da bave oleose di nafta mentre i draghi, sullo sfondo, non smettono di fumare e ruggire, esalando miasmi che offuscano senza requie la violacea fenditura dell’orizzonte.
Ma Taranto resiste. Taranto esiste...»
(il corriere nazionale ha chiesto a un cospicuo gruppo di penne nazionali di raccontare le città italiane: il titolare del blog ha accettato di descrivere Taranto per il quotidiano: scaricate l'immagine per leggere l'intero articolo)
5 commenti:
che bello.
Bello e intenso questo tuo modo di raccontare la città dei due mari, di rendere la complessità di questa metropoli di periferia bella e dannata.
Un punto di vista obliquo capace di farne percepire al lettore la ripugnanza e le – ancora numerose- tracce di bellezza.
Nella tua scrittura ho avvertito anche la voglia di capirne a fondo la realtà per cambiarla.
Conosco bene la Puglia ma a Taranto ci sono stata , solo per poche ore, da bambina e già allora ho avvertito un massacro di vita e di bellezza, l'odore acre e sgradevole, ma è rimasta latente e forte la voglia di ritornare. Forse il momento è arrivato. Taranto è ormai una città letteraria per eccellenza…altro che Ruggine americana!
Scusami per la mancanza di sintesi, Omar, e complimenti sinceri per questo bellissimo pezzo.
@grazie mille ragazze, ormai siete le groupie di questo blog :-))
(Annalisa: tra l'altro il film italiano "Ruggine" lo hanno girato proprio là, quindi la ruggine è arrivata, ahinoi)
Groupie a me non lo aveva mai detto nessuno :-P
(se posso, posso dire che questo articolo, per certi versi, mi ha ricordato un'estate assolata passata sul balcone e prendere il sole e a leggere "La dismissione"?)
@Annalisa: quaggiù so per certo che LA DISMISSIONE è uno dei libri che va per la maggiore tra i metalmeccanici (quelli acculturati almeno, che sono molti più di quanto uno immagina:-)
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