«Faccio mezzo passo indietro perché la luce mi schiarisca le occhiaie e l’ombra sotto il naso si assottigli fino a scomparire. Ecco. Così. Alzo la fotocamera digitale davanti allo stomaco e la punto contro lo specchio. Cerco l’inclinazione giusta, provo ad abbassarmi e spiare dal mirino tenendola a mezz’aria, sempre alla stessa altezza. Torno dritto, guardo negli occhi la mia immagine riflessa. Irrigidisco i muscoli, faccio lo sguardo da cattivo che mi dona e scatto tre volte. Almeno una verrà bene!
Vado nel mio studio e collego la fotocamera al computer. Stampo subito le foto e le confronto. Come previsto: due sono da buttare, quella buona è la seconda. Mi siedo. Sulla scrivania sono sparse tutte le foto che mi sono fatto, nudo davanti a uno specchio, ogni primo di gennaio da trent’anni in qua: dai quasi venti ai quasi cinquanta, dunque, perché il mio compleanno cade il 19.
Lancio appena un’occhiata distratta alla faccia del ragazzotto che sono stato all’inizio, magro magro, con i capelli prima a cespuglio e poi ondulati. Dietro la foto c’è scritto: “Livio Aragona, 1 gennaio 1979“. Drammatico cambio di pettinatura dai ventiquattro ai venticinque: compare un caschetto ridicolo che sembra appoggiato sopra un teschio. Gli occhi sempre nerissimi, liquidi. I muscoli si gonfiano e i capelli si afflosciano man mano che le foto si arrampicano verso i trent’anni, ma l’impressione generale migliora.
Scompaiono quelle gote scarnificate, i lineamenti si arrotondano, la mascella più quadrata, le labbra sottili e piene di scherno per me stesso. A quota trentaquattro il cambiamento decisivo: capelli rasi stile marine. Non proprio a zero, ma un tappeto di crine alto non più di un centimetro. Le spalle, così, sembrano più larghe, i pettorali inspessiti dalle flessioni che facevo ogni giorno e che adesso ho ridotto a tre sessioni la settimana - ma i manubri con i dischi di ghisa scrostati sono sempre quelli, perché da sole le flessioni servono a poco.»
L'esordiente - Raul Montanari (Ed. Baldini & Castoldi)
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