Danny Boyle, premio oscar nel 2009 per The Millionaire, assurse alla ribalta nell'ormai lontano 1996 con quel grande film che era (e senza dubbio è ancora) Trainspotting. In seguito ha commesso alcuni inevitabili passi falsi, ma la qualità del suo lavoro è rimasta sempre altissima raggiungendo in taluni casi punte d'indubbio splendore - come ad esempio con la fantascienza intrisa di filosofia di Sunshine (2007) e, in misura solo un filino minore, col truculento e zombesco 28 giorni dopo (2002). L'ultima pellicola del cineasta britannico s'intitola 127 Hours, concorre nuovamente alla prestigiosa statuetta con un gruzzolo di ben sei nomination e conferma l'assoluta versatilità di un artista sempre originale e imprevedibile: il film, infatti, racconta l’incredibile storia (vera) dell’alpinista Aron Ralson, interpretato da James Franco, che rimase intrappolato tra le falde rocciose d'un canyon nello Utah e sopravvisse segandosi con un coltellino (dopo ben 127 ore, appunto!) l'arto maciullato sotto una gigantesca pietra.
Boyle affronta il carico di toccante immedesimazione insito nella vicenda con la consueta, superlativa capacità di stupefazione visiva: propone infatti l’esperienza estrema di Ralston con i ralenti, gli split-screen e i fast-forward, le soggettive impensabili e i raddoppi di formato (la telecamerina, come nel suo amato/odiato The Beach) che sono consoni alla sua cifra, ma anche con un pudore e una lucidità di cui il successo lo aveva forse un po' derubato. E così, al ritmo di una colonna sonora indovinata e coinvolgente (il regista su questo versante l'ha sempre saputa lunga) lo spettatore empatizza sin dai primi istanti col protagonista, apprezzandone lo slancio vitale e il puro, egoistico amore per la libertà (qualcosa che, almeno a principio, riporta alla memoria l'Alex Supertramp di quell'altro gioiello che era Into The Wild), salvo assistere impotente alla sua caduta a strapiombo tra due pareti di roccia durante una delle rischiose e solitarie partite di climbing. Da lì in poi il film discende senza risparmiarci alcunché gli inferi della sete, della solitudine e della disperazione, con moderato (e intelligente) utilizzo di flashback nonché un sapiente ricorso ai sogni dello sventurato. Poi arriva il taglio: crudo, sanguinolento e definitivo. E la tensione sale alle stelle. L'intera architettura, va detto, si regge pressoché esclusivamente sulle doti di direzione attoriale di Boyle, cosicché il bravo Franco (era solo un bellimbusto in Spiderman, dopotutto) da sì una prova di talento riuscendo - col solo ausilio del primo piano - a costruire un personaggio intenso e irto di contraddizioni, va però sottolineato che è la peculiare struttura narrativa dell'opera a regalargli il centro assoluto della scena per cui il dominio dell'attore appare incontrastato quasi per dovere di script. Al termine di un’esperienza cinematografica sinceramente potente, si perdona pertanto all'autore un finalino forse troppo telefonato (anche se veder comparire il vero Ralstom col suo moncherino produce un discreto pugno nello stomaco). Emozionante.
2 commenti:
Trovo che i film di Boyle si portino sempre addosso il peso di essere dei film di Boyle.
Il suo stile è così, prendere o lasciare: per me, come tutte le sue produzioni, anche 127 Hours soffre di mancanza di equilibrio, è "troppo" in tutto.
Beninteso, averne di film così. Però non mi ha lasciato granché, ci sono passato sopra volentieri, ma niente più.
@Ratto, in linea di massima hai ragione però questo film mi ha colpito parecchio, giuro (sarà che qualche volta nella vita mi sono sentito un po' anch'io così, bloccato sotto le rocce delle mie pippe mentali :-)
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