I giorni del cielo (1978) è un poderoso affresco dell’America agli inizi del ‘900, raccontata per mezzo di maestose inquadrature delle piantagioni di grano sulle note di un sempre suggestivo Ennio Morricone (un genio, si può aggiungere altro?). Secondo lungometraggio di Terence Malick, autore anche della sceneggiatura, il film conquistò il premio alla regia a Cannes e l'Oscar per la migliore fotografia. Il regista (proveniente come Kubrick dalla fotografia e come lui in seguito diventato una sorta di leggenda tra i cinefili) porta sullo schermo la stessa percezione profonda del paesaggio e della fatalità che animava il suo lavoro d'esordio: La rabbia giovane. Linda (Linda Manz), una ragazzina, fa da narratrice della storia, avvolgendo gli eventi di un tono epico e favolistico: nel 1916 suo fratello Bill (Richard Gere), un operaio ricercato per omicidio, si fa assumere con la sua ragazza, Abby (Brooke Adams), in una fattoria texana. Il proprietario (un intenso e nobile Sam Shepard), al quale la coppia ha fatto credere di essere fratelli, chiede ad Abby di sposarlo. Sobillata da Bill - che comprende i vantaggi della situazione - la ragazza accetta: ma il ménage a tre avrà esiti tragici e impensati. Il cinema di Malick, coi suoi spazi sconfinati e la sua ossessione per i dettagli, la sua sospensione fra cronaca e trasfigurazione fantastica (da brivido l'assedio delle locuste, reso per mezzo di immagini potenti e indimenticabili, quasi bibliche), non somiglia a quello di nessun altro, e i suoi personaggi fragili e disperati restano impressi a fuoco nella memoria. Shepard e Gere sono di una bellezza obiettivamente sconvolgente (il primo diventerà un grande drammaturgo, il secondo uno delle star più pagate di Hollywood) e nell'insieme lo scambio di emozioni contrastanti tra i quattro protagonisti della storia è vivo, pulsante ed estremamente affascinante. Una pellicola che toglie il fiato.
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