mercoledì 6 dicembre 2017

su ThrillerCafé...

È ormai uscito da qualche mese un nuovo romanzo di Omar Di Monopoli, il suo primo per Adelphi, Nella perfida terra di Dio. Non posso far altro che rammaricarmi e scusarmi per essere arrivato così tardi nel segnalarvelo, ma più che in ogni altro caso da anni, ho sentito l’esigenza di distanziarmi dall’opera e dall’autore, per verificare se i miei entusiasmi fossero in grado di durare nel tempo.
I miei entusiasmi hanno retto a ogni critica razionale che ho cercato di opporre, hanno passato indenni una rilettura, e hanno superato ogni esame pseudo-oggettivo che ho sentito come dovuto: posso quindi ora dirvi che Nella perfida terra di Dio è il migliore romanzo italiano che il sottoscritto abbia letto nel 2017, non soltanto per quanto riguarda il genere che caratterizza, informa e interessa Thriller Café ma anche per quanto concerne il cosiddetto “mainstream”.
Odio il termine “migliore”: sa di competizione, di gara, di vincitori glorificati e coperti d’oro e vinti che annaspano fra fango e polvere, tutte cose che non mi appartengono, ma credo anche che ci siano termini più adatti di altri a comunicare con la maggior parte dei lettori, che ben probabilmente non la pensa come me, e “migliore” funziona.
Quindi sì, Nella perfida terra di Dio è quanto di meglio io abbia letto da un italiano in quest’anno. Ho atteso però troppo a scriverne, facendomi scrupoli assurdi, e arrivo ora in totale ritardo, in un’epoca nella quale se non si parla di un romanzo nel mese della sua uscita si ha la sensazione di aver perso definitivamente il treno.
Seguo Omar Di Monopoli  dai suoi esordi in casa Isbn (Uomini e cani, Ferro e fuoco, La legge di Fonzi: ammetto però di non aver ancora letto i racconti contenuti in Aspettati l’inferno, rimedierò), ma non ero e non potevo comunque essere preparato di fronte a questo salto di qualità che, senza nulla togliere a Isbn, coincide con il passaggio all’amata Adelphi.
Parlare di salto di qualità spinge a pensare che Di Monopoli, nelle prove precedenti, fosse “immaturo”: nulla di più falso, era già spanne sopra a larghissima parte degli autori italiani “di genere” (e su questa definizione torneremo più avanti), ha sempre saputo con precisione cosa stesse facendo, e semmai era rimasto troppo a lungo confinato nella pur volonterosa ma limitata e limitante avventura editoriale di Massimo Coppola & Co.
Ma il passaggio a quella che ritengo la più significativa, importante e interessante casa editrice del Paese, forse complice un lavoro di editing più accurato e partecipe (e sarebbe interessante parlarne con l’autore), ha comportato un perfezionamento fuori scala, di quelli che di solito richiedono almeno un decennio di lavoro intenso; un percorso laborioso, studiato, torturante ed esigente; una riflessione su scrittura, narrativa e letteratura che molti autori non sperimentano in tutta una vita.
A questo punto servirebbe un mio riassunto della “trama” di Nella perfida terra di Dio: per introdurvi al romanzo e procedere quindi a spiegarvi perché sia rimasto così mesmerizzato, di più, come sia rimasto come quegli animali che attraversano strade in mezzo ai boschi, nottetempo, e rimangono a fissare i fanali della macchina che li investe, senza muoversi, quando basterebbe uno scarto laterale per evitare l’impatto.
Non so voi, ma io sono stanco delle “trame”: ne scrivo quasi ogni giorno, qui e in altre parti, cerco di variare e riformulare, ma più rimesto e più sembra di rigirare e risistemare un corpo morto. In più la trama, o se vogliamo “la storia” di Nella perfida terra di Dio non è nulla di speciale, ed è questo uno dei tanti aspetti straordinari di questo capolavoro: aver preso una ordinaria narrazione criminale e averla trasformata, operando con vocabolario unico (non ne trovate di altri simili fra gli italiani viventi) e grande varietà di registri, fino a tramutarla alchemicamente in oro epico.
Quindi, solo per questa volta e anche perché Adelphi è in gamba in ogni settore e dettaglio e di conseguenza anche nello scrivere sinossi e risvolti, non farò altro che riportarvi quanto scritto sul sito e sul volume della casa editrice: da lì ripartiremo per alcune considerazioni aggiuntive.
Da tempo, al nome di Omar Di Monopoli  ne sono stati accostati alcuni altri di un certo peso: da Sam Peckinpah a Quentin Tarantino, da William Faulkner a Flannery O’Connor. Per le sue storie sono state create inedite categorie critiche: si è parlato di western pugliese, di verismo immaginifico, di neorealismo in versione splatter. Nonché, com’è ovvio, di noir mediterraneo. Questo nuovo romanzo conferma pienamente il talento dello scrittore salentino – e va oltre. Qui infatti, per raccontare una vicenda gremita di eventi e personaggi (un vecchio pescatore riciclatosi in profeta, santone e taumaturgo dopo una visione apocalittica, un malavitoso in cerca di vendetta, due ragazzini, i suoi figli, che odiano il padre perché convinti che sia stato lui a uccidere la madre, una badessa rapace votata soprattutto ad affari loschi, alcuni boss dediti al traffico di stupefacenti e di rifiuti tossici, due donne segnate da un destino tragico, e sullo sfondo un coro di paesani, di scagnozzi, di monache), Omar Di Monopoli  ricorre a una lingua ancora più efficace, più densa e sinuosa che nei romanzi precedenti, riuscendo a congegnare con abilità fenomenale sequenze forti, grottesche e truculente in un magistrale impasto di dialetto e italiano letterario – sino a farla diventare, questa lingua, la vera protagonista del libro.
È un risvolto di copertina perfetto e, se fossi più furbo e/o saggio, mi fermerei qui: dice tutto quel che occorre sapere: correte a comprarlo, fate e fatevi un perfetto regalo di Natale e via, a posto, chiudo il pezzo e siamo tutti contenti.
Ma no.
Molte delle recensioni che ho letto riguardanti Nella perfida terra di Dio rimasticano, ruminano e risputano più o meno il risvolto che vi ho citato. Ma non perché i vari critici e blogger siano pigri, incapaci o altro, quanto perché è quel che c’è da dire, è l’essenziale e sono idee che vengono in testa a chiunque mentre si legge Omar Di Monopoli  i riferimenti sono corretti, i nomi sono quelli giusti, le coordinate perfette e c’è ben poco da aggiungere. Quindi, secondo il less is more, quel che vi dirò aggiungerà ben poco. Flannery O’Connor, su tutti, illumina alcuni personaggi di Omar Di Monopoli   il vecchio pescatore in primis. E non è impresa da poco impiegare con saggezza una delle scrittrici più straordinarie di sempre, anche perché in questo romanzo, che ne cita il nome nel titolo, il Dio tanto caro e tanto temuto dall’autrice di Savannah è assente, non risponde a nessuna chiamata, terrena o meno, non riserva neanche uno sguardo, pietoso o infuriato a seconda del Testamento di preferenza, alle insane formiche che si affannano, errano e tribolano nel torrido e tossico deserto salentino.
Lo dice persino un personaggio del romanzo: «Dio non c’è. Siamo soli. Viviamo come capita e poi tutto finisce. Non c’è altro». Che è poi frase che credo sia difficile da digerire persino per gli scienziati più cinici. «Viviamo come capita» lascia così poco spazio alla volontà, alla decisione, ai programmi, alla speranza, ai patti e promesse, agli amori e amicizie, mette fuori gioco persino il fato, infine non lascia molto spazio o scampo all’individuo. Sa di inciampo, di brancolio e brancichio, sa di dadi gettati con noncuranza e disperazione, in un vicolo di periferia, e poco importa del risultato, tanto domani è la stessa storia, e dopodomani ancora, una fabbrica continua e spietata nella quale conta solo il gesto ripetuto e meccanico di gettarli, quei dadi.
Non so se Dio non ci sia o se semplicemente si rifiuti di rispondere, ma al suo posto troviamo un forte misticismo, e non solo nel pescatore. Il misticismo, mi è sempre sembrato, si accompagna benissimo al sole, ne ha bisogno come le piante, prospera nei deserti più infuocati e salati. E spesso la Puglia di questo autore è un deserto, abitato da scheletri e inondato da un sole che è difficile immaginare qui a Milano. Un sole che fa impazzire tutti, senza scampo, chi in un modo, chi nell’altro.
Una landa inquinata, che esala stasi, il peggior veleno; un cimitero dove non vanno a morire elefanti ma carcasse di automobili, sogni e altra immondizia assortita e, spiace per qualche cantautore, non è che da questi escrementi riescano a nascere poi tanti fiori, appena spuntano il sole li avvilisce e avvizzisce. Nasce violenza, quella sì, nasce incapacità di comunicare e, di conseguenza, di amare, nasce il gesto fisico come unico verbo, come sola diplomazia e compromesso, come esclusivo metodo di scambio e di socializzazione, come soluzione a ogni problema e conflitto, come scelta identitaria.
Quel che il risvolto Adelphi non trasmette compiutamente, forse, è come e quanto i nomi citati, le influenze segnalate, si fondano; quanto il metabolismo intellettuale e culturale di Omar Di Monopoli  sia fluido e capace, possente, in grado di scomporre anche l’ultima proteina nell’amminoacido alfabetico che gli necessita. Tutti quegli autori ci sono, e altri in più (Gadda? Bufalino? D’Arrigo? True Detective? McCarthy?) ma sono assimilati alla perfezione, digeriti e ridistribuiti e non li vedrete mai spuntare in modo “riconoscibile”, non avvertirete mai nessun debole quanto arrogante copia e incolla, non individuerete il copyright, non potrete giocare al noioso e vanesio “scova la citazione” per primeggiare in classe.
Merito della passione, dell’amore, della fatica e del lavoro dell’autore, che ha troppo rispetto per omaggiare male, così, tanto per flettere i muscoli.
C’è tanto cinema statunitense nel far east salentino di Omar Di Monopoli, ma è come se non trovassimo traccia né degli USA né della Puglia: è un altrove perfettamente definito, totalmente credibile, dettagliatamente verosimile, ma spostato di un impercettibile millimetro dal reale, lo noti alla periferia della visione ma quando ti volti per afferrarlo è già altrove.
Forse è una fortuna per il sottoscritto arrivare ultimo a cantare le lodi di Di Monopoli, così posso pavoneggiare nel cortile, tanto per rimanere attaccati a una bestia cara alla O’Connor, e dire che l’autore, fra molto cinema e tv, ha anche anticipato qualche fetta di Godless, ma con un controllo che gli autori netflixiani si sognano.
Il risultato finale è un altrove perfettamente credibile, anzi, un altroquando allucinato, che rimbalza fra oggi e ieri, facendoti capire che non esiste speranza in un domani. Il sole, se non ti getta nel misticismo, è facile che ti spinga alla follia, all’allucinazione, al gesto esagerato, ampio, largo, forte, veloce, rabbioso: che è poi quello che ti aspetti ogni secondo da molti dei personaggi di questo romanzo.
Ci sono due cose che sopporto con molta fatica quando mi occupo di narrativa di genere, per questo o altri siti. Da un lato c’è la logora, usuratissima tiritera del giallo-noir che “è specchio dei tempi e della società italiana”. Dall’altro lato, la caprina-caprona questione della letteratura alta “contro” la letteratura pop/di genere.
Deve essere brutto guardare al mondo e vedere solo bianchi e neri, risibile ma radicata dicotomia. Forse è come quando stavamo all’asilo e disegnavamo l’arcobaleno in sette colori, ben staccati e confinati, tutto a posto nella sua casella, e un colore ha ben poco a che fare con l’altro.
O forse non è brutto: forse è rassicurante vedere il mondo così, e di sicuro aiuta a costruirsi un pezzo d’identità che crediamo precisa e immutabile, ci dona “tradizioni”, appartenenza a qualche gruppo, che significa poi sempre scegliere di non appartenere alla maggioranza degli altri, di gruppi, così come aiuta il libraio a mettere i volumi negli scaffali “giusti” e il consumatore a consumare “giusto”, senza errare e vagabondare e mangiare (per caso! Non sia mai! Fuori controllo!) un colore sbagliato. Pare che a molti non rimanga altro che il consumo come scelta etica e identitaria, e che sia difficile consumare in modo curioso e variegato.
Io però vedo solo sfumature, non mi accorgo esattamente di quando passo dal giallo all’arancio: una delle cose che più amavo, quando lavoravo come commesso in un negozio di candele, era prendere questo “coso” che avevamo sotto il banco, questo insieme di pantoni (o è un solo pantone?) e scorrere le varie sfumature, erano tantissime, quel coso era molto spesso. Non ti accorgi di passare da letteratura bassa ad alta, da genere a mainstream, da innovazione a classico, sebbene esistano tutti.
Omar Di Monopoli riesce a compiere questo miracolo: lo leggi e non sai se sei dentro una narrazione criminale o altro, non sai se questa Puglia iperreale e ultradimensionale rispecchi i problemi della Puglia “vera” o meno, se quanto è narrato stia avvenendo oggi o ieri. E allo stesso tempo le sai tutte, queste cose.
E l’autore non fa altro che ripetere in piccolo la grande azione della sua casa editrice, che pubblica Ian Fleming accanto ai miei amatissimi Vladimir Nabokov e Milan Kundera, in un arcobaleno che vortica troppo velocemente per permettervi di segnare confini: tanto i confini son sempre squallidi e bugiardi, non state a tracciare rigacce inutili. Deve essere una sensazione magnifica stare in scuderia accanto a questi maestri, chissà che soddisfazione! Ci sarebbe, infine, da affrontare la questione della lingua, del vocabolario impiegato in Nella perfida terra di Dio  Ma è tardi ed è troppo, per me. Molto semplicemente: non sono dotato dei mezzi culturali per affrontare la questione.
L’autore scava e rovista nell’italiano con pala e piccone che non so dove abbia trovato e che darei un braccio per averli anche io, strumenti tanto possenti violenti quanto delicati e chirurgici che rivelano incessanti vene preziose di termini.
Di Monopoli fa brillare dinamite nella cava della nostra lingua e trova molto più materiale, qualitativamente e quantitativamente, di quel che c’era prima dell’esplosione. Che, appunto, è miracolo impossibile ma, a quanto pare, solo improbabile.
Omar Di Monopoli  mi fa sentire analfabeta, posso dire questo.
Ma è un bene eh: quando ti senti analfabeta non vuoi rimanere tale e cominci a sbatterti, impari vocaboli, cerchi cose sul dizionario, ti stupisci, sei contento di apprendere.
Ecco, sì, “ti stupisci”: lo stupore è la sensazione dominante di fronte a Nella perfida terra di Dio. Stupore e mistica fioriscono attigui e rigogliosi sotto il dio-sole.
Quindi… se magari siete stanchi di commissari con problemi e idiosincrasie, di squadre poliziottesche affiatate ma con contrasti, di carabinieri anche un po’ criminali, di detective con traumi del passato o di serial killer afflitti da modus operandi artistici e cronici; se avete voglia di mettervi alla prova e di scoprire inevitabilmente di essere ignoranti; se cercate un romanzo al termine del quale sarete diversi, più ricchi e densi; se volete stupirvi e stupefarvi senza prendere pilloline o sniffare polverine, Nella perfida terra di Dio può fare al caso vostro.
È quel periodo dell’anno: fatevi un regalo, ne sarete felici. 

2 commenti:

Clara ha detto...

Tanti cari auguri di libri belli, letture entusiasmanti e parole nuove per il 2018. Un caro saluto da Bombay. Clara

sartoris ha detto...

Augurissimi Clara, e non dimenticarti mai della tua Puglia :-))))