venerdì 15 settembre 2017

Abiusi su fatamorgana...

È da molti anni, forse dalla scomparsa di Gesualdo Bufalino, che la narrativa italiana sembra aver disperso quella che era stata ‒ anche in autori “realistici” come Pasolini, per non dire, sul versante opposto, delle neoavanguardie, impegnate, si sa, nel gioco a-linguistico ‒ una sorta di etica del lemma, del sintagma: il precipitato fonico del racconto e l’organizzazione, anche acustica, che restituiscono la concreta sostanza delle cose. È l’isolamento della parola e dell’oggetto, pur nell’orchestrazione del discorso, la concentrazione sul nome, a far emergere tutta una fisica della letteratura (e di qui ciò che la trascende, la stilizza ed estranea proprio in via materica), un brulicare di sostanza e suono, di sostanza nel suono, che manca a gran parte della narrativa italiana contemporanea, compressa dall’ansia di comunicare (e consumare) la vicenda, le peculiarità della storia. Un’ansia che si traduce il più delle volte in una scrittura anodina (una paratassi spinta fino all’“americanismo”) e nella specificità letteraria (ma una letteratura “di servizio” appunto), priva di stile cioè di un disegno altro, riguardante la consistenza del linguaggio e della sintassi, il surplus di mondi semantici che così si delineano.
A quest’ansia peraltro sfuggono autori come Michele Mari, Emanuele Tonon, il Giorgio Vasta del Tempo materiale e pochi altri, impegnati, ognuno a suo modo, a restituire peso, suono, spazio alla parola. Tra questi, in maniera singolare, guardando in qualche modo al racconto di genere (con tutto quello che comporta in termini di immediata fruibilità) c’è Omar Di Monopoli, di cui recentemente Adelphi ha pubblicato Nella perfida terra di Dio. Di Monopoli è intento a una scrittura, a un lavoro sulla lingua italiana, su una “nominalità” che si concreta in virtù dello scarto, del transito, proprio fuggendo, in virtù della lingua, da quella specificità tutta letteraria di si cui diceva prima.
Con questo romanzo Di Monopoli si addentra verso l’interregno spurio, limaccioso, posto tra le modalità di espressione e tra i generi. Un luogo (di sedimentazione semantica) che prende le forme di un luogo: Rocca Bardata, paese scalcinato della Puglia tarantina, tra cagnacci ottusi, bavosi, radure tignose, melme e scorie di falde acquifere, fino a cieli tramontanti e rudemente stellati, che dicono della natura contaminata di questa scrittura (tra dettato brado e picchi lirici) e in cui convergono la storia d’amore, il referto sociale (sia pure camuffato), la storia di gangster, il racconto neo-western, e poi neo-gotico.
Mescolanza dei generi appunto, ma anche riferimento costante ad altri linguaggi, soprattutto il cinema e il fumetto, del quale Di Monopoli recupera certo automatismo di gesti, di dialoghi: una estroversione priva di retroterra psicologico. Qui si mescolano la consequenzialità da tavola fumettistica dei personaggi invischiati nella loro sommaria, stereotipa vitalità; la composizione calcata e icastica delle scene, come la sparatoria tra i Della Cucchiara e i banditi al seguito di “Ngannamuerti”, sulla scalinata di una sala da biliardo, che nella sua minuziosa, claustrofobica spazialità, ricorda la sequenza di Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino, ambientata nel sottoscala di una cantina a Parigi, in cui Archie Hicox, con gesto sospetto, ordina “tre bicchieri” scatenando la carneficina.
Bastardi senza gloria (Tarantino, 2009).
Il cinema allora: a parte gli assedi a colpi di pistola e fucile dei mucchi selvaggi contro il vendicatore asserragliato, spiccano nel romanzo le sequenze gotiche, demoniache (ma come abbassate, nella terragna atmosfera di un realismo rurale) ambientate in un monastero in perenne penombra, in cui si consumano folli uccisioni, penitenze sanguinarie, violenze carnali sottaciute. Vige inoltre tutto un erotismo che non esplode mai, non viene mai esplicitato, inquadrato in primi piani sessuali, ma pare implicito alle forme, fermentante nei fuoricampo e nella composizione degli scorci, attagliato alla carnalità di uomini imbolsiti, tarchiati, e delle donne soprattutto, che sia Antonia, turgida, statuaria nella sua “incubazione” in una baracca, un campo infesto, o la novizia “dalle guance a mela” (sferzata dal cilicio e gocciolante di sangue), o la vecchiezza flaccida, feconda di Narcissa, la madre superiora stuprata da una ganga di contadini ubriachi: quasi che il genere non sia che una stortura e un’inferenza della realtà più terrigena, cenciosa, violenta.
È una zona di commistione Rocca Bardata, un cafarnao di generi, registri e linguaggi, che prende sostanza, colore, plasticità nell’uso della lingua, nei sintagmi organizzati frequentemente sul periodo protratto, ponendosi “in fuga” dal dominio paratattico, dal linguaggio anodino e standardizzato.
Il lavoro sulla lingua italiana di Di Monopoli fa uso soprattutto di aggettivi e participi che sottolineano, puntualizzano una nominalità discontinua, bastarda: dal letterario, al regionale, al popolare, senza temere la corriva nomenclatura fatta di Cagiva “tappezzata di decalcomanie rifrangenti”, di Audi, Ray Ban, Apecar, Muratti esistenti solo in virtù del loro crepitio in alta stereofonia. Tutta una nomenclatura, cioè, che fissa l’azione entro i suoi tempi (il “prima” e “dopo” secondo cui è montato il racconto) e i suoi spazi: quelli di una ruralità ruvida, sporca, scalcagnata, e la riconduce ai meccanismi codificati dai generi (i personaggi fanno esattamente le stesse cose, gli stessi gesti visti nei film di Leone, Dario Argento, Tarantino, o discendenti piuttosto dai romanzi gotici o da quelli d’appendice): solo in questo automatismo (per giunta icastico), in questo riprodursi di feticci, risulta la coalescenza tra lingua e genere.
La lingua concatena gerundi, avverbi, specificazioni, dettagliando al massimo (appunto feticisticamente) i sintagmi che si riversano nei luoghi, nelle cose. Lingua che si articola nel periodo, in una scrittura sinuosa, vigente sulla superficie corposa degli oggetti, salvo poi frantumarsi e serrarsi nella concisione del gergo e del dialetto. Sembra ci sia in ciò una strana consapevolezza, quasi un piacere fanciullesco, di Di Monopoli  nell’uso del periodare giocato sulla durata, come se un che di Gadda si fondesse con il fumetto, con l’accumulo di parole e di oggetti (e situazioni) seriali.
Le cose comunicano, anzi si orchestrano, interagiscono tra loro, in superficie, collocandosi nello spazio, nel dettaglio dei luoghi, con effetti fosforici, plastici, tale che ad esempio “al margine della piazzola, rischiarata da uno spicchio di luna che morendo versava fuoco freddo nella sua scia, c’era una Lancia Thema ferma” o “il latrato di un cane, sperduto chissà dove, rintoccava in echi digradanti lungo la campagna oltre il guardrail e poi si azzittiva stemperandosi nello zirlare dei sasselli”. Tale corrispondenza, effusione tra le parti del tutto, grazie a frequenti zone ipotattiche in cui la stessa lingua sembra fiorire tra gli sterrati e i casolari coperti d’amianto, si estende a processi metonimici e metaforici, ricorre alla similitudine, per cui “il viso del vecchio Nuzzo è crepacciato e scuro come tabacco” e “una luce bianca come porcellana s’infilava tra decine di balconi che gemevano sotto il peso dei gerani in vaso”, e poi “l’aria ancora calda come un braciere, si smembrava e precipitava svagando ovunque sentori di ozono e argilla bagnata”.
Di Monopoli è intento a ricucire in modo eclatante lo strappo con la tradizione letteraria attraverso il riuso delle figure retoriche più antiche (e forse più usurate: appunto la similitudine), e di qui arrivando a figurazioni e trasfigurazioni che sono strumentali, essenziali a questo genere di narrativa. Di Monopoli cerca di recuperare cioè il letterario (passando per la figura retorica e guardando ad ambiti figurativi, pop) nella misura dell’edificazione di una forma: l’articolazione delle lettere, delle parole, che si correlano e si realizzano nel periodo, per immaginare, inventare le cose. (qui l'originale)

Nessun commento: