sabato 19 settembre 2015

fulmini a Kansas City...

«Era una domenica mattina, la temperatura insolitamente mite per dicembre. Un gruppo di musicisti sedeva sul bordo del marciapiede di fronte a una pensione di Des Moines, in Iowa.
Des Moines era una tappa di quello che all’epoca era noto come il Circuito Balaban e Katz. Negli anni Trenta, inserirsi nei vari circuiti spettacolistici era per un musicista la maniera di vedere tante città, tanti panorami diversi. Il Circuito Balaban e Katz, per esempio, partiva da Kansas City e saliva fino a Lincoln, in Nebraska; poi a Omaha; di lì a Des Moines, quindi a nord verso Minneapolis e St. Paul; poi scendeva di nuovo a sud passando per Madison, in Wisconsin, e per Milwaukee, per arrivare a Chicago, quindi a Springfield, nell’Illinois, a St. Louis, e, dopo un passaggio a Jefferson City in Missouri, di nuovo a Kansas City. In quel girovagare se ne sentivano di musiche e anche di parlate; e insieme a quelle, si incontravano tante donne.
Il rischio c’era, sempre, ma era l’avventura che valeva bene tutti quei chilometri e quella fatica. Una volta sceso da quei vagoni, ti stiracchiavi, se c’era tempo ti tiravi un po’ a lucido, poi, con comodo, raggiungevi la sala da ballo, montavi lo strumento, sistemavi la sedia pieghevole di legno, tiravi fuori gli spartiti, ti accordavi, ti rilassavi; arrivata l’ora, il jazz si scatenava da te come un lampo, un puledro scarmigliato. E a quel punto ti sentivi vivo; era allora che dal tuo strumento sgorgavano fascino, grazia, audacia; era allora che la tua mente riluceva come oro del Klondike.
Per uomini come quelli, come per tanti altri, Kansas City era la Mecca. Era stata per anni una vera città aperta, grazie alla predominanza dei gangster locali e al regime corrotto istituito dal boss politico Tom Pendergast; e proprio in quegli anni era diventata terreno propizio alla creatività febbrile che si manifestava sulle pedane delle orchestre. Nel 1941, però, Pendergast si era ormai visto confezionare un bel completo a strisce e la vibrante aura notturna di Kansas City era in declino. La musica ormai aveva cominciato ad andarsene dalla città, prendendo a ovest, a nord e a est insieme con i musicisti, i quali, a Kansas City, non avevano mai conosciuto né la Depressione né la disoccupazione. Dalla fine degli anni Venti e per tutti i Trenta avevano potuto suonare, sfidarsi, fare baldoria a tutte le ore del giorno e della notte. In quella città-miracolo del jazz, i vari stili e lo swing venivano minati e scavati come vene aurifere o pozzi petroliferi e, se non tutte le notti, di certo con costanza sufficiente a permettere che lì il ritmo venisse sottoposto a un trattamento diverso, meno uniforme, a uno swing che aveva un carattere tutto sud-occidentale. Con il suo battito pulsante riusciva a cantare, oltre agli inviti, ai richiami, alle grida e ai lamenti della carne, anche l’anima.»

Fulmini a Kansas City
L’ascesa di Charlie Parker 
Stanley Crouch (Ed. Minimum Fax)

2 commenti:

LUIGI BICCO ha detto...

Questo libro qui è nella mia lista già da un po'. Non credevo potesse interessarti un testo così tanto intriso di jazz, ma immagino che a solluccherarti il palato siano gli anni e le ambientazioni ;)

sartoris ha detto...

@Luigi ma a me il jazz piace parecchio, non credo di potermi definire un esperto ma ho sempre ascoltato Mingus, Davis e Brubeck come se piovesse... poi non dimentichiamo che il jazz nasce nelle piantagioni come lamento dei neri, e questo argomento è assai tangenziale a quel deep-south a stelle e strisce che adoro e che vado magnificando di continuo :-)))