domenica 18 gennaio 2015

racconto per Subway Sport...

Attorno al diamante si stava raggrumando un silenzio feroce. Ripassandosi mollemente la palla sul guantone, il lanciatore gli rifilò dalla sua cunetta un paio di sguardi di sfida appena accennati, ma precisi e ficcanti come sciabolate. Era un bestione dalla faccia scura e grinzosa simile a un agrume; vent’anni, forse qualcosa in più, originario del Minnesota, una stagione fallimentare nei Boston Red Sox prima di arruolarsi nell’esercito e venire spedito coi SETAF qui al Belpaese.
«Ci stanno stracciando», aveva smadonnato Peruzzi giù nel dugout solo pochi minuti prima, «ci stanno facendo un mazzo così e se non vinciamo almeno un inning finisce che facciamo davvero la figura dei dilettanti, Cristo d’un Dio!».
«Mò gli faccio un fuoricampo, Peru’», aveva ribattuto piano lui, in faccia un’espressione spavalda abbastanza inconsueta per i suoi standard.
Peruzzi si era girato a scrutarlo diffidente. Sapeva che il pugliese era uno con le palle, lo aveva messo nella squadra lui personalmente quasi un decennio prima vendendolo centrare al primo colpo una lucertola con un sasso, giù al deposito dei veicoli. Gli stava simpatico, tra l’altro, e non si trattava solo di solidarietà tra meridionali. Perché Peppino ci sapeva fare: un atleta vero, fisico prestante e niente grilli per la testa, e se c’era qualcuno in grado di battere un home-run non poteva che trattarsi di lui. Però ‘sti americani del SETAF erano una gatta davvero rognosa da pelare, e ai piani alti della polizia nessuno si aspettava dalla squadra delle Fiamme Oro nient’altro che una sconfitta, purché dignitosa. Dopotutto, era col calcio che ci sapevano fare gli italiani, mica con ‘ste robe da yankee.
«Peppi’», fiatò secco Peruzzi, «se mi guadagni la casa-base io ti giuro che te lo faccio firmare domani, quel cazzo di trasferimento!» Lui aveva allargato lo sguardo in tribuna, cercando nella marea di teste mobili la capigliatura corvina di sua moglie e poi si era sbriciolato in un sorrisetto involontario una volta identificata la massa spettinata di capelli del piccolo affianco a lei.
«Peru’», gli aveva detto senza voltarsi, «sai che io non me ne vorrei andare, Peru’, manco per niente: è lei che mi ci costringe…»
Il coach lo aveva interrotto levando la mano. «Devi volerle bene, Peppi’», aveva sentenziato placido sistemandosi l’asciugamano sudato attorno al collo. «Le donne vanno volute bene!»
Allora lui si era messo ad annuire ed era uscito dal dugout tra le acclamazioni della folla per posizionarsi davanti al catcher, strofinandosi il talco sui palmi mentre gli strilli si attenuavano.
Ora il bestione del Minnesota circumnavigava con sguardo assorto il diamante. Lo smicciò mentre lanciava segnali sfrontati ai suoi compagni di squadra, toccandosi la visiera del berrettino prima di scaraventargli addosso l’ennesima occhiataccia.
Voleva innervosirlo.
Fargli capire che per quanto si dimenasse, lui restava solo un mangiaspaghetti che si cimentava con uno sport non suo.
Ma Peppino non ci cascava.
Restava concentrato, espirando calmo l’aria, la mazza sospesa a mezz’aria pronta a sferrare. Siamo io e te, pensò fessurando gli occhi e facendo ruotare appena la mazza, solo io, la palla e te, ragazzo del Minnesota. Fece in tempo a registrare solamente la mano del lanciatore che rinculava, poi la palla si librò dal guantone ad una velocità folle e in un battibaleno se la vide sfrecciare davanti al naso come una minuscola meteora rotante.
Strike! strillò monocorde l’arbitro dietro di lui.
Peppino digrignò i denti.
Immaginò Peruzzi dare fondo alla sua riserva di bestemmie, giù nel dugout, ma non osò voltarsi a controllare. C’erano solo lui, la palla e il ragazzo del Minnesota, là. Il resto era pura distrazione. Minnesota recuperò la palla e tornò a indirizzare lo sguardo altrove, disinteressato a tutto, come se non stesse per lanciare ancora una volta, come se quel suo braccio poderoso non stesse per irrigidirsi e poi flettersi di nuovo scagliando un altro micidiale colpo verso di lui.
Solo io, te e la palla, figlio di puttana, si ripeté Peppino come un mantra.
Suo figlio lo stava guardando.
Era un portento, quel ragazzino là.
Sapere che avrebbe dovuto mollare la scuola, i compagni e tutto il resto per andare ad abitare laggiù in terronia non gli piaceva affatto. Farlo nascere e crescere qui a Bologna era stata la sua partita migliore. Ma lei ormai aveva deciso. Bologna costava troppo, e le cose quaggiù al nord sono troppo complicate. Meglio tornare a casa, Peppi’, meglio riprovare a vivere là dove siamo cresciuti. Avremo meno ma spenderemo di meno.
See.
Come se lui non la ricordasse a memoria, la miseria di quel posto.
Come se laggiù, a parte i parenti e qualche amico, la vita fosse un regalo.
Un sibilo crescente lo riportò alla realtà. Avvertì lo spostamento d’aria soffiargli sul mento, poi la voce dell’arbitro tornò a ribadire definitiva: strike!
Cristo, e siamo a due!
E stavolta non l’aveva proprio vista.
Minnesota se la rideva sotto i baffi.
Lo scorse con la coda dell’occhio mentre dinoccolava le spalle in un pallido gesto canzonatorio.
Peppino divaricò un po’ le gambe, piantandosi per bene sui piedi.
Ora la prendo, vedrai. Solo io, la palla e te, figlio di puttana.
Guardò in alto un ultima volta, lassù verso gli spalti. Sua moglie era una figuretta altera e longilinea, bella da impazzire. Pensò che avrebbe fatto tutto per lei. E che ogni cosa sarebbe andata al posto giusto. Non poteva che andare così.
Poi il lanciatore accolse la palla dal bordo campo, ciondolò piano con la testa e si affrettò a caricare il tiro.
Solo io, la palla e te…
(racconto pubblicato sul tabloid milanese SUBWAY nel 2010, scaricabile qui).

8 commenti:

Annalisa ha detto...

Lo so, lo so... Va bene così, è bello e pare che tu ci abbia giocato, a baseball, ed è una storia breve, e ben scritta, con altre storie che si intrecciano appena sotto la superficie.

Ma come va a finire proprio non lo racconti? ;-)

sartoris ha detto...

@Annalisa: il racconto finisce così :-) (è il più autobiografico dei miei scritti. Mio padre giocava nella squadra di baseball della Polizia, a Bologna. Credo di aver detto tutto. Anche il finale:-)))))

Anonimo ha detto...

minchia, allora il baseball lo conosci per davvero (^-^)

PIP

sartoris ha detto...

@PIPPO lo conosco, da ragazzino ci giocavo (è un po' noioso per gli standard italiani, ma è forte!)(Oddio, non che il calcio nostrano sia ultimamente tutto 'sto gran ritmo e divertimento, a dirla tutta:-)

LUIGI BICCO ha detto...

Moooolto carino, si. Niente male. Si rischia sempre un po', quando si narrano storie dove di mezzo ci passa lo sport. Ma te la sei cavata davvero bene :)
E comunque il Baseball è noioso anche per gli standard americani, pare, anche se la cosa non sembra impedirgli di essere tra gli sport più seguiti in USA (tra il football e la NBA).

sartoris ha detto...

@Luigi come dicevo prima, ci sono cresciuto, col baseball (forse per questo sono un po' troppo 'americano') comunque lo devo al babbo (il quale invece ora, ormai senile e incazzato col mondo, non fa che sfancularmi:-(

Anonimo ha detto...

Un bel dilemma. Terronia o no? I racconti più belli sono quelli con il dubbio finale. Il lettore sceglie poi la soluzione che più gli piace.
Fabio

sartoris ha detto...

@Grazie Fabio (nella realtà, ovviamente, avendo ammesso che il racconto è in parte autobiografico, Peppino ha scelto la Terronia :-)