domenica 21 dicembre 2014

la diva, il bifolco, la sparizione e la ferocia dei media...

Ultimo di una sfornata di pellicole eccelse inanellate da questa quantomai succosa annata cinematografica (si parla perlopiù di opere straniere, of course, con qualche piccola eccezione italica di cui speriamo di poter parlare più avanti), Gone Girl è l'ennesimo, riuscitissimo bersaglio centrato da quel talentuoso - nonché furbissimo - cineasta ormai cinquantaduenne che risponde al nome di David Fincher (Fight Club, The Social Network, Zodiac più un pugno di altri mezzi-capolavori).
Con Ben Affleck e Rosamund Pike a ricoprire i due ruoli cardine della vicenda, il thriller (bellissimo, inutile tergiversare) è l'adattamento in celluloide del romanzo L'amore bugiardo (pessimo titolo con cui anche il film è distribuito nei cinema del Belpaese), best-seller internazionale del 2012 a firma Gillian Flynn, che dell'opera per il grande schermo cura pure la sceneggiatura.
Gone Girl seziona, nella fattispecie, il matrimonio tra Nick Dunne (un Affleck adeguatamente ottuso e un po' cialtrone) e la sofisticata stellina dei media Amy (la rivelazione Rosamund Pike, una bellezza degna di Hitchcock). In apparenza una liaison perfetta, un rapporto da sogno nella realtà alimentato da un substrato di finzioni e rancori sopiti che sembrano (sembrano!) derivare essenzialmente dalla volontà di potenza della donna, dalla sua pretesa - inflessibile - di attenersi all'ideale del "due cuori e una capanna" cui il maschio si presta in modo discreto, come discreta e mediocre è la sua vita di provinciale che ha gettato a ramengo ogni ambizione personale (voleva fare lo scrittore, gestisce invece un infimo bar). Ma il fuoco cova sotto la cenere, e ben presto il quotidiano della coppietta - intanto ritiratasi in una tranquilla cittadina del Missouri - diventa asfittico e comincia a stillare veleno. Finché, nel giorno del quinto anniversario di nozze, lei scompare. E il sospettato numero uno, coi media che si buttano voracemente sulla tragedia come in un'Avetrana qualsiasi, è proprio Nick.
Fincher parte da questa situazione tipo, scandagliata sino allo sfinimento da cinema, teatro e letteratura contemporanei, per mettere a segno una sorta di apologo sulla finzione, con una maestria e una messa in scena talmente forzate ed estetizzanti da suscitare reazioni epidermiche: un film così, eccessivo e fascinoso al punto da rasentare il grottesco (non si possono rivelare gli sviluppi dell'indagine senza rovinare troppo la sorpresa), o lo si ama o lo si odia. E pubblico e critica, a giudicare dai premi e dal successo di botteghino in tutto il planisfero, lo sta acclamando.
L’amore bugiardo appartiene infatti a quella categoria di pellicole (molto costruite, prive di sbavature, quasi matematiche nel loro dispensare tensione e fredda denuncia sociale) che nello spettatore scafato può suscitare sulle prime qualche resistenza, salvo conquistarlo a tradimento con un guizzo, una trovata imprevedibile che in questo caso si deve innegabilmente all'indiscussa capacità del regista di manipolare le attese. E in un'opera che riesce a destreggiare con convinzione più temi (l'ineluttabile frantumazione del ménage matrimoniale ma anche l'assedio della televisione nelle nostre vite) il concetto di manipolazione diventa il cuore, il soggetto, anzi lo stesso tegumento con cui si costruisce una narrazione a scatole cinesi in cui tutti complottano, tutti tradiscono, tutti mentono. E chi non mente - l’opinione pubblica, che si beve le diverse versioni della storia inscenate via-via - è complice di questo puzzle menzognero cui vuole ostinatamente dare credito. Gone Girl è di fatto un oggetto cinematografico di catalogazione complicata, che ha l'indiscusso merito di rinnovare in profondità determinate convenzioni narratologiche per restituirci una "visione" che ti resta appiccicata addosso, per giorni, una specie di patina spiacevole e vischiosa di difficile rimozione. Che è poi la qualità principale delle opere d'arte degne di essere ritenute tali. Applausi.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

una parola sola: splendido :)
PIPPO

sartoris ha detto...

eggià, my friend :-)

CREPASCOLO ha detto...

Nel videogioco Tegumen è un robottone che protegge Tokio dal dinosauro radioattivo Carapax. Ben Affleck ci gioca distrattamente, come taluni fanno con le olive in un aperitivo, mentre riflette sul mito di Giano e pensa a quanto abbia fatto nel tempo x sconfiggere il suo personale demon in the bottle quando dall'altra parte del tavolino nella hall dell'albergo nota che è apparso Matt Damon. Il suo Damon. Ha gli occhiali da sole ed una camicia chiassosa ed una giaccca di pelle e lo trascina fuori sul retro dove è in corso the game: dodici tizi mascherati come le case dello Zodiaco si muovono lenti sul pavimento su cui è steso un poster che riproduce il cielo stellato, dopo il crepuscolo. La partita a scacchi di Marostica come potrebbe immaginarla Ingmar Bergman. Ad astra per aspera, pensa Ben. Non ha tempo di ricordare dove ha imparato il latino - usciva con J.Lo, una bellezza latina tempo fa - e Damon lo ha già caricato in auto, dicendogli che un serial killer ammazza le sue vittime seguendo le indicazioni astrologiche di una setta che venera una madre aliena xenomorfa e parassita e che occorre inventarsi una finta troupe cinematografica x fingere di girare un documentario nella lamasseria andina dove meditano i discepoli che devono essere piallati tutti x proteggere l'umanità dalla minaccia della Gone Girl from outer space.
Il dottor Fincher schiocca le dita e Ben esce dal trance : sei mesi di analisi non sono ancora riusciti a far superare all'attore le minacce di morte x la sua decisione di interpretare Bats dopo Bale, ma il suo terapista ha tanto di quel materiale che sta meditando di scrivere un romanzo sperimentale sulla scia del primo caso di Pepe Carvalho. Quasi un lieto fine.