venerdì 13 settembre 2013

questa specie di scrittore...

Non c'è niente di più distante dalle tematiche di questo blog quanto l'ultima produzione di Alberto Bevilacqua, scrittore italico di grande notorietà scomparso qualche giorno fa in circostanze chiacchieratissime sui tabloid. Però era un autore robusto, invero dotatissimo, e per quanto negli ultimi anni sembrasse aver esaurito il fuoco sacro della parola coi cui aveva tegumentato la propria ricerca letteraria giovanile, è stato, nel bene e nel male, uno scrittore "vero".
È stato anche, a dirla tutta, il primo autore nazionale che il titolare di questo spazio abbia mai incontrato: abbiamo rispolverato quindi una vecchia intervista che gli facemmo nel 2003 (pubblicata sulla defunta Tabula Rasa, rivista di letteratura invisibile) nella umile speranza di omaggiarne il ricordo. Addio Alberto, ovunque tu sia...
• Caro Alberto, parlaci dei tuoi esordi: quando hai scoperto che la parola scritta ricopriva un ruolo importante nella tua vita?
Presto, molto presto. Ho cominciato a Parma sul finire dei '50. All'epoca era una città in cui si raccoglievano molti degli scrittori più importanti del periodo. C'era questo meraviglioso narratore, Mario Colombi Guidotti, venuto a mancare prematuramente, che per Guanda aveva pubblicato un romanzo in una collana diretta da Sciascia. Io avevo 17 anni e diventai suo collaboratore nella fondazione di una pagina letteraria per il Gazzettino di Parma. Era un esperimento, il primo di quel tipo, per un quotidiano nazionale (tra l'altro il più vecchio d'Europa) e si chiamava il Raccoglitore, una pagina cui presto parteciparono firme prestigiosissime come Thomas Mann. Lì pubblicai alcuni dei miei primi componimenti. Contemporaneamente lavoravamo per Guanda, non quella odierna bensì quella originaria, per la quale selezionavamo autori che sembrano pubblicati da un secolo ma che in Italia abbiamo fatto conoscere noi: Machado, Garcia Lorca. Gente di questo livello. Finita questa esperienza terminai il liceo e mi trasferii a Roma, dove entrai nella Fiera Letteraria di Vincenzo Cardarelli ricevendo da questi l'incarico a stilare una pagina quindicinale dedicata agli scrittori "nuovi", che all'epoca erano Fenoglio, Testori e lo stesso Sciascia. In quel periodo scrissi il mio primo romanzo, La polvere sull'erba, che piacque tanto a Sciascia ma la cui pubblicazione venne ostacolata dalla censura poiché il libro trattava del cosiddetto Triangolo Rosso, la guerra civile che interessò per tre anni il Veneto e l'Emilia e che produsse circa duecento morti. Un evento che l'Italia di allora si sforzava di rimuovere e Einaudi ha pubblicato solo nel 2000. Questi miei esordi furono facilitati a ben guardare da circostanze favorevoli, prima fra tutte quella di aver avuto come insegnante a scuola il grande Attilio Bertolucci, ma anche il milieu culturale di quegli anni contribuì parecchio alla mia formazione. Era il momento di riviste seminali come Botteghe Oscure e Paragone, anche se io avevo cominciato a scrivere assai prima, e in maniera singolare, impersonando mio zio Toni Bevilacqua, campione mondiale di ciclismo, in un racconto per il Resto del Carlino, in un concorso in cui s'invitavano i reduci a raccontare la loro storia. Io vinsi a soli 14 anni…
• Un avvio precoce, quindi, il tuo...
Certo, provenivo da una famiglia di epurati, mio padre era un aviatore quando Balbo prese il comando e restare solo in un ambiente rivoluzionario come l'oltretorrente, crogiolo di artisti d'ogni risma, stimolò parecchio la mia creatività.
• Il successo vero arriva però con La Califfa...
Esatto, dopo la mancata pubblicazione del mio primo romanzo ebbi un profondo moto di risentimento verso l'editoria. Mi giunsero minacce dure, e decisi di allontanarmi da quel mondo. Però continuai a produrre, sono di quegli anni Questa specie di amore, Il viaggio misterioso e appunto La Califfa. Dopo che Sciascia volle pubblicarmi un volumetto di poesie, L'amicizia perduta, a 24 anni pubblicai per Sugar un libro su Guido Picella, un anarchico che combatté Balbo, morto nella guerra di Spagna. Sugar era nota allora per avere in catalogo autori d'avanguardia come Samuel Beckett, e il mio lavoro divenne un piccolo caso. Le mie tesi vennero sposate da un Togliatti in odore di revisionismo e gli editori tornarono a confrontarsi col sottoscritto. Porzio mi avvicinò carico d'entusiasmo e gli consegnai allora La Califfa. Che fu un successo internazionale nonostante l'ostracismo dei primi tempi.
• Mi sembra di poter identificare in questo romanzo la nascita di una galleria di personaggi che, in qualche modo, saranno sempre presenti nel tuo universo narrativo...
Be', sicuramente. La Califfa ebbe una notevole ripercussione sulla società del periodo, Anzitutto descriveva situazioni nuove, a maggior ragione per una città come Parma, aspramente divisa tra una parte popolare, smaccatamente anarchica, e un'altra, considerevole, ricca e pasciuta. Ma fu il fatto di avere affidato a una figura femminile il compito di rappresentare la classe del popolo a fare scalpore. Personalmente cercavo di avere una visione meno provinciale possibile, viaggiando molto e confrontandomi con chiunque, Viaggio al principio del mondo parla in fondo proprio di questo…
• Ecco infatti, questo tuo lavoro, dato alle stampe per Einaudi, è interessante per l'uso contaminato che fa delle diverse tecniche narrative: l'epistola è innestata su una narrazione più canonica per poi diluirsi nella pura poesia, e il discorso diretto si fa sovente, all'improvviso, indiretto...
Non ho mai avuto granché fiducia nella narrazione arbitraria, alla vocazione di personaggi appartenuti esclusivamente al mondo di chi racconta. Prediligo invece una narrativa addossata a una realtà rimpinzata di fantasia. Per intenderci, ho in mente la tradizione dell'Ariosto con tutta la sua gamma di personaggi strepitosi, vivi e imprevedibili. Ho sempre visto l'uomo come un contenitore di fantasie da ascoltare e da scoprire, ecco il perché degli stili aperti, della tecnica mista: la poesia annessa alla narrativa - quando quest'ultima è in grado di dire ciò che deve dire - ingenera nel lettore una spinta aggiuntiva d'ordine psichico, un velo oscuro che tocca corde nascoste… Perseguo quest'idea vivendola in prima persona, contaminandomi col mondo, andando spesso in Tibet, Africa, Asia…
• Come fa uno scrittore a elaborare un proprio universo, una propria visione, senza che il prodotto di un simile procedimento pregiudichi la percezione delle cose? Mi spiego: vivere un lutto per trarne poi materia da romanzo, ad esempio, non è già un modo "drogato" di percepire la realtà?
Mah, la realtà di per sé è neutra; io ero appena un ragazzo quando mia madre cominciò a combattere con la depressione, così come vedevo mio padre vittima di intrighi politici di bassa lega, ed ero testimone di questa realtà cercando il bandolo della matassa attraverso la letteratura: tentavo di coglierne il velo fantastico… Ma la realtà così com'è raramente può essere fonte di una qualche ispirazione, perché è ovvia, prevedibile, spesso piatta. Ma reinterpretandola, rielaborandola con il giusto dosaggio di verosimiglianza diventa interessante. Parlavamo di un lutto: un lutto contiene sicuramente elementi che possono permettere a uno scrittore di spaziare, vedere le cose in maniera differente cogliendo anfratti emotivi che solo il dolore può risvegliare. D'altronde non si possono descrivere realtà che non si conoscono, che in qualche modo non si sono vissute in prima persona…
• Sei informato sulla nuova letteratura nazionale? Segui le più recenti generazioni di scrittori?
Abbastanza, certo, cerco di aggiornarmi, anche se non sempre ci riesco…
• Condividi anche tu l'opinione, sempre più consolidata, che la critica contemporanea abbia ormai talmente affilato le proprie armi da impedire ai nuovi Sciascia, Moravia o Bevilacqua di venire a galla? Meglio: possiamo oggi affermare che vi sia spazio solo per un certo tipo di scrittore: quello che compiace il mercato?
Be', la verità è che semplicemente non escono fuori autori nuovi perché si preferisce incasellarli in categorie. Si è verificato in Italia un maleficio a danno delle nuove generazioni di scrittori, secondo me. A un certo punto è invalsa una critica letteraria affetta da febbre classificatoria, che esulta quando nasce un genere piuttosto che un autore: il Cannibalismo, i Post-adolescenti, ora è il momento del Noir e frotte di autori si riversano alla conquista del giallo più originale. Ma queste sono in realtà schematizzazioni prive di valore, del tutto momentanee, che impediscono al giovane artista di mettere a fuoco il proprio mondo individuale e farsi valere per ciò che è veramente. Una catastrofe! Non esiste nessun nome davvero rappresentativo di questi anni, nessun giovane coraggioso e menefreghista in grado di spezzare i canoni dettati dal mercato... E c'è indubbiamente una critica distrutta, incapace d'impegnarsi davvero per entrare all'interno del mondo del narratore. O fai parte di uno schema preconfezionato, oppure non interessi a nessuno. Angelo Guglielmi è l'esempio peggiore di questa miopia recensionista che affligge la critica letteraria odierna, lui e i vari Siciliano non hanno la forza di favorire la nascita di nuove personalità, perché ciò che è nuovo fa paura, non è facilmente controllabile...
Elio Vittorini con Arnoldo Mondadori
Quando cominciavo io, in parecchi cominciavano. C'era questa esperienza incredibile che erano i Gettoni, dove un cattivo scrittore come Vittorini diventava bravissimo nell'immettersi nel mondo dello scrittore nuovo, attenuandone i difetti per esaltarne i punti di forza e metterne in risalto le originalità.
Oggi non c'è alcun rispetto per il giovane scrittore. Viene massacrato o addomesticato se non fa parte di una qualche scuola ben definita. Credo quindi che si debba prendere una posizione forte, dura; sarebbe auspicabile un gruppo di giovani talenti in grado di dire «basta! Ci avete rotto i coglioni!». Stile Libero sotto questo punto di vista è una pessima esperienza. Perché ha permesso ai suoi autori di indossare una divisa, ne ha trasformato l'opera in vezzo, in atteggiamento, senza perseguire alcun genere di ricerca estetica o tematica. Vittorini non obbligava nessuno ad attenersi a dei canoni precisi...
• Ci sono però esordienti che tarano la propria produzione in funzione del mercato.
E questa è la morte di ogni afflato creativo. È una jattura. Io ai giovani scrittori consiglierei un grosso sacrificio personale, quello cioè di resistere alla gloria facile e breve. Saper dire di no anche a editori importanti se non si viene rispettati perché uno scrittore ha un potere incredibile, di cui magari non conosce il potenziale. Non deve piegarsi, né umiliarsi. Ai miei tempi non lo facevamo, perché niente era scontato...
• Convieni però che non facile resistere, una certa frustrazione latente assedia chiunque faccia della scrittura il proprio mestiere e avere sempre la forza di rimanere integri è dura!
Certo, lo capisco, ma noi non abbiamo bisogno di una letteratura d'assalto. Noi dobbiamo puntare su obiettivi mirati, bersagli chiari da demolire con orgoglio, e con coraggio. Abbiamo bisogno di una letteratura terroristica!

6 commenti:

LUIGI BICCO ha detto...

Chapeau! Intervista bellissima e parecchio, parecchio interessante. Per quanto Bevilacqua non sia mai stato tra le mie letture preferite, gli riconosco una buona fetta della bella letteratura italiana di certi anni. E non conoscevo certi risvolti delle sue esperienze editoriali.

Un caldo saluto anche da parte mia.

sartoris ha detto...

@Luigi, mi fece una grande impressione, all'epoca. Arrivai all'incontro carico di pregiudizi (io ero già rimpinzato di letture avant-pop) ma mi trovai davanti una personalità di spessore, consapevole di aver svenduto molto della propria immagine alla tv e alla letteratura per casalinghe disperate, ma con un retaggio culturale di grandissimo livello (hai visto che amici frequentava no? Sciascia, Fenoglio, Cardarelli, Vittorini... mica cotiche) e poi era uno spirito libero, insomma: ad avercene ;-)))

Anonimo ha detto...

Fanno bene al cuore questi ricordi.
Fabio

Anonimo ha detto...

gran bella intervista, Mister, da gustare in toto ;-)

PIPPO

sartoris ha detto...

Fabio e Pippo: vero, grazie mille, intervista di valore (mi sa che dieci anni fa ci credevo di più anch'io;-) ma soprattutto mi piace l'affondo finale del caro Bevis, quando massacra la critica di oggi e i vari Stili Liberi ;-)))

Goliarda ha detto...

Rientro dalle ferie e mi trovo questa bella intervista e...brividi tegumentati...ahhhh...meglio di così!