lunedì 18 giugno 2012

un racconto per i non-vedenti...

SoundMakers è un festival multidisciplinare in cui le arti si confrontano e dialogano ogni anno su un differente tema di ambito sociale-letterario. Al titolare del blog, assieme ad altri scrittori pugliesi, hanno chiesto un racconto fruibile anche per soggetti con disabilità (i lavori vengono proiettati su pannelli o letti da attori e diffusi via altoparlante durante l'evento). Il tema del 2012 è «la Fraternità», non propriamente nelle corde di chi scrive, ma ci si è provato lo stesso. Il risultato è questa piccola variazione attorno all'argomento.
[potete scaricare il racconto in pdf qui]
Il rombo degli aerei irruppe rabbioso squarciando il silenzio della notte.
L'oscurità s'illuminò di tempesta senza preavviso e le stelle, al cadere delle prime bombe, cominciarono a spegnersi una a una. La furia del fuoco crepitò divorando dapprima le stive, poi i dormitori, infine le fiamme risalirono voraci verso il ponte in uno sciamare senza sosta di soldati impauriti e urla belluine.
I primi scesero in mare sacramentando, gli altri li seguirono con le lacrime agli occhi.
Morirono in tanti. Il profilo della portaerei nemica si stagliava immenso e puntuto sul margine dell'orizzonte.
Infine venne il vento, e il gelo. L'oceano disperse le scialuppe come piccoli continenti alla deriva.
In tanti morirono di fame e di stenti, gli squali ne fecero banchetto.
Una settimana più tardi eravamo rimasti solo in tre. Le onde sciaguattavano contro la nostra imbarcazione lasciandoci stremati, logori, impotenti. Il più giovane non seppe resistere: stravolto dalla sete s'avventò sull'acqua salata e le febbri se lo portarono via in una notte. L'altro, un mio vecchio compagno di brigata, s'addormentò al mio fianco col sorriso per non risvegliarsi mai più.
Restai da solo. Attorno nient'altro che l'infinita distesa verdazzurra dell'oceano.
Passai dal sogno alla veglia non so quante volte.
Rividi le facce dei miei cari deformate dall'incubo, affetti che appartenevano a un'altra vita, a un altro mondo, un'altro me. L'oblio mi prese in ostaggio avvolgendomi del suo funereo manto per un tempo senza coordinate, senza fine, né inizio.
Poi, d'un tratto, spalancai gli occhi e scorsi un gabbiano intonacato d'aria rotearmi lento sulla testa. Mi scrollai sorpreso: la mia barca si era arenata sulla terraferma ed io ero salvo!
Dapprima piansi, urlai di gioia, parlai lingue sconosciute.
Poi, facendo appello agli ultimi barlumi di una forza che non sapevo di possedere ancora, scattai a correre come un ossesso, senza destinazione. M'immersi nella vegetazione fronzuta e lì vi scovai frutti d'ogni genere. Affondai la testa nei meloni, ruppi a furor di manate strane zucche dalla buccia screziata e divorai miriadi di gustose bacche porporine.
Satollo e finalmente domo, mi accasciai sotto il fresco di una gigantesca palma ricurva, i piedi affossati nella sabbia ricca di ciottoli e conchiglie, ebbro della medesima estenuante soddisfazione in cui crollano i bambini che hanno troppo giocato.
Un riflesso metallico, sperso nell'immensità del verde che abbracciava il panorama circostante, catturò all'improvviso il mio sguardo, risvegliando la mia attenzione.
Mi sollevai d'impeto e mi avviai senza pensarci due volte verso quello sfavillante richiamo.
Scarpinai deciso nella giungla sempre più fitta: nel petto il cuore martellava gonfio di speranza ma una strana sensazione, quasi un presagio di sventura, cominciò a farsi largo nei miei pensieri mentre proseguivo verso l'origine di quel riflesso. Con mia grande sorpresa, scoprii trattarsi del rottame di un aereo imbrigliato tra le frasche, lo stemma del nemico bene in vista sulla carlinga dilaniata, l'imbracatura floscia di un paracadute spenzolante dai rami.
Non ero l'unico disperso in quel remoto angolo di paradiso, ora lo sapevo.
Nei giorni a seguire m'impossessai dei confini di quella terra scoprendo trattarsi di un'isola. La perlustrai con cautela in lungo e in largo. Imparai a memoria la dislocazione delle migliori piante da frutta, costruii un arco rudimentale e con quello catturai del pesce, poi accumulai delle foglie nell'incavo di una piccola insenatura rocciosa e ne feci il mio giaciglio. Ero tranquillo, rilassato, ma dormivo con un occhio solo. Lui, il mio nemico, poteva ancora trovarsi nei dintorni.
Lo vidi per la prima volta dopo molte lune.
Era lì, in mezzo ai boschi. Frugava tra le conche di un'umida parete rocciosa alla ricerca di mitili, lo stemma della sua pattuglia ancora bene in vista sulla pettorina ridotta in brandelli. Mi feci coraggio, caricai il mio arco e aspettai il momento opportuno per sorprenderlo. Quando fu abbastanza vicino, sbucai dal cespuglio e urlando a squarciagola mi misi a corrergli incontro spianando il mio arco e puntandolo dritto al suo cuore. Lui levò in alto le mani, sorpreso. Mi guardò venirgli appresso senza fiatare. Era lacero, smagrito, negli occhi lo stupore trascolorava nella supplichevole sottomissione dei cani bastonati. Quando la punta della mia freccia, pronta a scoccare, fu a un palmo dal suo naso chiuse gli occhi e nella sua lingua cominciò a recitare una specie di litania. Una preghiera lenta e monocorde che non compresi ma che in un lampo mi riportò a casa. Tra le braccia di mia moglie. A giocare coi miei figli. A sgrassare l'auto assieme a mia sorella e ancora prima, a quando mia madre mi portava in chiesa col vestito della domenica e io non vedevo l'ora che la funzione finisse per correre fuori a giocare cogli amici. Mi fermai, impietrito. L'altro aprì di nuovo gli occhi interrompendo la sua orazione. Ci guardammo fissi, a lungo, in silenzio. E io capii che la luce che gatteggiava timida in fondo alle sue pupille era quella di un fratello.

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