lunedì 7 novembre 2011

chirurgia cinematografica...

La pelle che abito si apre sulle grazie inguainate da un'attillatissima tutina color carne di Elena Anaya (bellezza oggettivamente da schianto, vista in molti altri film spagnoli e persino nel blockbuster Van Helsing) mentre si contorce in plastiche posizioni yoga oppure crea sculture alla maniera di Louise Bourgeois, e, quand'anche ci avessero trascinati al cinema bendati, dinanzi a queste primissime sequenze comprenderemmo subito, senza timor di smentita, di trovarci in un film di Pedro Almodovar: conturbante e manierato come non mai, l'ultimo lungometraggio del cineasta iberico si rivela presto un cocktail di depravazione e genialità perfettamente miscelato, che gioca a scioccare su un crinale in costante equilibrio tra follia e perversione (anche se per chi è cresciuto a pane e B-movies, come chi scrive, la stupefazione resta contenuta). La trama s'impernia, com'è noto, su una donna morta, bruciata in un incidente stradale, e sull'ossessione del di lei marito chirurgo plastico (un misuratamente plumbeo Antonio Banderas) di creare una pelle artificiale, quella che avrebbe potuto salvarla. Ci riuscirà 12 anni dopo: un tessuto epidermico resistente a tutto, quasi ignifugo e repellente per gli insetti. Problema: come testarlo? Nella spasmodica ricerca di una cavia umana, il mad doctor troverà ciò che gli serve nel ragazzo che ha abusato di sua figlia: Vicente (Jan Cornet), per il quale le cose prenderanno decisamente una china (s)travolgente. Sfornando quest'opera dalle ambizioni apparentemente «di genere» (è evidente infatti l'impronta del thriller-sociale), Almodovar promuove una volta di più la propria macchina da presa a strumento affilato per un'operazione che parlando di chirurgia «estetica» confluisce in quella «estetizzante». Battute come «mi chiamo Vera. Vera Cruz», disseminate nel mezzo di una narrazione ricca di colpi di scena e situazioni angoscianti, solleticano l'ilarità di pubblici di diversa estrazione, strizzando l'occhio tanto a un'epoca (gli anni Cinquanta) quanto a un modo d'intendere il cinema serio ma non serioso. Aldilà del contesto in cui sfilano comunque tutti gli immancabili topoi almodovariani - dal feticismo al rapporto madre-figlio, dalla fissa dei costumi tigrati allo sguardo ironico sul sesso -, il film resta impresso soprattutto per la sua indecifrabilità. Sembra a tratti un horror, ma la tensione emotiva non è scatenata tanto dalle pieghe tenebrose e/o scabrose del plot, quanto piuttosto dall’ambientazione algida, dalle maschere degli interpreti e dalla loro capacità di interagire scambiandosi con pochi sguardi rifiuto, dolore, paura, odio e riconoscenza. Indubbiamente magistrale nella messa in scena, il film perde colpi solo un po' nel finale, chiudendo con forse troppa fretta il rapporto sviluppato tra vittima e carnefice. Comunque un film di grande, altissimo livello.

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