Nel 2008 Courtney Hunt gira in meno di un mese e con un budget risicatissimo Frozen River - Fiume di ghiaccio, sorta di thriller esistenziale - definito «mozzafiato» da Quentin Tarantino anche se in realtà la caratteristica principale del film consiste semmai in una pacatezza muta e raggelata - col quale si è guadagnata il Grand Jury al Sundance Festival, il National Board of Review come miglior regista esordiente e una candidatura agli Oscar come migliore sceneggiatura originale. Cinema indipendente americano puro quindi, quello della Hunt, a testimonianza di una volontà ancora solida da parte di un manipolo di artisti d'oltreoceano capaci di fronteggiare i richiami di mammona disdegnando i circuiti mainstream in funzione di una ricerca magari scomoda ma assolutamente di prestigio.
Melissa Leo (solida caratterista che con questo lungometraggio ha visto sfilare il suo nome accanto a quello di Meryl Streep, Angelina Jolie, Anne Hatheway e Kate Winslet tra le nomination all'Oscar come migliore attrice protagonista) interpreta - magistralmente, va detto! - il ruolo di una donna di mezza età con due figli a carico che nel tentativo di sbarcare il lunario intraprende la rischiosa attività di spola per gli immigrati tra le frontiere di USA e Canada. Si alleerà con una nativa della tribù dei Mohawk riuscendo in sua compagnia a passare per la riserva indiana considerata “zona franca” dalle pattuglie di entrambe le sponde. In uno scabro inanellarsi di eventi che un po' richiama i primi lavori dei Coen (ma senza traccia d'ironia) e un po' il fantastico Winter's bone (anche quello girato da una donna), il quid che imprime la vera svolta alla vicenda arriva nella fase finale dei loro traffici, quando le due «casalinghe disperate tra le nevi» si accorgono che un neonato, celato in una borsa, è stato dimenticato sul ghiaccio durante uno dei transiti tra le frontiere. In quel momento le due protagoniste, ormai indissolubilmente legate, si accorgono che un altro e ben più profondo confine è stato varcato: quello che separa ognuno di noi dalla soglia del cinismo più spietato, un cancro che corrode l'anima rendendoci miserabili e che due mamme, seppur disfunzionali e scalcagnate come quelle del film, non possono permettersi. Con la pressoché certezza di essere identificate dalle autorità, la coppia di donne tornerà a recuperare il piccolo rischiando di finire inghiottite dal fiume.
Raccontando dell'incontro di due disperazioni in un'inospitale terra di frontiera (davvero sconfortante la precarietà delle fatiscenti case prefabbricate e delle roulotte diroccate in cui tutti sembrano vivere), la brava cineasta debuttante riesce a veicolare una riflessione estrema e tutt'altro che scontata sulla maternità e i legami con la prole (e col proprio sangue) inserendo inoltre il tema del traffico di clandestini in un contesto che Hollywood ci ha abituato a veder rappresentato in climi ben più torridi e folcloristici (come sul limitone del Messico). Si potrebbe forse storcere il naso dinanzi alla semplificazione manichea adottata nel racconto, coi nativi che vivono d'illegalità ma sono in fondo «bravi guaglioni», come se solo i meno abbienti nutrissero sentimenti nobili. Ma ciò non renderebbe onore alla pellicola nel suo insieme perché Frozen River è un film che spinge lo spettatore ad andare oltre la prima impressione: la Hunt ci accompagna per mano in un mondo di aguzzini e vittime in fuga (bellissima la scena delle due orientali clandestine che fuggono nel biancore immacolato del lago di ghiaccio), introducendoci allo stesso tempo ad una rilettura del rapporto tra razze, generi e solitudini. Complice anche la tensione che si respira nei rapporti tra comprimari (il figlio adolescente della Leo, i capibastone della comunità pellerossa, i giovani scalzacane del paese: una notevole e convincente panoramica dell'America white trash), persino l'happy-end, in cui l'americana si sacrifica per la più sfortunata indiana, diventa plausibile e toccante poiché elude qualsiasi melassa grazie ad un perfetto controllo della materia narrata. Quando in chiusura ci vengono mostrate le scuse del figlio maggiore a una vecchietta che aveva infastidito, seguite in rapida successione dalla scena di un bimbetto su una giostra, quello che otteniamo è il sunto di una dicotomia esemplare (durezza/tenerezza) che regola l'intero film, dicotomia di fronte alla quale persino il pur emozionante empito di libertà che soggiaceva al seminale Thelma e Louise diventa patinato e velleitario.
4 commenti:
Partendo dalla disperazione di due donne vittime dei loro uomini, ma in parte anche del consumismo più sfrenato (si vive in una sorta di baracca, si cena con i popcorn ma si deve possedere un megaschermo ultramoderno) la sceneggiatrice e regista Courney Hunt confezione un dramma sociale mascherato da thriller.
La regista mette sullo sfondo una realtà sociale problematica, prosegue con la triste vicenda personale della protagonista, gira con camera a mano per rendere il tutto più realistico e sopratutto non molla un attimo il volto della brava Melissa Leo della quale sembra voler cogliere ogni respiro.
Per rendere il tutto più attraente ambienta il film al confine tra lo Stato di New York, il Canada, e una riserva Mohawk. Ne consegue che cambiando Stato cambia anche la giurisdizione della polizia e sopratutto cambiano le regole, da qui quel minimo di tensione che fa pensare ad un thriller.
P.S. Avete visto Melissa Leo in The Fighter? Strameritato Oscar!
@Fab, Oscar meritatissimo, ne ho parlato pure sul blog:
http://omardimonopoli.blogspot.com/2011/02/fratelli-sul-ring.html
(grazie del contributo, sempre misurato e incisivo)
raggelante per davvero lo spirito con cui le due protagoniste affrontano il fato avverso, grande film!
Annibal
@Annibal: gran bel nickname :-))
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