venerdì 11 febbraio 2011

True Grit: il west non è così lontano...

Comincia tutto 40 anni fa. Gli anni Sessanta volgevano al tramonto quando Charles Portis, robusto scrittore definito dalle cronache «il Salinger dello Arkansas» per la sua totale ripugna nei confronti dei media e dell’autopromozione, diede alle stampe (a puntate sul Sunday Evening Post) un singolare romanzo western intitolato True Grit. In questo romanzo i canoni del genere per antonomasia erano pedissequamente rispettati, coi personaggi tagliati coll’accetta e una morale di fondo limpida come il sole. La storia conteneva però un quid in più rispetto alla massa di pubblicazioni gemelle tipiche d’Oltreoceano: la protagonista Mattie Ross, infatti, quattordicenne determinata a vendicare la morte del padre inseguendo il suo assassino in compagnia d’uno sceriffo federale dai metodi duri e assai spicci (Rooster Cogburn detto il Grinta, per l’appunto), mostrava una scaltrezza e un disincanto davvero innovativi per un romanzo di questo tipo, e ciò sulla carta permetteva al suo autore bordate satiriche di notevole spessore (come i giudizi trancianti sui guerriglieri e la loro miope apologia tra la gente, l’idea di giustizia sommaria che ancora oggi domina l’immaginario americano, e la violenza come collante della costituzione degli U.S.A.) che resero l’opera godibile anche per i (pochi) non appassionati al filone. Nel 1969 arrivò Hollywood, s’innamorò della storia e ne portò sullo schermo una solida trasposizione affidando la regia a Harry Hethaway e al Duca John Wayne il compito d’impersonare l’eroe eponimo del libro di Portis. Il risultato fu una pellicola invero lieve anche se godibilissima, poiché molto edulcorava del passo sferzante che Portis aveva impresso al suo romanzo trasformando le imprese di Mattie e del vecchio sceriffo Cogburn in una classica fiaba per famiglie ambientata però tra speroni, cowboy e pistolettate. Di grande rimase solo il carisma e l’indubbia magnificenza del personaggio del Grinta, che nel monumentale John Wayne trovò la sua più calzante incarnazione (anche per ragioni di età: e non è un caso che il ruolo regalò al Duca il suo unico premio Oscar). Oggi, mentre la casa editrice Giano ripubblica finalmente l’opera originale in italiano, permettendo anche quaggiù in Berlusconia di apprezzare la straordinaria verve di Portis (un «Cormac McCarthy divertente», lo ha definito la critica, ma non è vero niente: Portis ha una sua, precipua originalità che in comune con il bardo del Texas ha solo l’argomento trattato: il Male!), i fratelli Coen portano al cinema una nuova versione del Grinta, cercando di restituire alla storia quella patina di ficcante cinismo che il primo film aveva deciso di accantonare. E in linea di massima con questo nuovo True Grit i due talentuosi cineasti ci riescono, anche perché al posto di Wayne abbiamo qui il nostro Drugo preferito: Jeff Bridges, ormai promosso (dopo l’Oscar dello scorso anno, ma per lo stuolo di fan la conferma ufficiale era assolutamente pleonastica) ad attore di prim’ordine e sinceramente convincente nei panni di un ruvido sceriffo guercio e dedito alla bottiglia che quando si tratta di far suonare le proprie Colt non è secondo a nessuno. Di loro Joel e Ethan Coen ci mettono qualche trovata stilistica interessante, la scelta di Matt Damon nella parte di un ranger dai capelli laccati e di Josh Brolin in quella del ricercato, più alcune situazioni tipicamente coeniane come il cadavere impiccato ad un albero altissimo che diventa merce di scambio, oppure i personaggi stralunati e folli come il bandito che imita i versi degli animali e il viadante vestito di pelle d’orso con tanto di fauci in bella vista. Di per sé è fantastica la rappresentazione realistica della Frontiera: con le cavalcate che stremano e riducono le natiche in frolla, il whiskey descritto come veleno torcibudella che costringeva gli uomini a fare cose impossibili e le sputafuoco che s’inceppavano sempre a causa di una tecnologia tutt’altro che raffinata. E poi c’è lei, Hailee Steinfeld, giovane interprete forse un po' inespressiva ma decisamente credibile nel ruolo di una Mattie Ross risoluta, calcolatrice e anche un po’ scassacoglioni! C'era bisogno di questo remake? Che dire: il mito continua…

6 commenti:

Annalisa ha detto...

Oddio, non riesco più a starti dietro. Nel senso che sto ancora leggendo (ora) Cain, e sto aspettando Shepard, e tu sei già eoni avanti.
Però, piano piano, arrivo, eh?
:-)

sartoris ha detto...

Fai con calma, Annalisa!!!!
(io ho deciso di fare una maratona con IL GRINTA, l'altro ieri: ho visto il film dei Coen, poi ho rivisto quello con John Wayne e intanto leggevo il romanzo pubblicato da Giano: alla fine direi che dei tre prodotti quello davvero consigliabile, che scende via senza intoppi e che uno non deve proprio farsi mancare è il libro!!!)

Annalisa ha detto...

Propendevo per l'ultimo film (vabbè, in realtà propendevo per il grande Lebowski ;-)
ma leggerò il libro, allora.

sartoris ha detto...

No, bhé, comunque i Coen restano sempre i Coen, sia chiaro, valgono sempre e sono una spanna più su di tanta gentaglia con la macchina da presa...

Stefano Agostini ha detto...

True Grit venne pubblicato dalla Mondadori nel 1968, con la splendida traduzione di Paola Forti. Ho letto la nuova traduzione fatta dalla Editrice Giano e sono rimasto profondamente deluso : è fatta malissimo... Chi riesce a procurarsi la traduzione Mondadori, pubblicata col titolo "Un vero uomo per Mattie Ross" non se la lasci scappare !

sartoris ha detto...

@Stefano: ho scoperto anch'io (dopo aver scritto il post quassù) che esisteva una versione precedente a quella di Giano ma è assolutamente introvabile: io ne ho letto qui
http://libriwestern.wordpress.com/2009/07/15/un-vero-uomo-per-mattie-ross/

grazie per il passaggio:-)