martedì 15 aprile 2014

lurido, meraviglioso Messico...

Voglio la testa di Garcia, tratto da un soggetto originale di Frank Kowalski, mantiene una sua unicità nel corpus dell'immenso cineasta statunitense Sam Peckinpah: a torto considerato dalla critica un'opera minore, questo film datato 1974, sicuramente vessato da alcune innegabili lacune di script (sono leggendari i deliqui maniaco-depressivi del regista durante le riprese), sviluppa alcune tendenze che nelle precedenti opere del regista erano ancora in utero. Prima fra tutte la rimodulazione della funzione del personaggio femminile. Raramente gli eroi di Peckinpah si abbandonavano tra braccia muliebri senza tentennamenti, o senza brutalità. Qui Elita, entraineuse di bassa estrazione, diventa fulcro della vicenda trasformando il concetto stesso di Amore in quello di «unico luogo che l'abiezione del mondo non può intaccare». Poi c'è lo sguardo clinico verso la miseria dei villaggi messicani che i protagonisti della storia attraversano, il quale si fa presto epitome di quello universale diventando - metaforicamente - faccia capovolta dello sviluppo tecnologico moderno. Ma soprattutto Garcia ci consegna una «poetica dell'eccesso» ormai finalmente matura: il regista ci accompagna con questa pellicola dritti dritti all'inferno, nel Messico più mucido e dissoluto, in un incrocio, diseguale e rapsodico, tra la ballata macabra e il road-movie (naturalmente, trattandosi di Peckinpah, condendo il tutto in salsa western). La storia ha inizio quando un potente signorotto del luogo decide di mettere un'enorme taglia sulla testa di Alfredo Garcia, avventuriero bohemienne reo di avergli ingravidato la giovane figlia. Sulle tracce di Garcia si getta una organizzazione criminale pronta a commettere le efferatezze più cruente pur di mettere le mani sulla grossa taglia. Nella vicenda viene coinvolto anche un disilluso pianista senza una lira, un Warren Oates davvero spaziale (attore-feticcio di «Bloody Sam»: Oates da caratterista perenne - e compagno di sbronze del regista! - viene qui finalmente promosso primo attore: memorabili i suoi dialoghi con la testa custodita in un sacco fetido e cosparso di mosche). Anche lui, soggiogato dalla sete d'rricchimento facile, si butterà a rotta di collo nell'inseguimento. Rivalutato negli ultimi anni, Voglio la testa di Garcia è sicuramente uno dei film più autentici e sinceri di Peckinpah. Sebbene la prima parte risulti un po' tirata, soffocata da una lentezza prossima al torpore, il film si riscatta notevolmente nel finale, in un climax irresistibile di ultra-violenza e disperata bellezza. I ralenti esasperati delle sparatorie, il montaggio serratissimo e la ricerca spasmodica di una «morte gloriosa» (come nell'inimitabile fine di Wild Bunch), l'attenzione per il lato oscuro della Frontiera e la riflessione sul tradimento sono tutti elementi fondanti della scoppiettante forza espressiva insita nella visione di Peckinpah, elementi che hanno marchiato a fuoco generazioni di cineasti posteriori (da Scorsese a Tarantino). Girato in piena libertà e senza il fiato sul collo dei produttori, Peckinpah ebbe a dire di questa pellicola: «buono o cattivo, bello o brutto, è come lo volevo io».

3 commenti:

CREPASCOLO ha detto...

Elita " Canedipaglia" Garcia lavorava come cameriera in un tex mex in un centro commerciale alla periferia dell'impero. Aveva una chioma selvaggia come il pelo di un golden retriver che zompa dalle acque accompagnato da un coro di mandibole di piranas delusi che scattano come un controllo di Equitalia in una srl alla periferia dell'impero vicino ad un centro commerciale. Canedipaglia non era bella e non lo sarebbe stata x nessuno fino a quando i trendsetters non avessero deciso che il baricentro basso, il polpaccio peloso ed un baffo leggero e carmencovitico erano seducenti come una fetta di melone a Ferragosto. Eppure quel delirìo tricotico attraeva maschi di ogni foggia e censo. Roberta Raian aveva un nome improbabile come quello di una comparsa in Diabolik e lo stesso fisico di Eva Kant, ma la sua bellezza stilizzata intimidiva i maschi che le preferivano quel cespuglio rotolante di Elita. So goes life, sometimes. RR le aveva provate tutte - salopette sopra canotta da survivor, trucco tamarro, orecchini da trans visibili anche dalla luna - ma "il cromosoma ipsilon non finiva mai nel cruciverba della vita " come annotava nel suo diario dopo il crepuscolo. Sarebbe stato il caso la piantasse con gli Harmony.
" Pechino " Peckinpah era scappato dagli arresti domiciliari dopo aver allacciato il suo braccialetto segnalatore alla zampa del suo carlino che , non ci si può fidare di nessuno, lo aveva tradito non appena finito il Ciappi abbaiando fino a che i vicini non avevano sfondato la porta di casa a colpi di canne mozze ( matricola abrasa, ma questa è un'altra storia).
Pechino si era nascosto nella bottega della sua ragazza, Mascia, di professione apprendista sciampista. Voleva solo un posto dove rilassarsi. Nel silenzio. Senza affanni. RR entrò con la grazia di una Erinni urlando che voleva la testa di Garcia. Mascia non fece in tempo a chiuderle l'uscio sul profilo classico. Pechino le saltò alla gola piagnucolando che voleva solo il riposo del guerriero. Il carlino lo raggiunse in quel momento. Fu zuffa, come in un cartoon di Tex Avery. Quando Mascia riuscì a separarli Pechino sembrava la graticola del gioco del tris, completa di croci e cerchi. RR aveva la zazzera di Medusa dopo un rave di un anno in zona di guerra.
Il botolo era perplesso: tutto quel moto gli aveva messo apettito. Mascia gli fece assumere un bigodino intinto nel balsamo. Cattiva.

sartoris ha detto...

@Crepa ti sei accorto che i tuoi racconti/commenti/deliri finiscono sempre con "cattivo/a" oppure "peccato"? (penso comincerò a ritagliarne solo alcune porzioni, dei tuoi interventi, sino a svelare il puzzle finale (ipotesi di gombloddoooooo;-)

CREPASCOLO ha detto...

Cattivo, pazienza, peccato o so goes life. Per la maggior parte. La mia risposta a " il che è bello ed istruttivo " nello Zibaldone di Guareschi.