martedì 16 novembre 2010

A spasso col vichingo orbo...

C'è uno sparuto manipolo di vichinghi che tiene segregato come un animale da combattimento un misterioso guerriero muto, facendolo esibire in crudi duelli all'ultimo sangue con suoi pari. Un bel dì succede che l'uomo, orbo e apparentemente invincibile, rompe le catene e stermina i suoi aguzzini, risparmiando dal flagello vendicativo solo il ragazzino che lo sfamava. Nel suo successivo vagabondare verso casa One-eye (questo il suo nomignolo) incoccia in un gruppo di cristiani che lo convincono ad accompagnarli in Terra Santa, ma un fitto banco di nebbia manda fuori rotta la loro imbarcazione, facendola approdare in un mondo selvaggio e sconosciuto (forse l'America) dove i viaggiatori, sperduti, affamati, si confronteranno con le loro paure più recondite.
Diretto da Nicolas Winding Refn (già regista dell'incisivo bio-pic Bronson) e sorretto dalla solida presenza scenica (anche perché non dice una parola) di Mads Mikkelsen nel ruolo principe, Valhalla Rising è un film profondamente meditativo e, a dispetto di ciò che ci si aspetterebbe spiluccando la trama, ben lungi dal limitarsi a mettere in scena un mero scontro muscolare tra i rozzi titani che popolano l'iconografia del Medioevo in cui la storia è ambientata. Qui si affronta - ambiziosamente! - il tema dello scontro tra religioni, e lo si fa in maniera quasi subliminale, rappresentandone cioè gli effetti nelle vite di un pugno di personaggi anonimi, senza tempo, violenti ed epici nella loro isterica ricerca d'una fede (qualsiasi) che li liberi dalle proprie insopportabili debolezze umane. Per questo, Valhalla Rising si dispiega attraverso momenti d'improvvisa (e mortifera) lentezza, compresso tra volute di silenzio che sono lo specchio del silenzio del protagonista e che si contrappon-gono perfettamente ai momenti di repentina brutalità che punteggiano i novanta minuti di pellicola (estenuanti e pregni, però, come fossero tre ore).
La prima parte, che sintetizza con rapide pennellate la vita del prigioniero, è quella meglio orchestrata: One Eye, solenne e iperbolica mescolanza di tutti gli eroi solitari di Sergio Leone e Kurosawa, non conosce il piacere ma solo il dolore estremo. I feroci combattimenti intorno al palo sono sì disturbanti, ma mostrano un'irruenza (perfettamente resa dai suoni delle ossa che si contraggono e si spezzano) esteticamente assai seducente. Poi sopraggiunge la parte contemplativa (aiutata da una cornice naturale, quella delle highland scozzesi, che alimenta l'afflato metafisico senza grosso sforzo) e l'attenzione dello spettatore viene messa a dura prova, salvo venir rinvigorita da un finale di redenzione e morte davvero emozionante. Piaccia o meno, resta nella testa per giorni.

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