La liaison tra il Nazionalsocialismo e la Magia Nera costituì, com’è noto, un elemento cardine del successo del Terzo Reich in Germania, qualcosa che si acuì sempre più lungo il mortale cammino del regime hitleriano arrivando ad assumere, nella coda conclusiva del conflitto, forme di fanatismo davvero estremo. Ovviamente, tale circostanza non poteva non costituire un richiamo fortissimo per scrittori e sceneggiatori di tutto il mondo, i quali, con risultati invero altalenanti, dalla fine della guerra in poi hanno rinverdito il dato storico rimpolpandolo di varianti romanzate ora geniali ora scontate (entrambe le categorie possono, a modesto parere di chi scrive, essere riassunte nell'Hellboy di Mignola, visionario fumetto nazihorror made in USA trasposto con successo qualche tempo fa sul grande schermo).
Joel Schumacher, classe 1939, regista poliedrico talvolta discutibile (è quello dell'orrido Batman & Robin, santoddio, ma è anche lo stesso di Linea mortale e Ragazzi perduti) elargisce con Blood Creek (2009) il proprio interessantissimo contributo al filone mettendo in scena una storia che parte con la ricerca da parte d'un manipolo di nazisti di rune magiche lasciate in America dai vichinghi - magnifico il prologo girato in un vivido b/n, in cui si fondono le barbarie che regolano la vita agreste con quelle dei riti dell'occulto - per trasformarsi in uno slasher d’ambientazione redneck alla Non Aprite quella porta.
La vicenda vede protagonisti due fratelli, Victor e Evan, il primo eroico veterano della guerra in Iraq, il secondo più modesto infermiere. Victor (è il muscolare Dominic Purcell, paladino televisivo di Prison Break) un giorno si volatilizza nel nulla, rapito - o ucciso - da qualcuno nel bosco. L'altro non riesce a darsi pace e passa i due anni seguenti a struggersi. D'un tratto, senza preavviso, Victor fa ritorno: barbuto, stanco, zeppo di cicatrici sul corpo: senza spiegare nulla ingiunge al fratello di prendere due fucili e di seguirlo alla volta d'una fattoria nella quale asserisce di essere rimasto prigioniero nel biennio della sua scomparsa. La magione, contrassegnata dappertutto di inquietanti geroglifici, è edificata sopra un monolite magico d'origine vichinga e i suoi occupanti (gli stessi del prologo in b/n) sembrano non essere invecchiati di un giorno dall'epoca del Reich. Scatta lo scontro a fuoco, i fratelli prevaricano con facilità sulla famiglia di bifolchi ma questi nascondono un segreto: nei meandri dell'appezzamento vive un super-soldato nazista che si ciba di sangue e dolore e che non muore mai. Da qui in poi la pellicola sarà un viaggio all'inferno ad altissimo tasso di emoglobina, con immagini di potente resa scenografica e grande fascino visivo (un cavallo-zombie in fiamme che assalta la cucina in cui i fratelli si sono arroccati, un villain davvero impressionante col suo vocione teutonico e le bende muffite a celargli il volto). Il talentuoso cineasta settantenne imprime forza ed energia alle sequenze d'azione, fornendo alla storia nel complesso un ritmo davvero forsennato che (col supporto d'una colonna sonora efficacissima) riesce nell'intento di compensare le pur numerose falle della trama. Aiutati dalla confezione volutamente sporca, qua e là sgranata, si ritorna con la mente con piacere a quei classici b-movies anni settanta, pellicole forse raramente vicine ai capolavori ma capaci spesso di lasciarti in testa fotogrammi che faticano a dissolversi anche giorni dopo la visione. Consigliatissimo.
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