sabato 24 aprile 2010

Visto da Pent...

Crisantemi e western del sud.
Per un bel po’ di tempo nessun narratore del sud in vena di occuparsi di disagi sociali, malavita e delinquenza, potrà esentarsi dal confronto psicologico con il pugno nello stomaco di Roberto Saviano e del suo Gomorra. Il sud del Belpaese non è solo mafia e corruzione, per fortuna, ma ci siamo sentiti appioppare un attestato di «ingenuità» quando avevamo difeso la forza dell’indagine in diretta di Saviano. I clamorosi risultati del libro ci hanno dato ragione, anche se ovviamente tutti preferiremmo la quiete di un sud ricco e adagiato nella bellezza del suo paesaggio e della cultura millenaria.
Con Saviano devono fare i conti anche Marco Vespa e Omar Di Monopoli. Due bei libri, sinceri e sofferti, uno in punta di piedi – quello di Vespa – l’altro lercio come il degrado delle voragini sociali accantonate dalla politica dell’opportunismo. Sicilia e Puglia, gli anni ’80 di Vespa e la fine di un Novecento – per Di Monopoli – in cui la barbarie sembra essere diventata l’unica arma di difesa collettiva. La malavita c’è, sovrasta geografie e personaggi, grava sui paesaggi caldi e avvolgenti come una cappa di piombo che costituisce l’inevitabile, quasi necessaria nervatura del tessuto sociale.
Vespa traccia con sottile disincanto un percorso anzitutto psicologico in Nata in riva al mare […] Tanto raffinato e sottile è questo romanzo, quanto stomachevole nel suo iperrealismo è l’esordio di Di Monopoli: Uomini e cani è un western in terra di Puglia, un romanzo aspro e senza sorrisi che rimanda a un neorealismo aggiornato in chiave splatter, con tanto di teste sfondate da pallettoni e uomini sbranati da pitbull addestrati a suon di bastonate ai combattimenti con altri cani. C’è un parco naturale da creare al posto di una vecchia salina, ci sono fantasmi d’umanità in attesa di sfratto dai loro baraccamenti abusivi, c’è un vecchio impazzito che abbatte carabinieri a fucilate, c’è una famiglia – i Minghella – in stile Non aprite quella porta, che vive seminando il panico nella zona, la fittizia Torre Languorina che potrebbe diventare un eden per turisti. In una frenetica settimana di stragi e sbudellamenti, i cattivi vengono annientati o incarcerati, il guardiano della riserva – Nico – ritrova un barlume di fiducia nel futuro, il vecchio maneggione Don Titta riceve la giusta punizione, ma in fondo tutto resta come prima, in una terra di nessuno dove la mestizia affamata degli abitanti non vede l’utilità di salvare quattro anatre selvatiche mentre loro crepano di fame da secoli, alla faccia della malavita e della politica locale.
Truce e ripugnante, bavoso e trasudante odio e violenza, nelle sue isterizzazioni urlate il romanzo è un atto d’accusa aperto e senza appigli occasionali, nella delirante, ma non incredibile, resa dei conti di un intero sistema sociale imbarbarito dalle circostanze. Anche questa è ingenuità di lettura da parte del critico?
(Sergio Pent per Tuttolibri – La Stampa)

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