venerdì 23 aprile 2010

Autoscatto con dedica...

La violenza insanguina il Salento!

«Non ci sta niente da fare, questa terra di frontiera è...», così, poco prima di venire ammazzati, parlano due comparse del corale Uomini e cani, romanzo d'esordio del trentaseienne pugliese, sponda tarantina, Omar Di Monopoli, già sceneggiatore nella factory di Edoardo Winspeare, assieme ai fratelli Piva uno degli animatori della rinascita cinematografica made in Puglia. Il fenomeno, trascinato dalla riscoperta della pizzica, non poche volte si è trasformato anche in un fatto modaiolo, dove l'elogio del Pugliashire sconfina spesso solo in una corsa alla masseria più esclusiva per l'estate. In realtà tra musica, letteratura e cinema (mettiamoci anche la politica con l'ascesa di Vendola) un'onda pugliese e ancor più salentina c'è stata e c'è ancora. Come ogni terra di frontiera la regione si presta a violenze e sfruttamento: Uomini e cani racconta – alla Sam Peckinpah – la violenza come sintesi di tutte le relazioni umane. Nella settimana di un maggio già afoso in cui si sviluppa il maniera circolare la vicenda, tutto è scandito da ammazzamenti, ricordi di violenze passate, sopraffazioni culturali, da un cancro senza tempo che s'attacca anche alle apparenti opere di salvaguardia della natura per volgerle allo sfruttamento.
Nel profumo di macchia arsa dal sole accecante si muove Nico, ritornato a Languore, il suo paese, dopo un periodo di fuga seguito al suicidio della compagna e alla fine di una stagione di lotta ambientalista con l'uomo che è diventato sindaco del paese. E promotore del parco della salina, area sulla quale però ha steso le sue mani il vecchio signorotto locale, il corruttore Don Titta Scarciglia, che progetta un mastodontico villaggio turistico. I personaggi di questa storia sono divisi: c'è chi opera per un Sud da preservare paesaggisticamente e chi invece vuole spremere selvaggiamente il territorio. In questa battaglia si muovono Nico, Enrico e Don Titta. Ma c'è chi da quella terra senza speranza anela a fuggire, come l'ex parà Buba, esperienze non poco ortodosse in Kosovo con relativa espulsione dall'esercito alle spalle. O come Milena, fuggita a Bologna per ripararsi dalle furie del fidanzato violento, e tornata nella fatale settimana del racconto perché il padre sta per essere sfrattato a causa dell'area protetta. Sputazza, questo il nomignolo dell'uomo, appartiene agli esclusi, a quelli che sono tagliati fuori dal cambiamento: sono i residui di un mondo arcaico, indurito da troppo pietre. Con lui ci sono Zà Uccia, Tonna Lina, i membri della violentissima famiglia Minghella e una sorta di eremita, Pietro Lu Sorgi, che disturbato dai vigili urbani nel suo derelitto ritiro dal mondo dà il via ad una vera carneficina: doppiette e pitbull affamati strazieranno corpi dando vita ad una incalzante caccia all'uomo che s'intreccerà con il regolamento dei conti finale.
La contiguità tra uomini e cani dà conto di un universo violento dove il sangue scorre sulla terra secca, in questo romanzo che è ora un western corale ora una tragedia mediterranea alla Ballard - «con tutte quelle auto disposte alla rinfusa tra gli alberi e le attrezzature agricole sembrava l'avamposto di una popolazione post-atomica, o una specie di cronicario per macchine incurabili» - ma saldamente impiantata in una lingua tornita, barocca e dialettale.
(Michele Di Mieri per L'Unità.)

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