giovedì 13 giugno 2013

Johnny Guitar (1954)

Nonostante il parziale successo al botteghino, quando questo film uscì negli USA finì per attirarsi una serqua di aspre critiche che alla fine sfociarono nell'accusa di anti-maccartismo. Era infatti il 1954 e l’America, percorsa dalla febbre oscurantista del senatore McCarthy, giudicò del tutto inattendibile la rivalità fra i due personaggi femminili del film (la recitazione della grande e bizzosa diva Joan Crawford risultò manierata mentre quella dell’antagonista Mercedes McCambridge troppo eccessiva). A causa della trama d’impianto teatrale, quindi molto«parlata», Johnny Guitar fu paragonato dal pubblico addirittura a una soap opera. Il grande riscatto per la pellicola giunse però presto dalla Vecchia Europa, nella quale questo anomalo western assurse in poco tempo allo status di cult-movie - soprattutto grazie all’innamoramento di François Truffaut, che ne trattò con dovizia sui Quaderni del Cinema e successivamente lo citò in maniera esplicita in una scena de La mia droga si chiama Julie.
I temi che affronta Ray nel film sono dei veri e propri topoi del filone. C'è la donna contesa (ma è conteso anche il protagonista maschile, il roccioso attore Starling Hayden, simbolo del puro machismo a stelle e strisce di quegli anni), c'è la frontiera che scompare per l'arrivo della ferrovia, con relativo e conseguente crepuscolo del mito dei pionieri, c'è l'uomo solo contro tutti e c'è infine lo showdown finale e risolutivo. Ma poi nello svolgersi il film non si perita di adottare moduli noir, mettendo in scena un universo dominato dalla ferocia, in cui si muovono personaggi disperati con un passato da lasciarsi alle spalle (tipico dei film del grande cineasta), che pretendono di amarsi contro tutto e tutti e fronteggiando a causa di ciò un destino crudo e crudele.
Inoltre, provenendo Ray dall’architettura, Johnny Guitar si spinge stilisticamente ancora più in là dei prodotti a lui coevi, riuscendo ad allestire scenograficamente una visione d’insieme, un decòr simmetrico ed estetizzante, inusitato per il periodo, per ottenere il quale il cineasta ricorse anche ad un uso particolare del colore (va detto che parte dell’effetto di saturazione cromatica è dovuto allo stranissimo standard usato dell’epoca: il Trucolor): il tutto al servizio del vigoroso sottotesto del film, imperniato sulla tolleranza e - in fondo è vero - sull'imperante caccia alle streghe, ma anche sulla forza delle passioni (con tutta la metafora del fuoco che sfocia nell'incendio).
Esiste in questa splendida pellicola d'epoca un perfetto rigore geometrico nel descrivere i sentimenti che muovono i personaggi, fornendo loro passione e verosimiglianza pur nella loro programmatica poeticità. Parlano per frasi nette, certo, e ogni loro dialogo sembra talvolta un po' artefatto, didascalico quasi; eppure quando Vienna (la Crawford, qui al suo apice) al buio riluttante della sera, lo sguardo irradiato dalla luce di un faro, scoppia in lacrime confessando di aver sempre aspettato che il suo Johnny tornasse, è un momento che si imprime a fuoco nella memoria del cinema e in fondo al cuore dello spettatore.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

me lo ricordo bene, gran bel western, strano anche...
(PIPPO)

sartoris ha detto...

eh sì, Pippo, ci sta tutto l'aggettivo "strano", ma bello ;-)

Anonimo ha detto...

Quanti ricordi da questo blog!
Fabio

sartoris ha detto...

@Fabio, eh sì, quaggiù cavalchiamo anche le praterie del tempo :-)