giovedì 22 ottobre 2009

Post-noir...

È un bel dibattito quello che si sta scatenando sul sito satisfiction. Si parla di post-noir: riporto qui il condivisibilissimo parere di Marco Vicentini, senior-editor della battagliera Meridiano Zero.
«Non mi convince molto l’etichetta post-noir, perché la trovo priva di senso a parte quello (importantissimo, certo) della vendita, del marketing. Mi ricordo dell’enfasi e dell’attribuzione entusiasta dell’etichetta di thriller a qualsiasi libro molti anni fa, in seguito al successo della formula legal-thriller per Scott Turow, e soprattutto la dicitura un thriller dell’anima (non ricordo più il libro a cui era stata attribuita, ma ricordo ancora la volontà forsennata di usare l’etichetta thriller a tutti i costi, ovviamente anche a sproposito).
Io sono convinto che già ci sia un’enorme confusione sulla semplice e già nota etichetta “noir”, per cui andare a differenziare e a inventare nuove derivazioni a partire da una base non ben definita, mi sembra azzardato…
Il noir ha una definizione non univoca, estremamente soggettiva.
Ci sono prima di tutto le definizioni che variano in ambito nazionale: il concetto di noir è diverso negli USA, in Francia, e in Italia. Ad esempio, un certo tipo di romanzi, che raccontano in dettaglio, con un certo compiacimento descrittivo, le efferatezze dei delitti, in Italia vengono chiamati noir, ma sono etichettati come pulp fiction negli USA. E poi ci sono le definizioni personali. Se posso citare la mia, per me il noir è innanzitutto un’atmosfera. Ho pubblicato nella collana noir della Meridiano zero i primi due romanzi di Derek Raymond (Atti privati in luoghi pubblici e Gli inquilini di Dirt Street) e i due romanzi di Harry Crews (La fiera dei serpenti e Lucidi corpi) che per me sono la rappresentazione di quello che è il vero spirito del noir. Ma le opinioni che ho raccolto più di frequente sono state “Molto bello, sì, l’ho apprezzato. Ma NON è noir, questo!!!” E perché? Semplicemente perché non ci sono delitti, non c’è violenza, che sono molto spesso identificati da molte persone come la quintessenza del noir. Non fraintendetemi, anch’io penso che moltissimi noir trattino splendidamente della violenza. Ma per me il noir è soprattutto l’angosciosa attesa di una fine già segnata, il fatalismo implicito nel percorrere una strada che si intuisce senza possibilità di scampo, il cinismo nella descrizione dei moventi degli esseri umani o della società, molto più spesso materiali ed egoistici che spirituali o disinteressati.
Questa definizione, che potrebbe sembrare un po’ generica e fumosa (ma spero di no), unisce nella lotta impari contro una sorte ineluttabile sia il destino del criminale in fuga che la giovane donna che sta disperatamente cercando calore umano e un rapporto con i coetanei (Atti privati in luoghi pubblici) o il ragazzo che intravede a 18 anni il vuoto assoluto delle sue prospettive di lavoro o crescita in un paesino della provincia americana (La fiera dei serpenti). Tutto questo serve solo a mostrare i problemi di definizione, perché in realtà per gran parte dei romanzi la definizione di noir è unanime: siamo tutti concordi che Ellroy scrive dei romanzi noir. Ma anche lì, le motivazioni sono diverse: quel romanzo è noir per la violenza, perché non è a lieto fine, o per altri motivi? Oppure la domanda frequentissima: quell’altro romanzo è un giallo o un noir?
La mia personalissima risposta è che nella narrativa del nuovo secolo, i generi continuano a esistere: la discussione generi sì generi no, narrativa di qualità, narrativa d’evasione per me non ha senso perché può partire solo da chi sente una differenza tra cultura “alta” e “bassa”, sia per convinzione personale, sia per ribellione all’idea - che in fondo sono la stessa cosa. Il genere continuerà ad esistere fintantoché degli autori si rifaranno ad esso e saranno interessati a scrivere delle opere che ne rispettino la struttura evitando di arricchirlo o rinnovarlo al punto da trascendere nell’opera tout court.
Ma esistono sempre di più degli autori che fanno proprio questo, cioè attingono, oltre che al patrimonio culturale nazionale o internazionale, al grosso bacino della cultura popolare: dal fumetto alla musica rock, dal cinema alla pubblicità, e alla narrativa di genere. Superando così i limiti specifici di ogni campo, e quindi anche quelli del genere. Penso all’iperrealismo di Chuck Close nelle arti figurative, al cinema di Stanley Kubrick, dai romanzi di Jonathan Coe o Cormac McCarthy, al fumetto di Chris Ware.
Questi autori fanno delle opere che possono essere etichettate in vari modi, a seconda del punto di vista e dell’aspetto che colpisce di più lo spettatore/lettore. E le etichette sono utilissime proprio per aiutare il nuovo lettore a orientarsi nella gamma dei diversi testi che vengono continuamente pubblicati. Diventano quindi uno strumento di vendita, e in quanto tali la priorità è allora l’efficacia promozionale e non l’analisi dell’opera.
Per questo io sarò dispostissimo a utilizzare post-noir o qualunque etichetta riesca a dare visibilità ai miei romanzi, ma non credo che questa si appoggi a nessun processo di evoluzione realmente esistente» MARCO VICENTINI.

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