martedì 31 marzo 2009

Ferro e fuoco letto da Rotino...

(Il giornalista e scrittore Sergio Rotino, che presentò in mia compagnia a Bologna Uomini e cani, ha recensito per Liberazione il mio secondo romanzo. Per buona parte del pezzo non spende parole esaltanti riguardo Ferro e fuoco, però il suo punto di vista - come già in altre occasioni - mi ha molto colpito e nonostante non ne condivida l'impianto critico ritengo contenga numerosi elementi di riflessione.)
È una riflessione che ho già fatto altrove, ma torna buona ancora una volta. Non credo infatti di sbagliarmi se dico che ogni appassionato di musica rock, pop, soul e via elencando sa come, per qualsivoglia band, il secondo album sia un duro quanto necessario banco di prova. È nel crearlo e produrlo che il gruppo comprende se esiste una intenzionalità forte, una vera determinazione dietro la semplice capacità compositiva. Non solo, è lì che ogni combo musicale individua l’ostacolo da superare per giungere sul terreno della possibile quanto definitiva consacrazione. Se questo non accade, se ci si trova davanti a cd interi dove l’abilità sugli strumenti non comunica alcuna sapienza emotiva, nessuna arguzia nella struttura della canzone, allora qualcosa non quadra. Niente di grave, certo, ma pur sempre un segnale di pericolo. In questo genere di casi la critica musicale usa da sempre il termine «interlocutorio». Un termine gentile attraverso cui si dice - almeno a parole - come la fiducia riposta nella band non sia andata persa, però qualcosa non torna. Insomma, si sposta il momento del vero giudizio a una terza prova. Posizionandoci sul versante letterario, dopo una lettura ripetuta (che bello potersela permettere ogni tanto) «interlocutoria» ci appare Ferro e fuoco, seconda prova del salentino Omar Di Monopoli licenziata la scorsa estate per i tipi di ISBN. Classe 1971, operante da Manduria, Di Monopoli aveva ben impressionato col suo esordio, Uomini e cani, grazie a una riuscita miscela di indagine sociale condotta sul territorio salentino, di rivisitazione dello spaghetti western e di citazioni descrittive catturate da certo horror americano (per dire, lo stato di abbandono e di sporcizia millenaria in cui versano le fattorie perse in fondo ai campi coltivati così come vengono rappresentate da Tobe Hopper a Rob Zombie, specie da quest’ultimo) innervate però su un tracciato prettamente noir. In Ferro e fuoco il giovane autore ripete l’esperimento, anche se sposta la location dell’azione nel foggiano, in Capitanata, durante la raccolta dei pomodori.
Il problema sta tutto nel fatto che, se a livello linguistico c’è la volontà da parte dell’autore di sperimentare un approccio più turgido, più risolutamente barocco alla pagina scritta rispetto al lavoro precedente, le dosi per gli ingredienti immessi nella struttura narrativa non appaiono perfettamente calibrate. 
Resta l’impianto noir e l’ambientazione, qui torrida, da piena estate; torna l’idea del western (chiodo fisso di Di Monopoli), ma si perdono sia l’affondare dentro il ventre molle della società pugliese armati di bisturi e scandaglio, sia quelle descrizioni di abbandono e desolazione, a questo punto umana quanto paesaggistica, di cui si diceva prima. Ci sono ancora, certo, ma usate più come sfondo e come pretesto, in modo a tratti poco convinto e convincente, come se il romanzo fosse stato più scritto che progettato, messo giù con una certa urgenza se non con fretta. E la cosa potrebbe avere in sé un senso, ovvero quello di non perdere il filo di una intuizione che riguarda il territorio pugliese preso nella sua interezza. Intuizione che, se esiste, nelle pagine del romanzo sembra ridursi a una - per il lettore - soddisfacente costruzione noiristica con strizzate d’occhio a certo trucidume, ma senza “effettarlo” troppo, per paura di cosa non si sa. D’altro canto le tre storie che si incastrano fra loro - in un gioco che ricorda più le scatole cinesi che l’alternarsi o l’intrecciarsi di temi - durante l’arco della narrazione, nulla fanno in più che esistere. Sì, cercano di sostenersi vicendevolmente, di darsi spinta l’una con l’altra, ma è come nella teoria del triangolo isoscele: appena un lato viene a mancare il resto crolla miseramente su se stesso nel breve volgere di un attimo. Così la bella idea dei killer a pagamento completamente vestiti di nero, a metà fra cavalieri dell’apocalisse, il trio di hard rock texano degli ZZ Top e moderni cacciatori di taglie, viene usata per quattro, cinque pose ben riuscite ma troppo frettolose, senza darle né lo spazio né l’allure del mistero e della minaccia (McCarthy resta in panchina). Anche l’altra idea - quella della fuga del turco Kazim con l’ostaggio-donna - non si muove da questo, sfarinando la parte dialogica delle due mentalità-due visioni del mondo in un misto di retorica confusa e a buon mercato dove ognuno dei personaggi sembra dire meccanicamente le battute, sicuramente mandate a memoria, avendo l’accortezza di pescarle dal cesto degli stereotipi più classici e di sicura riconoscibilità. E quando gli uni incontrano gli altri, quando i killer trovano Kazim, sappiamo benissimo come andrà a finire. Lo sappiamo praticamente dall’inizio del romanzo. Sono perciò personaggi “ben recitati" (come anche il non risolto Andrei) di una tragedia annunciata ma mai esplosa in tutto il suo furore quelli che ci propone Di Monopoli, ossa troppo levigate dalle correnti. Nemmeno la cinica visione del mondo offerta dai cattivi a tutto tondo sembra dare un minimo di veridicità al quadro (compresa la scalata al potere di Palla di biliardo contro il suo capo, il Pellicano, che finisce in un truculento spargimento di sangue), né la offre il sapere che tutto ’sto po’ po’ di casino racchiuso in 120 pagine è causato da un barbaro desiderare la donna d’altri. E che sì, Mariehla, questa donna sempre e solo nominata, è un oggetto del desiderio nelle mani di tanti, troppi uomini capaci di vederla e usarla appunto unicamente come oggetto. Ma anche in questo dichiararsi umani (almeno per Palla di biliardo), la loro ferinità, il loro vivere malamente sembra troppo “detto”, abilmente detto, e eccessivamente rappresentato; non provoca un briciolo di fastidio, non ha l’anima dannata di un Paris Trout, per dirne uno. Allora il ferro dei coltelli più che delle pallottole fa male poco o punto, il fuoco si vede appena, non divampa, si intuisce solamente, e la cosa fa rabbia. Detto questo, bisogna però anche dire (e non è un contraddirsi) che tutto funziona in Ferro e fuoco, tutto scorre perfettamente. In alcuni passaggi, appassiona anche. Perché Di Monopoli non è uno sprovveduto: sa come organizzare il testo, sa creare lo scorcio paesaggistico e dare un’anima in ferro ai suoi personaggi. Solo che - anche lasciando da parte i nuovi schiavi della raccolta dei pomodori, le loro e le nostre contraddizioni - questo Ferro e fuoco ci appare vicino alla prova generale di un grande romanzo, uno di quelli capaci di inoltrarsi nei territori dell’abiezione umana per tornare e mostrarcene almeno una parte. Peccato siano solo prove. Ci si deve così accontentare (ci si deve?) di un ottimo, in parte irrisolto, thriller dove il formalismo di alcune soluzioni narrative ha sequestrato la mano all’autore, occupando di fatto l’intero spazio della storia. Ma noi crediamo nel talento del giovane narratore salentino. Perciò lo attendiamo alla prova del terzo romanzo, quello che chiudendo la trilogia pugliese - come è nei suoi propositi - faccia pendere definitivamente la bilancia a favore dei pregi inscritti nella sua narrativa.

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