Arizona, fine '800. Cabot, un roccioso maggiore al comando di un distaccamento di frontiera del settimo cavalleggeri, crea incidenti fasulli per ottenere l'alibi e sterminare i pellerossa, razza verso la quale nutre un odio radicale. Ma quando il governo invia un ispettore - tal colonnello Pembroche - Cabot si mette a fare carte false per dare a intendere che la situazione sia ancor più grave (facendo mascherare da indiani alcuni suoi scagnozzi). Epperò lo spavaldo Cabot (Patrick McGoohan) non ha fatto i conti con Joe Thankers, un agile e scanzonato pistolero che, aiutato dal mezzo sangue Locomotiva Bill e dalla vagabonda Lucy, sconvolgerà i suoi piani criminali.
Tornato al western dopo l'indimenticabile Quien sabe?, l'eclettico Damiano Damiani si arrampica stavolta sugli specchi del burlesque. Di sicuro non è aiutato da una trama fitta di divagazioni - per quanto anche una certa sudditanza nei confronti di Leone, qui in veste di produttore (e col quale Damiani sembra avesse continui scazzi) deve aver contribuito a quel sentore di abborracciato che traspare dal prodotto finale. Ideologicamente il lungometraggio si pone ambizioni alte (siamo nel 1975, e il westen italiano è agli sgoccioli), poiché secondo il regista lo sguardo di simpatia verso gli indiani andrebbe traslato in chiave antinazista, ma il racconto si sviluppa in realtà più spesso nelle gradazioni della fiaba, con un impalco ironico sovente esilarante. Si gioca al ribaltamento dei luoghi comuni del western, anche se la parodia non tiene sempre come dovrebbe. Tutti gli ingredienti cari allo spaghetti-western ci sono e bastano comunque a far spettacolo: dalle partite di poker alle donnine da bordello, dai fagioli rumorosi alla Monument Valley (incredibile a dirsi, infatti, la chiusa del film poté essere girata nei luoghi mitici del western di matrice fordiana!) e ci si abbandona presto alla fantasia, rinunciando a decodificare il senso di tutto il carosello (aiutati dal dolce visino di Miou-Miou - reduce da I santissimi - nonché dal ghigno acheronteo di un sempre valido Klaus Kinski). Terence Hill fa sé stesso, mano lesta sul revolver e sguardo candido e sornione, forse con qualche surrealtà di troppo, però la musica di Morricone e i movimenti di macchina leoniana (pare il maestro li abbia girati, in parte, personalmente) rappresentano quel valore aggiunto che dona alla pellicola comunque un suo status di cult del genere.
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