giovedì 28 agosto 2008

The Prisoner, una serie di culto...


Nel 1967 Patrick McGoohan era all’inizio di una brillante carriera di action-hero, che comprendeva una serie tv di grande successo (Danger Man) e la proposta di interpretare James Bond, quando improvvisamente decise di abbandonarla. Perché? Devono averglielo chiesto parecchie volte. «Perché l’hai fatto?» Patrick McGoohan aveva un’ottima ragione. L’idea - elaborata con George Markenstein - per una nuova serie talmente coraggiosa, geniale e rivoluzionaria da risultare d’avanguardia ancora oggi, quarant’anni dopo.
The Prisoner, cult-serial considerato fra i vertici massimi della storia della tv, ha un incipit lineare, che diede a produttori e spettatori dell’epoca l’iniziale illusione di trovarsi davanti a una spy-story. Un uomo - presumibilmente un agente segreto - dà polemicamente le dimissioni, e viene di conseguenza rapito e imprigionato in una bizzarra comunità chiamata il Villaggio, dove sarà ossessivamente interrogato, costantemente spiato, e sottoposto a ogni sorta di coercizione, vessazione, e tortura fisica e psichica, nel tentativo di piegare la sua strenua resistenza, cancellare la sua identità, annientare la sua libertà di pensiero, e trasformarlo in un automa ubbidiente e integrato, in un numero. Il Numero Sei.

Il Villaggio però non è una semplice struttura detentiva, è qualcosa di molto più inquietante, qualcosa tra gli incubi di Kafka, e le visioni di Philip K. Dick. Una cittadella apparentemente idilliaca, e in realtà agghiacciante, dai contorni indefiniti e dall’ubicazione misteriosa, che respinge tutti i tentativi di fuga come una bolla spazio-temporale, interamente sorvegliata dalle telecamere e presidiata da misteriosi sferoidi che soffocano a morte gli indisciplinati. Un posto dove nessuno è ciò che sembra, e dove tutti diffidano di tutti, a cominciare da se stessi.  Il centro di un oscuro universo nel quale tutti i poteri, a prescindere dalla nazionalità, collaborano al mantenimento di un unico ordine mondiale concepito per trasformare gli esseri umani in oggetti, in intercambiabili rotelle dell’ingranaggio produttivo, insignificanti pedine sulla scacchiera della storia, anonime cifre negli archivi elettronici, dove tutto è schedato. 
Numeri. Uno scenario da incubo, la cui caratteristica più sinistra per lo spettatore è però l’innegabile familiarità. Ciò che si capisce infatti un episodio dopo l’altro, in un ipnotico crescendo allegorico-visionario, è che il Villaggio, con i suoi assurdi e ipocriti rituali sociali, i suoi gerarchi viscidi e arroganti quanto incapaci, la demenziale onnipresente propaganda, e la feroce repressione del dissenso, non è altro che la beffarda e accurata riproduzione in scala della nostra società, della nostra realtà, e che la prigionia del protagonista è una perfetta metafora della condizione umana.
Ben oltre qualsiasi etichetta di genere, e più di trent’anni in anticipo sulla trilogia di Matrix, The Prisoner è la prima serie tv ad ambientare interi episodi all’interno di realtà virtuali, generate dall’interazione fra cibernetica e allucinogeni; quasi quarant’anni in anticipo su Lost, è la prima serie tv a intrappolare il suo protagonista - e i suoi spettatori - in un perfido labirinto di sciarade, di domande in attesa di risposta. Da chi davvero dipendono tutti i Numeri Due, gli intercambiabili gerarchi transitori del Villaggio, ogni volta sconfitti dalla resistenza del protagonista? Chi è il Numero Uno? La risposta fondamentale arriva con l’ultimo dei diciassette episodi, interamente opera di McGoohan - come vari altri della serie -, il finale più discusso e più contestato della storia della tv, perché il più spiazzante. La verità.
The Prisoner non è solo un inno alla rivolta contro l’autorità, è un radicale, assoluto, cosmico inno alla rivolta contro il principio stesso di Autorità che risiede in ognuno di noi. Quella parte della nostra natura che ci spinge sia a cercare di dominare, che ad accettare di essere dominati, che ci fa plasmare il mondo nella forma di una prigione, e fa così di noi stessi il nostro primo tiranno. Il primo Demiurgo da sconfiggere, innanzitutto riconoscendolo. Quindi nel finale, durante una surreale, apocalittica sarabanda rivoluzionaria proto-sessantottina, il volto che il Prigioniero scopre sotto la maschera del Numero Uno è il suo. Poi lascia il Villaggio distrutto, che si rivela situato solo a due passi da Londra, e torna finalmente a casa. Al suo arrivo però la sua porta s’apre da sola, automaticamente. Come quelle del Villaggio.
Be seeing you.

(Autrice del pezzo: Alessandra Daniele, Fonte - carmilla.it)