Un posto tranquillo, illuminato bene è una raccolta di racconti di Ernest Hemigway (estratti più di un decennio fa dalla Mondadori dalla più completa raccolta i 49 racconti). Il linguaggio scarno e lavorato, il ritmo oscillante tra il dialogo diretto - sfrondato quasi completamente dei «disse» e dei «rispose» - e i flash descrittivi sul mondo circostante, sono le caratteristiche che fecero dello stile di Hem un prodotto profondamente innovativo per l'epoca e che influenzò tantissimo (e ancora influenza) generazioni di scrittori.
Ossessionato da un serpeggiante machismo - ma anche dalla propria inettitudine - lo scrittore amava trasporre nelle sue pagine il sentimento di perenne «perdita» che lo attanagliava (era convinto di avere troppo talento e di averlo utilizzato troppo poco). Nel racconto intitolato Un idillio alpino troviamo questo identico concetto espresso nel dialogo fra due turisti reduci da un'escursione in montagna.
«M'ero scordato il sapore della birra.»
«Io invece no,» disse John.
«Su alla baita, ci ho pensato un bel po'.»
«Mah,» dissi io, «adesso ce n'abbiamo.»
«Non si dovrebbe mai fare alcuna cosa troppo a lungo.»
«No. Siamo rimasti lassù troppo a lungo.»
«Troppo maledettamente a lungo,» disse John. «Non è bene fare una cosa troppo a lungo.»
Questo tema, di qualcosa che «si protrae troppo a lungo» - sia l'attesa della morte o sia la mancanza di birra - spunta con tanta frequenza e insistenza qua e là, in tutta l'opera di Hemingway, da indurci a ritenere che si tratti di un sintomo ben preciso. Il sintomo di un malessere che affligge alcuni personaggi hemingweyani - quelli cioè che vivono la vita con spirito da "dilettante" nel senso più vasto del termine, in netto contrasto con quei pochi "eroi" che invece vivono da professionisti, quale che sia la loro vocazione, quali che siano il loro mestiere e il loro talento. Gli uni, i dilettanti, sono destinati alla sconfitta - morale o materiale - sono insomma dei falliti, mentre gli altri - i professionisti - saranno invece dei vincitori, anche quando "non prendono nulla" (Winners Take Nothing è un celebre titolo di Hemingway) e saranno, anche quando soccombono, degli invitti. L'invitto (The Undefeated) è appunto il titolo di uno dei maggiori racconti di Hemingway. È la storia di un anziano torero alle sue ultime armi, Manuel Garcia. Quando Manuel Garcia, appena uscito dall'ospedale, si presenta a un impresario di corride, la sua posizione di "professionista" si delinea dalle primissime battute.
«Perché non ti cerchi un impiego e non ti metti a lavorare?»
«Non voglio lavorare. Sono un torero.»
Anche ai consigli dell'amico Zurito, che gli chiede perché non la smette e non si taglia la coleta (cioè la treccina caratteristica dei toreadores) Manuel Garcia risponde con la stessa tenace semplicità: «Non lo so. Ma devo.» E poi alla fine (sconfitto ma invitto) anche sul tavolo operatorio troverà in punto di morte la forza di opporsi al taglio di quel segno emblematico della sua professione e della sua illusione. Dilettante è, dunque, bene spesso sinonimo di "fallito" nel mondo di Hemingway. E il malessere che affligge i suoi falliti è soprattutto una "noia" di tipo speciale, diversa dalla noia romantica degli eroi di Stendhal, dal tedio filosofico di Leopardi, o dalla inerzia di Oblomov, per fare tre esempi disparati. La noia di marca hemingweyana deriva dalla mancanza di un ubi consistam, di un perno intorno al quale ruotino il senso del dovere, l'impegno, l'ideale insomma di una vita professionalmente vissuta. (dalla rete)
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