Il caos organizzato e postribolare delle favelas di City of god, l’umanità deragliata e iperviolenta di quella pellicola. Il luccichio nichelato di revolver troppo grandi per le mani dei ragazzi (bambini) che animano quel corposo affresco di un Brasile crudo e ferocissimo. Sono queste le immagini che Gomorra, il film che Garrone e Procacci hanno tratto dal libro di Saviano, riportano irrimediabilmente alla mente. Fin dalle prime, splendide inquadrature in primo piano del boss tamarro (il refrain neomelodico napoletano in sottofondo ne attesta irriducibilmente la tara antropologica) che verrà freddato senza pietà mentre si fa una lampada, ma anche nelle allucinanti riprese in campo lungo del complesso delle «Vele», vero e proprio asserragliamento della camorra nel capoluogo partenopeo in cui l’Antistato muove le sue pedine, esercita il suo potere, legifera i propri statuti. Lungo tutta la durata (più di due ore) del film s'intravedono giusto di sfuggita un paio di volanti della polizia mentre la camera a mano, seguendo spasmodicamente i personaggi come animali in uno zoo, diventa l'occhio di Roberto Saviano. Il personaggio che nel libro dice «io», guida il motorino e in un paio d’occasioni rischia la pelle, qui infatti si diluisce, scompare: nel lavoro di scarnificazione operato dal bravo regista de L’imbalsamatore, egli viene sostituito dall’obbiettivo della telecamera, che scruta i volti passando di luogo in luogo, di auto in auto e gradualmente, quasi a tradimento, lascia identificare con sé lo spettatore. Lo spettatore diventa Saviano, il suo sguardo diventa l'occhio che investiga ciò che il narratore scandagliava nel libro.
Molti i tagli, necessari, che pure rendono l’opera monca rispetto al libro (ma d’altronde ogni film è una riscrittura). Non ci sono i corpi dei cinesi che piovono dai container nel porto di Napoli, non c'è don Peppino, non ci sono i visitors, non c'è quasi niente di quello che rende Gomorra un'opera che scava dentro il Sistema, dandone dei particolari anche comici che altrove non avremmo trovato. Non c'è - forse - il medesimo gradiente di verità che rende unico lo sguardo dello scrittore, perché qui tutto è nudo; ma il film è bello, pieno di rumori di fondo, dominato da un senso dell'ineluttabile che lo attraversa dai titoli di testa a quelli di coda, e con un retrogusto di puro sconcerto che risale lento, letale, solo all’uscita dalla sala. (cit. porz. da Gli Spietati)
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