Nel 1991 Oliver Stone riesce a portare sullo schermo, dopo una lunga e complessa vicenda contrattuale legata ad un problema di diritti, le vicende di uno dei complessi più leggendari del rock americano: The Doors. Il film rientra a pieno titolo nel genere biografico che il regista americano ha utilizzato più volte (Nato il quattro luglio, Tra cielo e terra, JFK) per narrare un pezzo di storia americana e in particolare tutto il decennio a cavallo tra i sessanta e settanta, che fortemente influenzò gli americani della medesima generazione del regista. Il film di Stone rievoca la vita del gruppo, composto - oltre che da Morrison - da Ray Manzareck, John Densmore e Robby Krieger, dalla sua formazione intorno al 1967 sulle spiagge di Venice Beach a Los Angeles, fino al suo affermarsi tra il 1969-1970, per concludersi con l'abbandono di Morrison, il quale troverà la morte nella capitale francese dove verrà sepolto nel cimitero di Perè Lachaise accanto a Chopin, Wilde e Balzac. «Jim Morrison è una figura leggendaria della contestazione del sistema e ha significato molto per la mia generazione...» dice Stone, classe 1946, che all'acme del successo dei Doors era in Vietnam e là ascoltava la loro musica. Vent'anni dopo ha fatto un film da 30 milioni di dollari, lirico, con magniloquenti ambizioni tragiche, impregnato della musica dei Doors (25 pezzi del loro repertorio), che tocca molti temi politico-sociali che finiscono per assumere però un rilievo marginale rispetto alla figura di Morrison, la quale giganteggia nel film, apparendo come una macchietta a metà strada tra il guru e il cliché del maledetto votato all'autodistruzione. Tra fiumi di alcool e di droghe assistiamo all'ascesa e alla caduta del genio senza mai provare realmente empatia per il protagonista e senza che ci sia mai fornita una chiave per comprendere il segreto del suo genio creativo. Senz'altro valida è però la messa in scena del film, da un lato ritratto fedele di un'epoca, dall'altro trip allucinogeno e onirico che si avvale del magistrale lavoro del direttore della fotografia Robert Richardson, così come risulta convincente la prova di Val Kilmer, completamente immerso nel suo personaggio in un difficile lavoro di mimesi. La colonna sonora, inutile a dirsi, è straordinaria.
Tra le decine di recensioni che gridarono al miracolo e le altrettante numerose che tacciarono il film di una sostanziale quanto poco riuscita idolatria, rimane beffarda quella della sempre graffiante Lietta Tornabuoni su La Stampa: «Accentuata dai toni rossi o cupi, la visione di Oliver Stone della cultura giovanile degli anni sessanta è quella di un vicequestore: ci vede soltanto droga viziosa, perversione e promiscuità sessuale, pazzia, vomito e maleducazione».
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