Il «cinecomix», dopo i fasti dello Spider-man di Raimi e i vari Batman (ma il Diabolik di Bava risale ai '60), è ormai un genere cinematografico a sé stante che non smette di regalarci ad ogni stagione sorprese lietissime (il recente Iron Man è, senza ombra di equivoco, una di queste). In ragione di ciò andrebbero sicuramente dette due parole riguardo la Marvel Comics, la mitica Casa delle Idee che negli anni sessanta sfornò alcuni tra i più popolari eroi dei fumetti americani (i Fantastici Quattro, L’incredibile Hulk e gli X-Men tra i tanti, ma anche e soprattutto quel Blade - personaggio minore la cui trasposizione in pellicola per mezzo dell'interpretazione di un Wesley Snipes straordinariamente 'in parte' diede la stura al fenomeno) rivisitando in chiave originale lo stereotipo del supereroe classico alla Superman e conquistando all’arte del fumetto milioni di nuovi accoliti, anche nelle schiere dei suoi più fervidi detrattori. Da allora l’azienda statunitense ha collezionato numerosissime vittorie (ma anche qualche ingloriosa sconfitta) sulla sua principale concorrente, la DC Comics (alla quale invece si devono, oltre al kriptoniano dal mantello rosso su menzionato, anche personaggi come Batman, Lanterna Verde e Flash), grazie alla messa a punto di un universo solidamente strutturato, una visione compatta e innovativa che abbraccia tutte le serie regolari della casa editrice per mezzo della quale se in una storia di Thor esplode un meteorite, i frammenti ricadono sui cieli di Manhattan provocando disastri nelle storie dell’Uomo Ragno. È la cosiddetta «continuity», vero e proprio marchio di fabbrica della Marvel.
Parallelamente a questa produzione però, la Casa delle Meraviglie mise a fuoco sin quasi dagli esordi un ciclo di storie slegato dalla regolarità delle serie canoniche, immettendosi in un solco tracciato proprio dagli eterni rivali (che inaugurarono l’esperimento facendo sposare Superman con la eterna fidanzata Lana Lang). Queste storie, denominate What if (qualcosa tipo “Cosa sarebbe successo se…?”), hanno dato modo agli sceneggiatori di sbizzarrirsi con la fantasia, creando col tempo veri e propri cosmi alternativi in cui le origini e i destini dei personaggi “storici” venivano radicalmente rivoluzionati senza che ciò si ripercuotesse sullo svolgersi delle serie tradizionali.
La più innovativa filiazione di questo stratagemma è la linea Ultimate: un universo in cui molti dei fantastici SuperUmani della Marvel rinascono senza 40 anni di continuity alle spalle, pronti a ricominciare da un grado zero le loro carriere ma in maniera nuova, più dinamica e al passo coi tempi. L’avvio alle danze è avvenuto proprio con Spiderman, in una versione ultimate opera dello scrittore Brian Bandis cui Sam Raimi ha sicuramente guardato con attenzione mentre girava il suo primo, incomparabile film sull’aracnide più conosciuto del mondo. Successivamente è toccato alla squadra mutante degli X-men, altra testa di ponte delle vendite Marvel, tradotti in veste ultimate da un talentaccio di nome Mark Millar. Poi, finalmente, è toccato alla supersquadra dei Vendicatori (Avengers), che all’epoca nacque come risposta alla Lega della Giustizia della DC Comics, e, come quest’ultima, riuniva nella lotta contro il male i più quotati eroi dell’azienda.
La loro versione aggiornata, anch’essa affidata a Mark Millar e a un disegnatore mozzafiato che risponde al nome di Brian Hitch, vede sfilare (proprio come nell’originale) pezzi da novanta del calibro di Iron Man, Thor, Capitan America, Giant Man, Wasp e Hulk. Se nella versione ufficiale costoro sono il fedele specchio dei tempi in cui sono nati eroi quindi nettamente schierati dalla parte del bene, pur con la dovuta dose di rovelli esistenziali che contraddistingue ogni carattere Marvel, i “Vendicatori ultimate” (chiamati semplicemente «The Ultimates») sembrano essere usciti da un episodio di Melrose Place, realizzato però col budget di Indipendence Day.
Dove nell’originale c’era una divinità ultra potente (Thor), qui c’è uno hippy no-global pieno di muscoli volto a combattere lo strapotere del capitalismo. Giant-Man, che era la rappresentazione della scienza al servizio della legge, qui è un arrivista rampante avido di successo che picchia la moglie (Wasp). Se Hulk era un concentrato di potenza che anelava solo ad essere lasciato in pace, qui è un mostro arrapato pieno di rancore, mentre Iron Man resta sì un playboy miliardario col vizio dell’alcol, ma qui è dedito alla causa solo perché ammalato di cancro. Capitan America poi, il SuperSoldato simbolo del patriottismo yankee, anche se apparentemente identico a quello degli Anni d’Oro, si rivela, nella gustosissima trama intessuta da Millar, l’ennesima pedina del Governo: tutta la squadra dei Vendicatori è una gigantesca operazione di marketing operata dai potenti per illudere la popolazione di poter vivere sonni tranquilli, ma l’unica minaccia cui i Vendicatori sembrano doversi difendere davvero è la squadra dei Vendicatori stessa.
Nel fumetto, poi, non si contano le presenze eccellenti: modelle, vip e divi di vario genere (spesso di estrazione hollywoodiana) attraversano la storia relazionandosi coi membri del supergruppo e persino il presidente Bush compare in uno dei fastosi party del miliardario Iron Man a rappresentare se stesso con tutta la sua verve da guerrafondaio del Texas. Il colonnello Nick Fury infine, altro personaggio “storico” della casa editrice, ha qui il volto (nero, mentre l’originale era bianco) di Samuel Jackson e, in uno straordinario gioco di metaletteratura, in una vignetta pronuncia la frase: «Facessero un film su di noi, sceglierebbero sicuramente Samuel Jackson per la mia parte!» (suggerimento che John Fevrau, regista di Iron-man ha colto in pieno facendo fare all'attore un cammeo proprio nella parte del roccioso colonnello!).
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