(In occasione della prima diffusione di immagini dal film in realizzazione - qui -, mi permetto di ricicciare una splendida analisi del capolavoro anni '80 di Alan Moore. L'ho pescata tra gli articoli di Massimo Gardella sul sito Carmilla).
Nel 1986 esce il primo numero di Watchmen, scritto da Alan Moore e illustrato da Dave Gibbons, e il mondo dei supereroi cambia per sempre. Soprattutto perché Watchmen, ripubblicato in un bel volume da Planeta-De Agostini, ribalta la facciata dei supereroi, e ancora di più perché non si tratta di un “fumetto” nell’accezione più pop del termine. L’universo in cui si muovono Nite Owl (Gufo Notturno), Rorscharch, il Dottor Manhattan, il Comico e Spettro di Seta è una distopia della nostra società, un affresco che parte in maniera filologica con i testi di storia dagli anni ’30 e prende un’inaspettata deviazione nel ’59 (anno in cui tra l’altro fu pubblicato Tempo fuori luogo – o Tempo fuor di sesto, per rispettare la citazione shakespeariana del titolo originale Time Out of Joint – di Phiip K. Dick), anno di nascita, o per meglio dire di rinascita, del 37enne fisico nucleare Jonathan Osterman che in seguito a un incidente di laboratorio in cui viene disintegrato in una camera fotonica ritorna nella forma di una coscienza superiore e viene battezzato dal governo degli Stati Uniti (Nixon in carica) come Dottor Manhattan.
L’annuncio dei media - che mette fine all’epoca dei giustizieri mascherati, uomini e donne atletici ma senza poteri di alcun tipo, veri e propri vigilanti in costume aderente che esercitano violenza fisica sui criminali, usando il luogo-città come un gigantesco ring come il primo Batman di Bob Kane - è esemplare: «Il superuomo esiste, ed è americano».
Nell’escalation nucleare della Guerra Fredda, il Dottor Manhattan è l’arma segreta degli Usa per ostacolare l’imperialismo sovietico, ma non si rende conto di essere uno strumento per i piani di conquista del suo governo. Questo essere straordinario, in grado di vedere i neutrini a occhio nudo, un bambinone senziente alla Salinger elevato al cubo, innocente e con un senso bloccato della morale “umana” e per questo più sensibile delle sue controparti di carne e sangue, è in grado di fondere carri armati e smantellare armi con un gesto delle mani; devastare ampie porzioni del territorio “nemico” con un cenno del capo, fermare il sessanta per cento delle testate nucleari russe in volo verso l’America; può viaggiare da un luogo all’altro senza spostarsi fisicamente, piegare le leggi dello spazio-tempo alla ricerca della sua perduta umanità sensoriale e infine scegliere, nell’86 durante gli anni del reaganismo sfrenato, di andare in esilio volontario su Marte, il pianeta “rosso”, e costruire un santuario di sabbia aliena cristallizzata in una struttura che nemmeno Frank Gehry potrebbe concepire, un mausoleo che richiama – credo volontariamente – la forma estetica del palazzo reale di Jo-Rel, padre del ben più noto Supeman, su Krypton.
Watchmen è un’opera grandiosa. Non è un graphic novel e tanto meno un fumetto, non è un romanzo anche se tra ognuna delle serie di tavole (corrispondenti ai 12 numeri in cui uscì) il talento di Moore come puro narratore di fiction si manifesta in una serie di esercizi letterari complementari all’arte figurativa, con stralci dalla biografia Dietro la maschera di Hollis Mason, il primo Nite Owl, ex vigilante mascherato che racconta aneddoti e retroscena del mondo in cui il lettore è catapultato, e il fallimento dell’utopia di giustizia spicciola (quasi una ragazzata) quando l’annuncio dell’esistenza del Dottor Manhattan ha trasformato i vigilanti in figure desuete.
Ma Osterman-Manhattan è solo uno dei personaggi indimenticabili di quest’opera che rappresenta – parafrasando il titolo di un film di Spielberg – un esempio virtuoso di A.I., Arte Intelligente.
Nite Owl II, alias Daniel Dreiberg, è figlio di un banchiere facoltoso, laureato in ingegneria aeronautica ad Harvard e appassionato di ornitologia (dopo il pensionamento da giustiziere collabora svogliatamente con alcune riviste del “settore”). Daniel ha investito il proprio denaro nella costruzione di una macchina volante dotata di tutti i gadget che possiamo immaginare nella tecnologia fantasiosa dei fumetti: lanciafiamme, missili terra-aria, schermo anti-radiazioni, modalità stealth, fumogeni eccetera; una specie di Batmobile volante che ha chiamato Cleto (da Anacleto, il gufo del cartone animato Disney sul giovane Artù La spada nella roccia). Immaginate una specie di Lapo Elkann illuminato che sfrutta la sua fortuna per commissionare agli ingegneri Fiat un mezzo di trasporto avveniristico e che si aggira per le strade di Torino in cappa e maschera pestando a sangue spacciatori, stupratori e delinquenti e salvando gente da palazzi in fiamme.
Poi arriva lui, Rorscharsch. Considerato folle dai suoi stessi compagni, estremo nelle scelte di risoluzione del Male (uccide i criminali senza farsi troppi problemi), anarchico fino al midollo e squassato da ossessioni millenaristiche, ricercato dalla polizia per i suoi metodi brutali e tacciato di appartenere ideologicamente all’estrema destra; Rorscharch se ne va a zonzo per New York con un impermeabile alla Marlowe, cappello tipo Borsalino e con il volto celato da una maschera di latex morbido con stampigliata sopra una delle famose “macchie” che gli danno il nomignolo di battaglia. La sua identità e la sua storia, che non riveliamo qui per non togliere la sorpresa della scoperta, sono uno dei capitoli più belli del volume. Impossibile non interrompere temporaneamente la lettura e riflettere sulla sua vicenda, uno di quei personaggi maledetti che gonfiano il cuore per l’empatia della sofferenza da lui patita e che nessuno all’interno dell’impianto narrativo conosce, solo il lettore, che può osservare a distanza la sua evoluzione sapendo che non aveva altra scelta se non essere disgustato dal mondo.
Ed è proprio questo il carattere più forte di Watchmen, la descrizione intima e lucidamente spietata della società contemporanea, evolutasi in un pot-pourris di insensata e crudele volgarità, con la consapevolezza che siamo tutti colpevoli.
La trama, quasi impossibile da ridurre in sinossi, prende avvio dall’omicidio di Edward Blake, alias il Comico, un altro “eroe” mascherato ucciso nel suo appartamento da un aggressore sconosciuto. Il Comico era stato l’unico tra i vigilanti a comprendere che il mondo stava precipitando in un cinico abisso di violenza, governato dal concetto di guerre preventive che avreebbero sconfessato la possibilità di un conflitto ultimo e definitivo, e lui stesso si era lanciato in imprese considerate “eroiche” dal governo (stragi in Vietnam, assassinii politici e via dicendo) perché conscio che non ci fosse altra via d’uscita.
Qualcuno sta eliminando uno a uno i giustizieri mascherati. Chi sarà? Uno dei loro nemici del passato come Edgar Jacobi, alias Moloch il Mistico, che nell’86 è un vecchio derelitto uscito di prigione e mangiato vivo da un cancro incurabile? L’unico che sembra preoccuparsi della faccenda è Rorscharch, ma viene arrestato dalla polizia dietro una soffiata anonima. E cosa c’entra Shea, lo sceneggiatore di fumetti uscito di casa due anni prima e scomparso nel nulla? Autore di storie deliranti sui pirati che richiamano il William Burroughs de Le città della notte rossa e quasi dadaiste nella loro primitiva e libera violenza, forse memori del Greil Marcus di Tracce di rossetto.
È in produzione la versione cinematografica di questo capolavoro dell’arte contemporanea, firmata dallo Zack Snyder di 300, tratto da Frank Miller. Certo, il giovane cineasta ha svolto un ottimo lavoro interpretativo delle Termopili à la Gotham City, ma il graphic novel di Miller era breve, intenso e perfetto per uno svolgimento narrativo da blockbuster. Nel caso di Watchmen c’è da stare molto attenti... come per It di Stephen King, qui si rischia di banalizzare un capolavoro e trasformarlo in un sottoprodotto di ricezione massificata, il che non significa gloriarsi della “nicchia”, ma non avere rispetto per quella che è e rimane un’opera molto complessa e uno dei rari casi in cui la trasposizione cinematografica non è stat pre-pensata dagli autori.
Moore e Gibbons – strizzando l’occhio a Giovenale – non hanno mai avuto più ragione di così: Chi sorveglia i sorveglianti?
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