(in occasione della vittoria dello Strega del conterraneo Lagioia col suo notevolissimo La Ferocia, riprendiamo l'interessante intervista fattagli poco tempo fa da Mario Desiati)
A vent'anni dalla vittoria di Maria Teresa Di Lascia, un pugliese può vincere il più importante premio letterario italiano. Nicola Lagioia con quasi 200 voti ha sbancato la prima votazione per la cinquina dello Strega. Un romanzo che ha conquistato la giuria. Lo incontro dopo un convegno sulla narrativa italiana tenuto in occasione dell'uscita della nuova edizione di Scrittori e Popolo (Einaudi) di Alberto Asor Rosa.
Del tuo lavoro di scrittore ho sempre ammirato la pazienza e la lungimiranza, tra un romanzo e un altro fai passare tanto tempo, è cambiato qualcosa in questi anni?
«Scrivo e riscrivo pagine. Cancello interi capitoli o li smonto, poi li rimonto. E non mollo mai il libro perché ho paura che la magia, il magnetismo che mi lega alla storia che sto raccontando, possa svanire. Confesso che nei momenti più bizzarri mi capita di calcolare quanto potrebbe mancare statisticamente alla mia morte, e rapportare il risultato ai libri che potrei scrivere. A un certo punto ero talmente ossessionato dal rapporto morte/libri da scrivere, che ne ho parlato con un'analista».
E di questo sembra portarne tracce La Ferocia, un romanzo complesso. Gli scrittori a volte rinunciano a una scrittura più ricercata per la paura di perdere lettori, hai mai fatto un ragionamento su pubblico e stile?
«Mi sento spesso come uno che al casinò ha perso tutto, gli rimane l'ultima fiche e a questo punto tanto vale puntarla sul meno probabile dei numeri, così se non esce pace, ma se esce sei salvo. E allora, mi sono detto, se ti fidi davvero della letteratura, prova a scrivere il miglior libro di cui sei capace, non rinunciare alla complessità, alle sfumature, alla ricerca sulla lingua, non scegliere una situazione di compromesso ma sii anche molto rigoroso: complessità non significa briglia sciolta, anarchia, scarso controllo di lingua e struttura. Significa gettare il cuore oltre l'ostacolo. Mi sono molto allenato, e concentrato, e ho poi visto la pallina scagliata sulla roulette in corsa, e solo allora ho chiuso gli occhi».
E come una pallina della roulette giri l'Italia, alcune settimane fa hai scritto un saggio sulle librerie indipendenti italiane raccontando la parabola sull'importanza dello sbagliare in un'era dove si rischia di chiudersi in torri d'acciaio. È lì la speranza?
«Sì, credo che la speranza stia nel mettersi in gioco. I rigori li sbaglia solo chi ha il coraggio di tirarli. Vedo invece l'assenza di speranza nella pretesa di purezza assoluta, che - a meno di non essere dei veri santi - quasi sempre è una forma di fanatismo o di vigliaccheria o di megalomania fallimentare. Quelli che si tengono fuori da ogni gioco, e così possono trascorrere la vita alla finestra a sparare sentenze contro tutto e tutti. Una condizione tristissima, e anche molto diffusa oggi. Invece bisogna cercare di gettarsi nel mondo e farlo nel migliore dei modi che ci è concesso: con un po' più del coraggio che ci è dato, e anche di perseveranza e anche di stile, se possibile. Insomma, bisogna spendersi, e anche educarsi a essere generosi».
A vent'anni dalla vittoria di Maria Teresa Di Lascia, un pugliese può vincere il più importante premio letterario italiano. Nicola Lagioia con quasi 200 voti ha sbancato la prima votazione per la cinquina dello Strega. Un romanzo che ha conquistato la giuria. Lo incontro dopo un convegno sulla narrativa italiana tenuto in occasione dell'uscita della nuova edizione di Scrittori e Popolo (Einaudi) di Alberto Asor Rosa.
Del tuo lavoro di scrittore ho sempre ammirato la pazienza e la lungimiranza, tra un romanzo e un altro fai passare tanto tempo, è cambiato qualcosa in questi anni?
«Scrivo e riscrivo pagine. Cancello interi capitoli o li smonto, poi li rimonto. E non mollo mai il libro perché ho paura che la magia, il magnetismo che mi lega alla storia che sto raccontando, possa svanire. Confesso che nei momenti più bizzarri mi capita di calcolare quanto potrebbe mancare statisticamente alla mia morte, e rapportare il risultato ai libri che potrei scrivere. A un certo punto ero talmente ossessionato dal rapporto morte/libri da scrivere, che ne ho parlato con un'analista».
E di questo sembra portarne tracce La Ferocia, un romanzo complesso. Gli scrittori a volte rinunciano a una scrittura più ricercata per la paura di perdere lettori, hai mai fatto un ragionamento su pubblico e stile?
«Mi sento spesso come uno che al casinò ha perso tutto, gli rimane l'ultima fiche e a questo punto tanto vale puntarla sul meno probabile dei numeri, così se non esce pace, ma se esce sei salvo. E allora, mi sono detto, se ti fidi davvero della letteratura, prova a scrivere il miglior libro di cui sei capace, non rinunciare alla complessità, alle sfumature, alla ricerca sulla lingua, non scegliere una situazione di compromesso ma sii anche molto rigoroso: complessità non significa briglia sciolta, anarchia, scarso controllo di lingua e struttura. Significa gettare il cuore oltre l'ostacolo. Mi sono molto allenato, e concentrato, e ho poi visto la pallina scagliata sulla roulette in corsa, e solo allora ho chiuso gli occhi».
E come una pallina della roulette giri l'Italia, alcune settimane fa hai scritto un saggio sulle librerie indipendenti italiane raccontando la parabola sull'importanza dello sbagliare in un'era dove si rischia di chiudersi in torri d'acciaio. È lì la speranza?
«Sì, credo che la speranza stia nel mettersi in gioco. I rigori li sbaglia solo chi ha il coraggio di tirarli. Vedo invece l'assenza di speranza nella pretesa di purezza assoluta, che - a meno di non essere dei veri santi - quasi sempre è una forma di fanatismo o di vigliaccheria o di megalomania fallimentare. Quelli che si tengono fuori da ogni gioco, e così possono trascorrere la vita alla finestra a sparare sentenze contro tutto e tutti. Una condizione tristissima, e anche molto diffusa oggi. Invece bisogna cercare di gettarsi nel mondo e farlo nel migliore dei modi che ci è concesso: con un po' più del coraggio che ci è dato, e anche di perseveranza e anche di stile, se possibile. Insomma, bisogna spendersi, e anche educarsi a essere generosi».
La Puglia vive un periodo particolare, la penultima regione d'Italia come lettori, alcune biblioteche rischiano di chiudere, tu hai scritto mesi fa un articolo che evidenziava l'equivoco di quella che un tempo è stata definita la primavera pugliese. Oggi sei più ottimista o pessimista?
«Sono più pessimista di qualche anno fa. La Primavera pugliese non è finita grazie al cielo come quella di Bassolino. Siamo stati molto meno avventati, ma siamo riusciti a recuperare la nostra migliore identità: quella che passa da Tommaso Fiore, da Rocco Scotellaro, da Vittorio Bodini, da Carmelo Bene, da Pino Pascali, da Gaetano Salvemini e così via. È altrettanto innegabile, però, che questa Primavera siamo riusciti magari ad accenderla ma non a farla decollare. Altrimenti le statistiche non sarebbero quelle. La Puglia è ancora una regione povera. Insieme con Calabria, Campania e Sicilia, siamo la regione col più basso pil pro capite d'Italia. Le vecchie signore che, in uno stato di indigenza, tengono puliti i lastricati dei nostri paesini (non limitandosi dunque a casa propria) trasformano la povertà in lindore, e dovrebbero essere una lezione per tanti nostri amministratori».
A proposito di premi, tu eri giurato al Premio Bari.
«L'esperienza al premio Bari per me fu molto bella. Fu l'occasione di confrontarmi con dei fratelli maggiori. Lo considerai un privilegio e cercai di imparare il più possibile. Ricordo a esempio l'impegno (su questo fronte in particolare Raffaele Nigro spese molte energie) per far venire a Bari scrittori di fama internazionale. Ricordo le chiacchierate con Vito Amoruso sulla letteratura nordamericana. Fu ottimo, in quel contesto, il lavoro dell'allora assessore alla cultura Nicola Laforgia. Anche questo va ricordato, visto che l'esperienza fu interrotta sul più bello».
(l'originale qui su Repubblica.it)
5 commenti:
Il rapporto libro -morte conferma la teoria dei libri di sangue di Clive Barker e Frankie hi-nrg. Ci sfogliamo e ci leggiamo l'un l'altro fino alla parola fine. Affascinante, ma x il vigliaccone ben desto tra le mie paginette non così seducente: posso perdere i sensi guardando impanare un pettino di pollo e l'idea di attaccare una prefazione scritta in inchiostro rosso trascende ogni mio controllo, come diceva Valmont. Non ho letto il libro del signor Lagioia , ma sono in partenza x due settimane di vacanza e se troverò un chiosco/emporio/drugostore fornito sulla via dove comperare latte e burro di yak o chiedere perchè è così difficile il roaming a seimila metri di quota non mancherò di comperare La Ferocia perchè nell'intervista ho trovato spunti x racconti che mi piacerebbe leggere ed il mio neurone solitario sta già baloccandosi con un remake di un vecchio fumetto di guerra di Joe Kubert in cui un vecchio critico se ne sta alla finestra e guarda sotto il movimento di scrittori giovani che osino lanciare il cuore oltre l'ostacolo fino al momento in cui si alza in piedi x lanciare una sentenza definitiva all'indirizzo di un tizio che ha provato a titillare il suo pubblico con una prosa sciatta, ultimo atto prima di fare ciao ciao al proprio vecchio nobile cuore.
Ed anch'io dico ciao ciao.
Crepa ma non dimenticare un western-pugliese tra i tuoi acquisti, mi raccomando :-)
Federico Fellini in una intervista raccontò di aver trovato un Moravia in uno spaccio al Polo Nord.
Mai dimenticare i western pugliesi.
Fabio
@Fabio ti immagini se alla prossima tornata sfornassi un bel fuilletton d'amore? (Niente illusioni: sono a metà del nuovo lavoro e garantisco violenza western :-)
Posta un commento