ingiustamente finito nell'oblio (oppure, al peggio, definito dai cultori del cineasta «uno scivolone»), il vibrante Wild Bill, diretto con la consueta bravura da Walter Hill, è un film del 1995 interamente dedicato alla figura mitica dell' ammazza-cristiani più noto d'America: quel James Butler Hickok che dopo una vita di duelli faccia a faccia morì nella polveriera di Deadwood, anno del Signore 1876, colpito vigliaccamente alle spalle mentre stringeva una mano di poker (che da allora i gamblers di tutto il mondo chiameranno in suo onore «mano del morto»).
Hill realizza questa pellicola partendo dal racconto Deadwood, del formidabile scrittore southern-noir Pete Dexter, nonché dalla pièce Fathers and Sons di Thomas Babe, e per tutta la prima, splendida mezz’ora sembra voler fare tabula rasa di tutto il sacrario iconografico costruito dalla leggenda attorno al personaggio storico facendoglielo attraversare con incontrollabile furia omicida - la serie di scontri in cui l’infallibile tiratore fa fuori un pellerossa, cinque cacciatori di pelli tra i ghiacci, un gruppo di texani, un vecchio sulla sedia a rotelle cui aveva rubato la donna e financo il suo vice. Poi Bill si ritira a Deadwood, e il film muta, sedimenta, si trasforma in un western da camera un po' beckettiano, sin troppo in debito con le atmosfere crepuscolari de Il pistolero (1976) di Don Siegel - opera fondante per la modernità del genere western e ultimo, monumentale lungometraggio con John «il duca» Wayne protagonista.
Dunque il regista del Michigan riprende con Wild Bill il discorso aldrichiano del suo precedente film Geronimo (1993) e che poi metterà a punto nel cazzutissimo Ancora vivo con Bruce Willis (1996), contribuendo di fatto alla sostanziale rimodulazione dei canoni western nel cinema moderno avvenuta nell'arco dei ’90, aperti non a caso da Balla coi Lupi di Kostner (1990) per poi continuare con Gli Spietati di Eastwood (1992), Posse di Mario Van Peebles (1993), Wyatt Earp di Lawrence Kasdan (1994), Pronti a morire di Sam Raimi (1995), Dead Man di Jim Jarmusch (1995). In Wild Bill, Hill sfodera la sua proverbiale crudeltà siglando l’epitaffio del genere.
Il Bill Hickock interpretato magistralmente da Jeff Bridges ha un glaucoma che presto lo condurrà alla cecità, il suo biografo (sua la voce fuori campo che ripercorre le vicende) incarnato da John Hurt zoppica e avanza per mezzo d'un bastone, mentre il suo acerrimo nemico è ridotto in carrozzella. Relitto geriatrico pronto per la tumulazione - il western così come il protagonista del film - non riesce a farsi ammazzare né a suicidarsi e si trascina stancamente lungo vie sterrate e fangose, mentre le spalle sono appesantite da una mole ingombrante di ricordi difficili da sopire. I frequenti flashback in bianco e nero, sovraesposti e resi quasi accecanti, simulano la difficoltà del personaggio nel districarsi tra i bivi della propria esistenza al tramonto, mentre il deficit di messa a fuoco accentua la distanza con un passato oramai privo di senso, buono solo ad affollare di stanchi memorabilia il permanente Museo del Mitico Far West. E il protagonista rimane quindi così solo, abbandonato (egli come l'intero genere, appunto), ad annaspare nella polvere, invocando una fine che grazie a Dio non arriva mai! Bello.
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