L’impresa parte subito in salita nonostante la disponibilità ufficiale di Franco Nero a vestire per la seconda volta i panni del pistolero con la bara. Non deve neppure fingere che il tempo non sia passato perché l’ambientazione temporale della nuova pellicola è collocata esattamente vent’anni dopo la prima impresa. Con qualche intoppo nel reperimento dei fondi, il film entra finalmente in produzione con un soggetto che prevede l'eroe ritiratosi in convento, costretto a riabbracciare le armi in seguito al rapimento della figlia.
Rossati cerca di aggiornare le coordinate del personaggio rimestando nel calderone degli stereotipi del genere con la volontà di rinverdire i fasti di un cinema, quello nostrano, ormai irreversibilmente annichilito dall'allora nascente strapotere della tv. Così facendo però contamina e fraintende i codici del western all’italiana confezionando un action che guarda - senza averne il budget - ai grossi successi del periodo. Il Django rossatiano, con i lunghi capelli come Keoma trattenuti in un codino, assomiglia infatti più al Rambo di Stallone che al Sandokan di Sollima, anche se il contesto in cui è calato non è più quello della Frontiera ma spazia negli orizzonti pirateschi di un Sudamerica torrido e indefinito. Non utilizza più la bara per trasportare la sua mitica mitragliatrice, bensì un più scontato carro funebre.
L'opera, alla fine, non è malcongegnata, anzi offre allo spettatore più di qualche interessante suggestione visiva, ma non ha né i tempi né le caratteristiche del primogenito, distaccandosi dal quale finisce involontariamente per celebrare una sorta di tardivo funerale al genere che per più di un decennio (il cavallo tra i Sessanta e i Settanta) aveva movimentato e reso universale il nostro cinema. Col senno di poi, forse questo strano Django 2 - Il grande ritorno avrebbe meritato maggior gloria perché gli attori sono ben assortiti, con un Christopher Connelly a suo agio nei panni del villain e un Nero ancora tonico e convincente. Ma è la costruzione drammaturgica del film a risultare insulsa e fallace, a partire da situazioni spesso gratuitamente grottesche fino al triplice deus ex machina (la schiava nera che origlia, le bolas del ragazzo, l'arrivo del becchino) assolutamente implausibile che fa da preambolo all'ancor più incredibile massacro finale. Funzionano bene gli interpreti principali, lo ribadiamo, ma la media delle comparse (con tutta probabilità trovate in loco, cioè in Colombia) è davvero miserrima e il tanfo della cialtroneria delle maestranze (una volta fiore all'occhiello della nostra cinematografia e ormai in dismissione) ammorba ogni dannatissimo frame della pellicola. So goes life!
L'opera, alla fine, non è malcongegnata, anzi offre allo spettatore più di qualche interessante suggestione visiva, ma non ha né i tempi né le caratteristiche del primogenito, distaccandosi dal quale finisce involontariamente per celebrare una sorta di tardivo funerale al genere che per più di un decennio (il cavallo tra i Sessanta e i Settanta) aveva movimentato e reso universale il nostro cinema. Col senno di poi, forse questo strano Django 2 - Il grande ritorno avrebbe meritato maggior gloria perché gli attori sono ben assortiti, con un Christopher Connelly a suo agio nei panni del villain e un Nero ancora tonico e convincente. Ma è la costruzione drammaturgica del film a risultare insulsa e fallace, a partire da situazioni spesso gratuitamente grottesche fino al triplice deus ex machina (la schiava nera che origlia, le bolas del ragazzo, l'arrivo del becchino) assolutamente implausibile che fa da preambolo all'ancor più incredibile massacro finale. Funzionano bene gli interpreti principali, lo ribadiamo, ma la media delle comparse (con tutta probabilità trovate in loco, cioè in Colombia) è davvero miserrima e il tanfo della cialtroneria delle maestranze (una volta fiore all'occhiello della nostra cinematografia e ormai in dismissione) ammorba ogni dannatissimo frame della pellicola. So goes life!
3 commenti:
Ted Archer dormicchiava dietro la sua scrivania di annusapatte a ore - come avrebbe detto il suo collega Pepe Carvalho - nel crepuscolo di una domenica di inizio marzo. Il televisore era ripieno di bruscoli e di ronzii, ma ogni tanto si distinguevano le voci di Kirk e Spock a zonzo x un pianeta dove tutti, ma proprio tutti si comportavano come gangsters dei ruggenti anni venti. Lew, il fratello di Ted, era un altro detective privato, che incappava immancabilmente in conflagrazioni edipiche alla fine di arabeschi da tragedia greca. Ted - a dispetto del cognome da transfuga di Sherwood - non centrava un bersaglio da quando gli spaghetti - western erano "il" western e si addormentava spesso davanti ad una cofana di pasta che la sua segretaria fac totum - combo di donna cannone di De Gregori e del tenente Uhura di Star Trek - gli preparava da sempre, come una mamma.
A quell'ora non era mai capitato un cliente.
Ultima Frontiera spalancò la porta con un calcio, allontanò dalla dx il poncho con un movimento brusco ed iniziò a sparare contro lo schermo del portatile, urlando che Leo Nimoy era un chirurgo pericoloso e che non era sufficiente, come aveva fatto Peter Falk, arrestarlo prima dei titoli di coda. Ultimate Uhura sbucò dalla cucina con una derringer x zampona. Centrò il bersaglio - caratteristica che non divideva con Ted - che rimbalzò contro la parete prima di sedersi ripiegato come un messicano alla siesta in un cartone di Speedy Gonzales. Rapida, UU rimise le pistole bonsai nelle fondine prima di rispondere ad Ultima Frontiera che Falk è un pulotto e non un boia: l'uovo di Colombo. So goes life.
@Crepa: ovviamente, la chiusa del post è un omaggio al tuo situazionismo farneticante :-))))
Sono commosso. E senza parole. La prima circostanza non è rara, la seconda sì.
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